“Lo stato-progetto e i suoi rivali” di Charles S. Maier
- 30 Dicembre 2024

“Lo stato-progetto e i suoi rivali” di Charles S. Maier

Recensione a: Charles S. Maier, Lo stato-progetto e i suoi rivali. Una nuova storia del XX e XXI secolo, traduzione di Gian Luigi Giacone, Einaudi, Torino 2024, pp. XVI – 648, 34 euro (scheda libro)

Scritto da Luca Picotti

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Di recente Einaudi ha tradotto l’ultima opera dello storico di Harvard Charles S. Maier, sotto il titolo di Lo Stato-progetto e i suoi rivali. Una nuova storia del XX e XXI secolo. Un volume imponente, molto denso, che ha l’obiettivo di ripercorrere gli ultimi centocinquant’anni di storia attraverso una chiave di lettura che non si limiti al mero scontro tra Stati, e ancora più in particolare tra Stati democratici e Stati totalitari o autocratici. L’intento dell’autore è quello di fotografare invece l’intreccio degli attori che più hanno influenzato, e influenzano, le dinamiche globali. Attori statali ma non solo, che a volte agiscono con comunione di scopo, altre in contrasto, in un costante rapporto di interdipendenza.

Quali sono i quattro principali protagonisti della ricostruzione di Maier? Innanzitutto, e ovviamente, gli Stati, che rimangono gli attori centrali, declinati alla luce del concetto di Stato-progetto. Tale categoria indica un’autorità che va ben al di là della mera amministrazione, ossia dell’involucro formale: si traduce invece in una vera e propria comunione di destino, nell’obiettivo di «infondere energia nella cittadinanza», occupandosi di sempre più aspetti del quotidiano, circostanza resasi evidente con la grande mobilitazione durante la Prima guerra mondiale e poi ancora con i robusti programmi di welfare nel secondo dopoguerra. Affianco agli Stati, come forma alternativa, un ruolo importante è stato svolto dagli Imperi, intesi come fonti estrattive delle risorse dei territori posti sotto la loro influenza. Se ci si limitasse a questi due soggetti, Stati e Imperi, si rimarrebbe però nell’impianto tradizionale che, a ben vedere, e al netto delle gradazioni, non si discosterebbe dalla consapevolezza che gli attori storici sono gli Stati, come forme di organizzazione del potere, a loro volta o nazionali o imperiali, ma pur sempre Stati. Dopotutto, anche un Impero non prescinde da una autorità centrale, costruita attorno alla statualità, come nel caso inglese o francese, ove, fermo restando l’impianto vestfaliano (governo, popolo, territorio, e più nello specifico moneta, amministrazione, polizia, diritto) attorno a Londra e Parigi, il controllo sugli altri territori veniva poi esercitato in via diretta o indiretta (ad esempio con protettorati) a seconda del caso. Lo storico di Harvard non si limita però a queste due soggettività – invero, a parere di chi scrive, un’unica soggettività declinata in due forme diverse. Affianco a Stati e Imperi, l’autore si sofferma sulla sempre maggiore rilevanza, a partire dai primi decenni del Novecento, delle cosiddette comunità di governance e delle reti di capitali. Difficile identificarle nel concreto, proprio perché sfuggono ad una individuazione precisa all’interno dello scacchiere globale, ma non trascurabili per importanza, influenza e capacità di plasmare il corso storico. Come distinguere le comunità di governance dalle reti di capitali? Un modo semplice per afferrare il concetto è ricondurre le prime al diritto, in particolare al diritto internazionale, e dunque alla creazione di centri decisionali al di là, nelle intenzioni, degli Stati, idonei a costruire regole più efficienti e consone ad un mondo sempre più globalizzato; le seconde, in parte collegate alle prime, riflettono gli interessi del capitale, che spesso si muove con tempi diversi rispetto alla politica sovrana degli Stati e che intravede, nelle crepe della storia, opportunità di espansione non sempre condivise con le autorità pubbliche.

