La storia raccontata. Intervista a Cesare Bermani
- 02 Settembre 2024

La storia raccontata. Intervista a Cesare Bermani

Scritto da Andreas Iacarella

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Cesare Bermani è uno storico che è difficile definire in poche parole. Qualche anno fa, gli è stato dedicato un volume dal titolo felice, La libera ricerca di Cesare Bermani (DeriveApprodi 2012), che sembra riassumere il senso di tutta una vita di studio, lavoro e impegno politico. Classe 1937, militante del Partito Comunista Italiano dal 1955 al 1970, per poi passare a Il manifesto e Rifondazione Comunista. Nel 1963 Bermani fu coinvolto dall’etnomusicologo Roberto Leydi nel lavoro di ricerca sul campo per il primo volume dei Canti sociali italiani (Edizioni Avanti! 1963): iniziò allora un’altra storia, in cui la militanza politica divenne anche militanza di ricerca, per una storia fatta di storie e di racconti di vita, raccolti con quello che allora si chiamava magnetofono. La scoperta delle fonti orali come strumento di riscrittura della storia “ufficiale”. E qui l’incontro con Gianni Bosio che con le Edizioni Avanti!, legate al Partito Socialista Italiano, e attraverso una molteplicità di progetti, come la rivista Il Nuovo canzoniere italiano, proponeva un nuovo discorso culturale. All’interno e intorno al gruppo orbitarono personaggi quali Fausto Amodei, Michele Straniero, Sandra Mantovani, Giovanna Daffini, Caterina Bueno, Ivan Della Mea, Franco Fortini e Giovanni Pirelli. Partendo da questa ricchezza di esperienze e rapporti, forte di quel nuovo strumento metodologico che erano le fonti orali, Bermani si è rivolto a indagare gli aspetti più svariati della storia italiana del Novecento. Dal Gramsci proletkultista alla Resistenza, dalle leggende metropolitane al “mondo magico” nell’Abruzzo teramano. Ma è soprattutto alla storia del movimento operaio che ha dedicato tanta parte dei suoi lavori.

Oggi è impegnato, insieme alla compagna Antonella De Palma, nella salvaguardia e nella valorizzazione del suo immenso archivio: oltre 6.000 fascicoli di documenti cartacei, una raccolta di manifesti, volantini e opuscoli, una fototeca, una discoteca, un’emeroteca di 779 testate ma soprattutto un archivio sonoro che comprende oltre 3.500 ore di registrazione in 1.026 bobine, frutto di decenni di indagini sul campo. L’archivio di una vita, che dà testimonianza di un ricercatore assolutamente originale e del suo libero muoversi attraverso la storia e le storie del mondo popolare e proletario italiano. Da questo patrimonio, esce oggi un nuovo importante contributo: L’alba intravista. Militanti politici del Biennio rosso tra Piemonte e Lombardia (Prospettiva marxista 2024), curato con Marcello Ingrao. Una raccolta inedita di testimonianze e racconti di militanti del biennio rosso (1919-1920), registrate da Bermani tra gli anni Sessanta e Settanta. Ne emerge un quadro complesso, sfaccettato, di quel periodo, ricostruito attraverso le voci di personaggi di diversa estrazione e provenienza politica. «Queste ricerche – scrive Bermani nell’introduzione al testo – mi fecero prendere coscienza del fatto che i libri con narrazioni storiche (…) sembravano non avere come protagonisti uomini in carne ed ossa. Anzi gli uomini reali sembravano dissolti come in un bagno di acido solforico» (p. 24). Lo abbiamo intervistato, spaziando dai temi dell’ultimo volume alla sua storia e alle figure incontrate nella sua libera ricerca, da Gianni Bosio a Ernesto de Martino.


Com’è nata l’idea del libro L’alba intravista?

Cesare Bermani: È nata da una mia incazzatura. A un certo momento, ho letto il libro Bella ciao di Jacopo Tomatis e mi sono imbufalito. Perché sembra quasi, leggendo quel testo, che a distanza di cinquant’anni si sono accorti che noi non sapevamo fare le interviste. A quel punto ho deciso di pubblicare queste interviste sul biennio rosso e sull’avvento del fascismo nell’area tra Milano e Torino perché in realtà non c’è molto sul tema. E mi sembra che possa colmare una lacuna su questa zona, cioè Pavia, Mortara, Novara, Vercelli. Era una storia che sono andato a cercare io, all’epoca. C’erano quelli che ricordavano, e che ancora erano così, con un’impostazione militante.

