La guerra di Trump: l’esordio in Siria del Presidente
- 07 Aprile 2017

La guerra di Trump: l’esordio in Siria del Presidente

Scritto da Alberto Prina Cerai

4 minuti di lettura

Circa alle 3:45 ora italiana, due unità della U.S Navy di stanza nel Mediterraneo a largo delle coste della Siria hanno sferrato un’offensiva contro la base aerea dell’esercito siriano di Al Shayrat, sospettata secondo le fonti del Pentagono di aver orchestrato l’attacco di martedì con l’utilizzo di armi chimiche che ha provocato la morte di circa 86 civili. Il presidente americano Donald Trump in una conferenza stampa indetta questa notte ha rivendicato e giustificato il suo ordine di ingaggio in nome della difesa dell’interesse nazionale americano per scongiurare, in funzione di deterrenza, la proliferazione delle armi chimiche del regime di Assad e ha sfruttato tale occasione per invocare il totale appoggio delle nazioni alleate degli Stati Uniti per mettere fine al bagno di sangue che si protrae ormai da sette ininterrotti anni.

Una retorica che sicuramente non ci illumina sulla ratio di una tale presa di posizione, che ha ulteriormente aumentato la percezione dell’imprevedibilità presidenziale in tema di politica estera. L’assertività e la selettività dell’attacco – l’utilizzo di 59 missili Tomahawk e la decisione di non affidarsi ad un bombardamento aereo per minimizzare i costi politici e militari, scongiurando così escalation pericolose con le truppe siriane e russe presenti sul territorio – può essere forse ricondotta alla volontà di punire il regime siriano per non aver rispettato i termini degli accordi sull’utilizzo delle armi chimiche. Un tema che aveva già impegnato l’amministrazione Obama nel 2013 con la famosa retorica della “red line”, alla quale però non era seguita un’azione punitiva di queste proporzioni. Le ragioni di questa improvvisa decisione probabilmente vanno interamente ricondotte al brutale sterminio di martedì mattina: gli 86 civili periti hanno forse rivitalizzato l’anima interventista-unilateralista sopita del presidente, che durante la campagna elettorale aveva più volte promesso di accantonare – nell’ottica dell’America First – se non nella lotta serrata allo Stato Islamico. Lungi dall’equiparare l’operato di Trump all’unilateralismo indiscriminato di George W. Bush in Iraq e Afghanistan, sicuramente questa iniziativa segna una decisa sterzata per la politica estera americana rispetto all’atteggiamento offerto nei suoi primi cento giorni; a differenza di Obama, il cui approccio in Medio Oriente era stato segnato dalla volontà di disimpiegarsi e de-militarizzare la regione, lasciando così, per molti critici, incautamente mano libera alla Russia, Trump ha disatteso ogni previsione. La questione principale sarà capire quanto questa operazione sia legata ad una grand strategy di ampio respiro oppure se sia stata solamente un atto deliberato per riaffermare la leadership americana. Vendicare in un’azione di rappresaglia le atrocità di Idlib, in una regione in cui l’interesse americano si è negli ultimi anni di fatto affievolito, si discosta notevolmente dalle dichiarazioni del presidente Trump durante la campagna elettorale; ci saremmo aspettati tutt’altra politica, più rivolta alla ricerca soft di un dialogo per la risoluzione del conflitto siriano e una maggiore cooperazione nella tanto sbandierata lotta al terrorismo internazionale tra Russia e Stati Uniti.

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Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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