La chiave di lettura, attraverso questi quattro soggetti, è chiara e suggestiva. Ciò non toglie che è lo stesso autore a sottolineare come la distinzione tra questi attori non sia così nitida come sembra e che un elemento fondamentale per cogliere la ricostruzione storica proposta è proprio il continuo intreccio che segna i rapporti reciproci dei quattro protagonisti, tra sovrapposizioni, frizioni, complicità, nella cornice di un pendolo che a seconda della fase storica si muove in una direzione o nell’altra. Se, come si è visto, già con riferimento alla distinzione tra Stati e Imperi si può evidenziare che, a ben vedere, trattasi di due forme diverse in cui si è declinato l’impianto vestfaliano a trazione statuale, anche per quanto riguarda le comunità della governance e le reti del capitale occorre fare alcune puntualizzazioni. Ad esempio, i consessi della governance sono tentativi di stabilire regole al di là delle rigidità dei singoli poteri sovrani, in modo da determinare, o quantomeno influenzare, il corso storico. Eppure, nessuna regola, nessuna forma di governance, è mai esistita in modo effettivo senza il più o meno implicito consenso degli Stati. Le organizzazioni internazionali sono da questi create e partecipate. Le convenzioni internazionali sono da questi stipulate e ratificate. Centri di produzione di regole per il commercio, affinché possano funzionare, necessitano che tali regole siano riconosciute e applicate nelle singole giurisdizioni. Il potere esecutivo-coercitivo, che si fonda sul monopolio della forza, non ha mai raggiunto la dimensione delle comunità della governance. Sicché, queste hanno partecipato agli ultimi centocinquanta anni di storia come tendenza, spinta da parte di alcuni attori, a trovare soluzioni condivise a livelli sovranazionali o comunque paralleli, ma il loro tasso di successo è dipeso, inevitabilmente, dal grado di accondiscendenza che hanno avuto gli attori statali nei confronti delle stesse. Tale discorso può essere calato anche con riferimento alle reti di capitale. Se da un lato è innegabile l’impatto di tali reti nel corso storico, dall’influenza sui governi al finanziamento delle guerre sino all’estrazione di risorse, dall’altro non esiste un centro unico di interessi ascrivibile al capitale. Si tratta di plurimi interessi, spesso in competizione, che si muovono in un contesto segnato da poteri pubblici statali. Il terreno di gioco delle reti di capitale rimane quello della geografia giuridica della globalizzazione, ossia di una scacchiera divisa in Stati e giurisdizioni, con le quali il capitale, sin dalla sua nascita, è costretto a relazionarsi. È in ogni caso interessante l’intreccio tra i diversi soggetti, sempre alla luce della direzione del pendolo nelle diverse fasi storiche: ad esempio, sottolinea Maier, se gli Imperi delle risorse si sono dissolti tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, la loro presenza è stata in parte sostituita dalle reti di capitale, che hanno continuato a estrarre risorse dai diversi territori divenuti (solo?) politicamente indipendenti.

La conoscenza storica di Maier e la densità di informazioni accompagnano il lettore in un vero e proprio excursus lungo le principali tappe del Novecento, per arrivare poi ai primi due decenni del ventunesimo secolo. I diversi avvenimenti vengono letti attraverso la lente del pendolo tra i quattro protagonisti. Si ha così una fotografia emblematica dello Stato-progetto nel New Deal americano o in generale nella ricostruzione del secondo dopoguerra degli Stati europei. Al contempo, la comunità della governance emerge chiaramente dalla proliferazione di organizzazioni internazionali, corti e tribunali, autorità indipendenti, con il costrutto ibrido dell’Unione Europea che ne rappresenta l’esempio più lampante. Ancora, lo storico di Harvard ripercorre le trasformazioni degli anni Ottanta e la sempre maggiore centralità delle reti di capitale in un mondo globalizzato, sancita poi dalla vittoria sul comunismo sovietico degli anni Novanta. A partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, comunità della governance e reti di capitale si sono ritagliate uno spazio importante, forse non tale da mettere completamente in ombra lo Stato-progetto, ma senz’altro idoneo a indebolirlo. È forse a partire da questo contesto, sembra suggerire l’autore, che vanno analizzati gli ultimi anni e, in particolare, i malumori nelle società occidentali che hanno prodotto quel fenomeno conosciuto come populismo, al netto della validità di tale categoria: «Probabilmente, furono quindi le ineguali remunerazioni del successo capitalista e un fallimento generale delle dichiarazioni della governance a creare un terreno fertile per il populismo» (p. 516). È evidente la prospettiva critica di Maier: da un lato, l’espansione delle reti di capitale, a sugellare la vittoria di un modello, ma con alcune implicazioni negative in termini di redistribuzione; dall’altro, i fallimenti della governance, non solo in termini di incapacità di superare la sovranità e la forza degli Stati, ma anche di disegnare quella redistribuzione di diritti e risorse non garantita dalle reti del capitale.

In questa sede si è voluto evidenziare e discutere l’approccio principale del volume e in particolare la ricostruzione storica attraverso i quattro attori principali individuati dall’autore. Per ogni altro approfondimento, dalle analisi più teoriche sulla statualità alla densità di riferimenti storiografici, si rimanda alla lettura del libro. Libro che ha il merito di offrire una chiave di lettura senz’altro stimolante e che conferma l’autorevolezza di Charles S. Maier nello studio su Stati e Imperi. Protagonisti del corso storico, assieme – ci dice lo storico di Harvard in questa ultima opera – alle comunità della governance e le reti di capitali. Leggere l’intreccio tra questi quattro soggetti è il modo migliore per orientarsi negli ultimi centocinquant’anni di storia.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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