 

Il mondo che emerge è molto variegato: ci sono i socialisti, gli anarchici, i socialisti critici che poi aderiranno al Partito Comunista d’Italia. Come si ponevano i comunisti rispetto a questa storia?

Cesare Bermani: Questo Partito comunista era un Partito comunista bordighiano, mi sembra che venga fuori bene dalle interviste. Infatti, Gramsci non c’è, è assente. Possiamo dire che, in questo momento, Gramsci è solo l’occupazione delle fabbriche e l’occupazione delle fabbriche è, in realtà, una lotta difensiva, non una lotta offensiva. Ed è una cosa che Gramsci gioca a scopo “educativo”, per spiegare che si può fare e produrre senza capi. Questo è, ma niente di più. Dalle interviste esce fuori però che i militanti di base pensavano che la rivoluzione era a un passo, era vicina. “L’alba intravista”, appunto.

 

Però c’è anche un discorso di “cultura proletaria”, diffusa. Penso all’intervista di Benvenuta Treves, che racconta della biblioteca proletaria e degli operai che la frequentavano…

Cesare Bermani: Certo, sì, queste esperienze qui allora c’erano e Gramsci le ha fatte proprie. E si è arrivati così al Proletkul’t. Però certamente le esperienze di cultura proletaria venivano da una tradizione precedente. Diciamocelo… il Proletkul’t non era poi una cosa così originale, nel senso che già la Rivoluzione francese si era basata sugli Enciclopedisti, venuti poco prima, cioè sull’idea che senza un aspetto culturale a fianco la lotta rimane debole.

 

Mi ha colpito un passaggio, dell’intervista a Rinaldo Francesi, in cui dice: «Il clima (…) era quello che era in quel momento lì. Sai, entusiasmo (…) alle stelle, in ultimo poi la depressione. Si capisce, eh. Quando si sente parlare sempre di libertà, si sente parlare che adesso siamo vicini a un qualche cosa di bene per gli operai e compagnia bella, l’è che in ultimo invece…» (p. 135). Parla quasi di un “riflusso”, per usare un termine che è stato impiegato coi movimenti giovanili del secondo Novecento.

Cesare Bermani: Certo, erano giovani anche loro! Mi fa piacere che si colga questa somiglianza, anche loro allora erano giovanissimi. Anche loro misero nelle loro lotte tutte le loro speranze.

 

Un altro aspetto che esce fuori nel libro è l’anticlericalismo diffuso…

Cesare Bermani: Sì, quello era feroce. Per fare un esempio, prendendo sempre tra gli intervistati: c’è questo Ernesto Albini, ardito e fascista, che era un bastian contrario terribile. Quando c’è la marcia su Roma lui rompe col fascismo, dicendo che Mussolini è venuto meno alla “tendenzialità repubblicana”, è andato a baciare la pantofola del papa e si è inchinato al re. E quindi Albini non è d’accordo. C’è un episodio che spiega che tipo fosse l’Albini. A un certo punto, nel secondo dopoguerra, pubblicano, su un giornale comunista di Novara, la foto della distruzione della Casa del popolo di Trecate, che era avvenuta a luglio del 1922, con i fascisti che si erano fatti fotografare davanti alle macerie, una foto ricordo insomma. Il giornale pubblica l’immagine di questa distruzione nel 1947 promettendo mille lire a chi si riconosce. E lui va alla Federazione comunista di Novara, chiedendo le mille lire! Ecco, questo è il personaggio; squadrista, e tale è rimasto per tutta la vita. E sull’anticlericalismo poi era proprio terribile, ma in generale quella era un’attitudine molto forte in quel contesto. C’è anche da dire che i preti erano, allora, molto schierati con i proprietari terrieri. Tranne qualche parroco, perché c’è sempre qualche parroco che non è d’accordo. Ma nel complesso erano reazionari al massimo. Oltre a ciò, però, c’era proprio una polemica antireligiosa: mentre Gramsci dice, è un aneddoto noto, «posso accettare il crocifisso in camera, perché non puzza», viceversa gli anticlericali di quel momento erano intransigenti. Per fare un esempio, a Novara c’era un giornale anarchico che si chiamava La luce, era un giornaletto di quattro pagine, quattro fogli, che usciva una volta alla settimana, credo. Su La luce scriveva Camillo Berneri, il quale se la prende a un certo momento, fa tutta una polemica, con i laburisti perché, dice, non sono contro la religione. Non contro i preti, quindi, proprio contro la religione! Allora il clima era questo.

