Recensione a: Paolo Pombeni, Lo stato e la politica. Quanto contano nel mondo globale di oggi, il Mulino, Bologna 2020, pp. 168, euro 12 (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Lo stato e la politica. Quanto contano nel mondo globale di oggi (il Mulino) è un volume dello storico e politologo Paolo Pombeni apparso per la prima volta nel 1997 e ripubblicato quest’anno in una seconda edizione aggiornata, che ne ri-attualizza le tesi di fondo a partire dai grandi cambiamenti politici, istituzionali e socio-culturali degli ultimi decenni. In particolare, se a fine anni Novanta ci si interrogava sulle incognite di un mondo sempre più globale e interconnesso, nonché sulla liquefazione di un sistema politico fondato sulla rappresentanza parlamentare e trainato dai partiti di massa, oggi quelle tendenze sono diventate una realtà radicata sulla quale è possibile tracciare quantomeno un primo – incompleto – bilancio, in attesa delle sfide future. Cambiamenti dell’articolazione del potere, una diversa concezione della rappresentanza anche e soprattutto a causa dell’avvento di Internet, la personalizzazione politica, la democrazia del pubblico, identità fragili. Per analizzare queste profonde trasformazioni Pombeni suggerisce una prospettiva storico-concettuale che, partendo appunto da concetti come quello di rappresentanza, Stato costituzionale, separazione dei poteri, Stato di diritto, partiti, leadership, welfare ne traccia l’evoluzione storica. L’intento dell’autore, più che di fotografare in modo analitico la realtà odierna (come si potrebbe dedurre dal titolo), è quello di far capire al lettore come si è arrivati alla crisi attuale della sfera pubblica; le riflessioni si diramano in un arco temporale molto vasto, toccando il sistema pre-statuale medievale, l’assolutismo dell’Ancien Régime, per arrivare alle turbolenze politiche del primo Novecento. Il tutto per comprendere il presente e la sua crisi, il dilagare dell’antipolitica – intesa come rivendicazione che si possa fare a meno dei modi in cui si è inquadrata e con cui si è spiegata l’azione dei vari attori nell’ambito dello spazio pubblico – e il disgregarsi del tessuto sociale.
Nel designare alcuni tratti del costituzionalismo – l’infrastruttura concettuale che contiene al suo interno altri elementi di cui sopra come la separazione dei poteri e lo Stato di diritto – Pombeni sottolinea come questo sia nato innanzitutto da un ripensamento e una ridefinizione dello spazio politico, sorti dal libero movimento della società civile, irrigidita prima in un sistema comunitario-corporativo e poi repressa dal potere assoluto del sovrano. La società inizia ad essere mobile, non fondata più – per riprendere la legge del progresso coniata dal giurista sir Henry Sumner Maine – sullo status, ma sul contratto, ovvero quel libero accordo tra parti che permette ad ognuno (almeno dal punto di vista teorico) di condurre la propria esistenza e i propri interessi ove ritiene più opportuno. La struttura che verrà a crearsi si emanciperà dalla tradizione, nonché dalla personalizzazione del potere, e andrà a creare un complesso sistema impersonale fondato sul principio di legalità; in altre parole, è la legge a tracciare le coordinate di una architettura giuridica in grado di regolare l’articolazione del potere e l’organizzazione dello Stato. «Il sistema costituzionale si fonda su un’idea impersonale della sovranità: il potere di comando origina da un’idea astratta, da un meccanismo giuridico, da una istituzione storica. Sovrano può essere lo Stato, la legge, una certa dottrina politica, la nazione, il popolo, la classe, ma non più un concreto gruppo di individui. Chi comanda ha il dovere di mostrare come il proprio esercizio del potere risponda alla realizzazione del principio fondamentale dell’impersonalità. Devono cioè spersonalizzare ogni funzione politica, razionalizzarla, burocratizzarla, renderla espressione di regole e bisogni generali. Il modo di organizzazione della politica come gestione della vita di un certo corpo sociale cambia, si complica, ma viene anche attratto nell’orbita di questa formalità: esso comincia ad autointerpretarsi sulla base del suo modo di essere. La legge si interpreta con altre leggi, l’ideologia con altre ideologie, gli atti di un potere con altri atti di quello stesso potere. Lo Stato costituzionale porta in sé questa cruciale questione» (pp.28-29).