 

Un altro aspetto molto forte nell’immaginario di questi giovani rivoluzionari è il mito della Russia, della Rivoluzione del 1917.

Cesare Bermani: Sì, il momento era quello. L’unico che non era contagiato a sinistra dal mito di Lenin era Matteotti. Quel Matteotti, nota bene, che diceva che la rivoluzione è riformismo. Quindi non si tirava indietro. Dalla lotta non si tirava indietro. Solo che appunto, vedeva già tutte le criticità di questo movimento, Lenin ecc., come poi si è visto con il massimalismo, nella sua peggior specie. Per il resto sì, Lenin era molto presente.

 

Queste interviste sono una minima parte di quanto di inedito è conservato nel suo archivio. Come state procedendo ora per salvaguardare e valorizzare questo patrimonio?

Cesare Bermani: Ora stiamo provando a descriverlo tutto e poi vediamo come procedere. Però… è lunga questa storia. Per esempio, io mi sono occupato di leggende metropolitane. Ecco, ho un armadio pieno di cartelle sulle leggende metropolitane. Oggi sono venuti degli archivisti e hanno cominciato a sistemarle. Un’altra parte interessante dell’archivio è la vita della base, della sezione del Partito Comunista in cui io militavo, che ho registrato per anni. E quindi c’è tutto: ci sono gli scontri, i tentativi di impedirmi di registrare perché, per carità, “questo è spionaggio”. Un registratore, spionaggio. Questo era il clima di cui erano portatori i locali funzionari del Partito. Per noi invece il registratore era un mezzo per fare emergere la cultura della base. Altro che “spionaggio”! C’è anche una parte dell’archivio che sono registrazioni di scontri con la polizia, di dialoghi con la polizia durante i cortei, quando si era davanti, in testa, con loro con gli scudi, nel 1968-1969. O inizio anni Settanta. Questo era. Quindi ora stiamo schedando queste cose, ed è abbastanza divertente ricordare. C’è anche un problema di deperibilità dei supporti, per le registrazioni. C’è ed è molto pesante, però cerco di salvarle. Bisogna tenere conto che ho oltre 1.000 nastri, per circa 3.500 ore di registrazione. Queste cose che ho tirato fuori, sul biennio rosso, sono proprio una minima parte dell’archivio. Uscite proprio da un’incazzatura, come ti dicevo, per questa storia per cui si racconta che noi non sapevamo intervistare, che mettevamo in bocca alla gente quello che doveva dire, che è una bagola incredibile. Certamente noi avevamo dei problemi perché, in quel momento, stavamo scoprendo un modo nuovo di fare storia. Non c’era nessuno che quelle cose le aveva fatte prima. Io so di essere stato, col mio gruppo, il primo a registrare le canzoni, per esempio. Che poi utilizzavamo politicamente con gli spettacoli ecc. Ma mi guardavo bene dal mettere in bocca alla gente quello che desideravo sentire. Anzi, di solito mi tenevo l’incazzatura dentro, mentre registravo.

 

Da dove nasce l’incontro con Gianni Bosio?

Cesare Bermani: Dunque, la storia è questa. Io mi occupavo di jazz. E occupandomi di jazz sono entrato in contatto con Roberto Leydi, col quale avevo un feeling, mi incuriosiva quello che faceva, lui collaborava con lo Studio di fonologia musicale di Milano, della RAI, con Luciano Berio ecc. Poi a un certo momento Leydi ha affittato una casa accanto alla mia, poi ne abbiamo comprata una assieme, l’abbiamo spartita, quindi eravamo sempre insieme, eravamo vicini. Ed è lui che mi ha coinvolto nella ricerca sui canti sociali. Qui, in questa ricerca, rapidamente io mi sono accorto che i canti sociali erano importanti, certo, e ho continuato a registrarli, anche perché poi c’era il Nuovo canzoniere italiano, però mi sono accorto che erano ben più importanti i dialoghi, le storie di vita che mi venivano raccontate. E mi sono così rapidamente convinto che, soprattutto per alcuni episodi, era impossibile farne la storia senza rivolgersi anche a questi racconti. Che erano qualcosa di molto diverso da quello che allora leggevo nei libri che erano a disposizione sulla storia del movimento operaio. E quindi è nata questa vicenda. Di lì, molto presto sono andato a lavorare alle Edizioni Avanti!, ed è lì che ho incontrato Gianni Bosio. E con lui abbiamo lavorato assieme nove anni.

 

Leggendo l’inventario dell’archivio, balzano agli occhi nomi come quelli di Bosio appunto, ma anche Giovanni Pirelli, Alfonso Leonetti, Diego Carpitella ecc. Una mappa di una certa cultura italiana in qualche modo meno nota, ma decisiva. Che cultura era?

Cesare Bermani: Una cultura assolutamente fuori dall’accademia, libere ricerche. Tra l’altro, questo è anche il motivo per cui io non ho aderito all’AISO (Associazione Italiana di Storia Orale), perché il loro modo di fare ricerca oggi non c’entra niente con quello che facevamo noi allora. Quindi mi sembra stupido che io mi colleghi a un gruppo che è più preoccupato di questioni formali, che riguardano la storia orale, che non dei contenuti. E poi questo è anche un po’ il motivo per cui me ne sono andato dall’Istituto de Martino… oggi ci sono, in questo ambito, una serie di ricercatori con cui io non mi trovo. Allora, siccome sono anche un po’ vecchietto penso di avere il diritto di scegliermi le frequentazioni che voglio. Sembra che ora conti più la qualifica, che quello che uno propone. Ecco, da questo punto di vista io sono il più squalificato, perché non ho mai avuto rapporti con l’università, se non attraverso le conferenze che andavo a fare, ma non ho mai avuto altro a che fare a parte la laurea honoris causa che a un certo punto l’Università di Salerno mi ha dato. Per esempio, parlando delle questioni formali della storia orale: io mi rifiuto di chiedere a priori, a uno che vado a intervistare, di firmarmi un documento. Questo mi sembra inconcepibile. Finisce per condizionare il rapporto che hai con la persona che intervisti in quel momento. Non è mica possibile. La cosa fondamentale è il rapporto. Ti devo dire che, in tutta la mia vita, ci saranno state due o tre persone che mi hanno detto di no, che non hanno voluto essere registrate. Tutte le altre mi han detto di sì. Che adesso si sostenga che le cose che ho fatto cinquant’anni fa non vanno bene perché non c’è questo documento mi fa ridere. È chiaro che se uno ti racconta le cose, è perché tu le vada a raccontare anche agli altri. E molte volte lo dicevano chiaramente. Questo libro qui allora, L’alba intravista, sarebbero duecento anni di galera, perché non ho chiesto a nessuno degli intervistati il permesso scritto! (ride).

 

Questo mondo culturale di cui racconta, questo modo di fare ricerca, si muoveva anche molto per contesti collettivi?

Cesare Bermani: Gli spazi collettivi c’erano. Io in realtà molto molto spesso facevo ricerca da solo, quasi sempre. Poi in via eccezionale… non so guidare, quindi c’era il problema di andare in giro con una macchina, e spesso mi sono trovato con delle morose che si occupavano anche loro di storia e che mi portavano in giro per le ricerche (ride). Però, al di là di questo, no. Ma certamente era diverso tutto il contesto: c’era ancora il movimento operaio. Tieni conto che io una larga parte del lavoro l’ho fatta poi con Primo maggio, la rivista. Le cose importanti che abbiamo registrato in fabbrica, con gli operai, le ho fatte perché c’era dietro quel contesto lì.