La complessità dell’edificio creatosi va letta congiuntamente al tema della burocratizzazione, cui Pombeni dedica un importante capitolo. Questa, sostiene l’autore, si sviluppa in simbiosi con lo Stato di diritto, vedendo nella regolazione legislativa il perno dell’organizzazione sociale. Il corpo burocratico si pone così come intermediario tra l’universale (la legge generale e astratta) e il particolare (l’applicazione concreta), ampliandosi progressivamente per far fronte all’aumento della normazione. Da ciò deriva una maggiore complessità che inevitabilmente finisce per tradursi in conflittualità: nasce in questo modo la giustizia amministrativa, sempre più pervasiva e fondamentale.
Giustizia amministrativa e costituzionalizzazione dello Stato amministrativo sono due esempi di come nuovi strumenti – e anche nuovi concetti – nascano inesorabili dai profondi cambiamenti della struttura istituzionale. Lo sviluppo dello Stato burocratico porta ad una ridefinizione costituzionale delle diverse amministrazioni che lo sorreggono, mentre la crescente interconnessione tra norme, regolamenti ed enti porta ad una conflittualità che richiede l’intervento giurisdizionale.
Ad una maggiore complessità corrispondono quindi nuovi strumenti, ma anche numerosi rischi che prima non esistevano. Bisogna comprendere, sollecita Pombeni, che occorre compiere un’opera ininterrotta di ri-lettura dello spazio politico, per evitare di subire passivamente le grandi trasformazioni e per coglierne i possibili effetti collaterali. Ad esempio, è interessante sottolineare il recente rifiuto di quella spersonalizzazione accennata all’inizio di questa discussione: fondamentale per la costruzione del costituzionalismo, oggi sembra aver assunto nell’immaginario collettivo le grigie vesti della tecnocrazia, della complessità di un ingranaggio esterno e incomprensibile che regola le vite dei cittadini senza che questi possano controllarlo. In altre parole, alla crescita dell’ingranaggio segue come contraccolpo una richiesta di personalizzazione, che si traduce nella leadership politica e, se vogliamo citare Bernard Manin, nella creazione di una democrazia del pubblico, ove la politica – poggiante su una tecnostruttura che si cerca di velare – si traduce in teatralità, intrattenimento, suggestione.
Questo però, scrive Pombeni, porta ad una disperata ricerca di capi carismatici, sicuramente capaci di ottenere gli applausi ma quasi sempre inadatti – per limiti propri e per le enormi pretese del pubblico – a far fronte alla complessità del reale: «In un mondo sempre più incerto del proprio futuro le guide sono molto ricercate, ma anche rapidamente messe da parte perché si chiede loro una prestazione impossibile: risolvere subito i problemi complessi. E quando ci si accorge che la promessa non può essere mantenuta si cambia il personaggio a cui affidarsi» (pp.128-129).
In questa sede sono stati richiamati solo alcuni esempi delle faglie che caratterizzano l’attuale crisi politico-istituzionale. Quello che in ogni caso Pombeni intende sottolineare è che oggi si fa fatica a ritrovare i termini della questione, a partire dalla base su cui poggiare l’intero architrave. Dove cercarla? Il politologo suggerisce di partire dal basso, attraverso una valorizzazione forte del pluralismo sociale e di vere libertà individuali in una sintesi ispirata al momento superiore del bene comune, senza rimanere ingessati nei termini astratti della tradizione giuridica postromantica, paradossalmente ritenuti anacronistici proprio nel momento in cui sembrano dominare l’intero edificio burocratico dell’esistente – e così, per ricollegarsi alla letteratura giuridica, anche Paolo Grossi nel suo Oltre la legalità (Laterza 2020) sembra indicare un ritorno alla consuetudine abbandonando l’impianto rigido (e dominante) della norma generale e astratta.
Solo in questo modo, pensando e ri-pensando lo spazio pubblico nelle sue articolazioni plurali, è possibile trovare nuove strade per uscire dalla crisi. E per questo obiettivo, ci dice Pombeni nelle ultime pagine, serve la politica: «C’è bisogno di “politica” nel senso forte del termine, perché solo così possiamo promuovere quella cultura comune, quel modo condiviso di rapportarsi alla sfera della convivenza entro uno stesso spazio pubblico (idem sentire de re publica) senza il quale non si costruisce quella che è la base di ogni aggregazione politica: il sapersi e sentirsi parte di una stessa “comunità di destini”. Ciò che la contraddistingue è la tensione verso il conseguimento del bene comune, che diventa anche il metro di giudizio per valutare la sua capacità di legittimarsi presso i propri mezzi» (p.165).