 

E poi c’era anche l’Istituto Ernesto de Martino, fondato nel 1965: perché l’avete intitolato all’antropologo?

Cesare Bermani: Lì, è stato anche un caso. De Martino è morto nel periodo in cui mettevamo in piedi l’istituto e lui era uno che bene o male aveva avuto una serie anche lui di problemi con il Partito Comunista Italiano, con Togliatti, ed erano cose molto vicine a quelle con le quali ci siamo scontrati anche noi, e soprattutto lo vedevamo come un compagno che aveva fatto delle cose importanti prima di noi e dal quale avevamo imparato, leggendo i suoi lavori, parecchio. Quindi è nata così l’idea del nome. Tieni conto di un’altra cosa, che di solito nessuno ricorda: de Martino è stato un collaboratore strettissimo di Raniero Panzieri e quindi anche questa cosa ebbe un ruolo… Panzieri io me lo ricordo molto bene, proprio alle Edizioni Avanti! Lui teneva i rapporti tra il Partito Socialista e le Edizioni, era un nostro amico e ci raccontava le storie delle lotte bracciantili in Puglia negli anni del secondo dopoguerra. E in quelle storie lì c’era anche de Martino, che era stato dirigente del movimento socialista pugliese. Quindi, ecco, andava bene per noi. Adesso si esagera sull’origine dell’Istituto de Martino. Ogni generazione si inventa una propria mitologia insomma, però ecco la storia è questa. Eravamo Bosio, Pirelli, più distante, perché si occupava più di Quaderni rossi, del movimento operaio e dell’Algeria in quel momento, Franco Coggiola, Roberto Leydi e io. Questa è l’origine. Poi c’era anche Cirese, ma distaccato; è arrivato nel momento in cui Bosio e Leydi hanno litigato. Leydi se n’è andato e per avere una sponda accademica ci si è rivolti a Cirese, che era anche un compagno.

 

Con de Martino c’è stata una conoscenza diretta?

Cesare Bermani: No. Bosio penso l’avesse conosciuto, perché tutti e due erano stati in Quarto stato, la rivista di Lelio Basso, quindi è probabile si fossero incontrati lì. Ma in quel periodo non avevano un rapporto diretto. Di noi, l’unico che l’ha incontrato, l’ha conosciuto bene, era Michele Straniero. Loro di Cantacronache l’avevano frequentato anche perché avevano subito un processo per aver pubblicato i Canti della nuova Resistenza spagnola, e avevano pensato a de Martino come testimone della validità della loro ricerca. Ma in realtà fu un disastro (ride). Aggravò la situazione in un certo senso, invece di renderla… vabbè ma questo importa poco.

 

In un certo modo lei ha proseguito la ricerca demartiniana, andando a indagare il “mondo magico” nel Teramano (Volare al sabba. Una ricerca sulla stregoneria popolare, DeriveApprodi 2008). Lì è interessante l’uso fatto della psicoanalisi, delle scienze della mente, a fianco del metodo storico.

Cesare Bermani: La psicoanalisi era l’unico strumento con cui avevo dimestichezza per condurre quella ricerca. Bosio sicuramente mi avrebbe molto sgridato, non sarebbe stato d’accordo per averlo usato. Siccome io però avevo lavorato nel Centro medico pedagogico di Novara, ero stato analizzato, sapevo quindi cos’era la psicoanalisi, l’ho utilizzata per quella mia ricerca. Il problema è che allora, parliamo di una ricerca iniziata negli Sessanta, c’era una grande battaglia contro la psicoanalisi. In questo il Partito Comunista Italiano era terrificante, era tutto su Pavlov, sui riflessi condizionati, sicché io ho avuto anche, insieme a un altro psichiatra, uno scontro con la Massucco Costa, anche lei contro la psicoanalisi, perché diceva che non era una scienza ecc. Pensa, io avevo scritto anche un libro su de Martino e la metapsichica, avevo cercato gli articoli dell’antropologo sul tema, il libro era pronto. Non sono riuscito a farlo pubblicare perché sono intervenuti una serie di personaggi a impedirlo, forse perché per certi accademici tutto deve essere razionale e l’irrazionale non va indagato ma solo combattuto. Si pensi alle critiche rivolte alla “collana viola” Einaudi, diretta da de Martino con Pavese. Se de Martino pubblicava Eliade lo faceva perché gli piaceva Eliade, ci trovava qualcosa di interessante. E in ogni caso tenere conto dell’esistenza dell’irrazionale è un dovere.

 

Un’altra collaborazione importante è quella con Diego Carpitella, l’etnomusicologo…

Cesare Bermani: Ho delle registrazioni con lui. Eravamo amici. Nel 1966 con l’Istituto de Martino, Dario Fo ecc. avevamo fatto lo spettacolo Ci ragiono e canto, con i canti popolari che avevamo raccolto. Carpitella si era molto interessato al fatto che avessimo dato parecchia importanza al problema cinesico, a differenza di Leydi che con Bella ciao aveva fatto con Crivelli uno spettacolo fisso, fermo. Quindi il fatto che noi avessimo cercato di fare uno spettacolo sui gesti di lavoro lo aveva molto interessato. Credo che sia l’unico che ha scritto bene di Ci ragiono e canto (ride). Carpitella era un uomo di grande cultura e di grande conoscenza musicale, gli piaceva moltissimo in particolare Rossini, Gioacchino Rossini. E poi si divertiva molto anche della mia ricerca su Bella ciao, sulla canzone. A un certo punto, io avevo trovato un tipo che diceva di essere l’autore di Bella ciao… ed era un carabiniere. E Carpitella si faceva delle gran risate. È stata una storia alla rovescia, quella di Bella ciao, perché siamo partiti dallo spettacolo, nel 1964, senza conoscere niente della canzone. Pensa, allora io scrissi anche, nel libretto che facemmo per illustrare lo spettacolo, che Bella ciao non era una canzone della Resistenza. Perché allora non c’era ancora nessuna prova che lo fosse! Mi ricordo che Carpitella era in continua competizione con Roberto Leydi. Lui di musica ne sapeva, mentre Roberto non ne sapeva niente, conosceva i cantastorie, abbiamo fatto assieme la ricerca sul canto sociale. Però ha imparato a scrivere musica tardissimo, ed è per quello che aveva tirato nel gruppo Giovanna Marini. Ecco, Giovanna invece era una grande musicista. Eravamo molto amici, andavamo a sciare insieme, sul Gran Sasso. Era anche… una ballista eccezionale (ride). Altro che Giovanna Daffini, perché la Daffini raccontava palle per cercare di rendersi più credibile nei nostri confronti; quando aveva scoperto che a noi interessavano i canti durante il fascismo, lei tendeva a retrodatare le cose che aveva imparato successivamente. Mentre invece Giovanna Marini era veramente il piacere della bugia, il piacere di prenderti in giro (ride). Per esempio, quello che lei racconta su Spoleto, non l’ha mai raccontato una volta uguale alla volta precedente, c’è sempre un po’ di più, un po’ di meno. In realtà è come se raccontasse una favola. Era così. E queste storie di Giovanna mi piacevano, vere o inventate che fossero.

 

E oggi?

Cesare Bermani: Prima, parlando di mondo magico, mi è tornato in mente un incontro con Carlo Ginzburg. Mi ricordo che gli avevo portato una busta per il pane, sulla busta c’era Amate il pane, la poesia di Mussolini. Erano pochi anni fa. E lui mi ha detto: «Ah, i tempi lunghi…». Probabilmente aveva ragione, visto come ha ripreso piede il fascismo in questo momento.

Scritto da
Andreas Iacarella

Laureato in Scienze storiche presso la Sapienza di Roma con una tesi di antropologia delle scritture personali. Svolge attività di ricerca presso il Gramsci centre for the humanities di San Marino e collabora a vario titolo con diverse riviste tra cui «Pandora Rivista», «Storiografia», «Il sogno della farfalla». Ha co-curato il volume collettivo “Conoscere per trasformare. La ricerca di Ernesto de Martino” (Left 2021), è inoltre autore di “Indiani metropolitani. Politica, cultura e rivoluzione nel ‘77” (Red Star Press 2018) e di diverse pubblicazioni sulla storia delle scienze della mente in Italia.

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