La “morte della patria” tra Prima e Seconda Repubblica
- 25 Luglio 2018

La “morte della patria” tra Prima e Seconda Repubblica

Scritto da Alessandro Pizzo

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L’attuale congiuntura politico-sociale nazionale è tale da indurre più di un ragionevole dubbio in merito alla tenuta e delle istituzioni politiche e dei legami sociali. In realtà, però, il rischio paventato non appare solo una conseguenza delle vicissitudini che attualmente esperiamo, ma affonda le proprie radici più indietro nel tempo. Pertanto, scopo del presente scritto sarà offrire alcuni punti fermi utili a consentire un minimo di orientamento, anche se si tratterà di osservazioni non propriamente storiche[1].

A tal proposito, si possono indicare due momenti temporali fondamentali: l’8 settembre 1943; e il 1992. Con il primo, si fa riferimento alla proclamazione dell’armistizio italiano nel corso del secondo conflitto mondiale, mentre con il secondo alla fine della Prima Repubblica. Potrebbe sembrare strano, ma i due momenti temporali sono tra loro correlati. Infatti, il momento conclusivo dell’esperienza repubblicana può essere considerato il termine stesso del percorso storico inaugurato appunto dall’armistizio dell’8 settembre 1943[2].

In altri termini, con il 1992 si sarebbe esaurito il corso storico nazionale in quanto frutto dell’armistizio, vale a dire la Repubblica germinata dalla fine del fascismo. Tuttavia, quando ci si riferisce al 1992 come alla conclusione del processo repubblicano lo si fa cercando di proiettare nel passato le inquietudini e le ansie coeve. Si tratta senza dubbio di una risposta parziale e semplificata, guardare alle contraddizioni dell’antifascismo come causa delle contraddizioni contemporanee, ma è pur sempre una risposta e va presa in considerazione. Il 1992, pertanto, è considerato una conseguenza dei confusi e proditori indirizzi assunti a partire dall’8 settembre 1943[3].

L’investimento di senso del lontano passato è così del tutto negativo. Infatti, sin dall’8 settembre 1943 sono stati istituzionalizzati tutti i peggiori vizi italici, dal familismo amorale all’inciucio; dal trasformismo al vile individualismo; dal disprezzo per la cosa pubblica sino al mito estetizzante del successo personale. Il 1992, e con esso la fine della Prima Repubblica, ha avuto luogo proprio perché si è realizzato l’8 settembre 1943. Il legame tra i due momenti, oltre che simbolico, è espressamente retorico, dal momento che abilita una precisa razionalità la quale intende interpretare in maniera lineare, oltre che semplificata, l’intero arco storico che va dalla fine della Guerra all’esaurirsi della spinta propulsiva della Repubblica nata dalla Costituzione del 1948, e figlia naturale della fine del fascismo. Tale razionalità informa di sé una retorica pubblica atta a dire la sua nella guerra dei discorsi pubblici. La “morte della patria” è segnatamente la forma principale di tale retorica.

Il concetto di “morte della patria”, intesa come fine di una costruzione storico-ideologica matrice di valori collettivi, e il suo uso storiografico risalgono al 1992, quando Galli Della Loggia espone per la prima volta una delle idee alla quale deve gran parte della sua fama recente. Tale idea viene successivamente ripresa con un certo repertorio documentario alcuni anni dopo, nella forma che conosciamo, La morte della patria appunto. In essa, l’autore esprime l’idea in forza della quale proprio con l’armistizio del 1943 è venuta meno dall’animo dei più l’idea stessa di patria[4].

 

Il revisionismo storico e il suo uso politico

La cosa rilevante, però, è che Della Loggia guardi al dibattito storico sulla Resistenza, intorno agli anni ’93 – ’95 del secolo scorso, vale a dire cinquant’anni dopo gli eventi stessi, non attingendo alle interpretazioni di un Pavone, del 1991, circa la moralità del movimento resistenziale[5], o alle ricostruzioni di un De Felice, del 1995, circa le “zone grigie” della Resistenza[6], ma ad un livello semi-sconosciuto del 1948 di un autore divenuto famoso postumo proprio a seguito della citazione di Della Loggia, vale a dire al De profundis di Salvatore Satta.

Quest’ultimo narrava, quasi in presa diretta, gli stati emotivi degli italiani all’indomani dell’armistizio e della effettiva dissoluzione dello Stato e, con una prosa quasi decadente, annotava con sincero dolore la scomparsa di un orizzonte comune dall’azione dei singoli[7]. Ovviamente, com’è normale che sia all’interno di un genere letterario come la prosa narrativa, ampio spazio viene riservato ai sentimenti dell’autore, ma nessuno ad una riflessione critica riguardo alle cause storiche di quel determinato evento, vale a dire il collasso dello Stato, imploso con l’annuncio pubblico dell’armistizio l’8 settembre del 1943.

A questo abisso emotivo attinge Della Loggia per interpretare l’armistizio come la catastrofe che ha spinto gli italiani a negare l’idea stessa di patria, ad invertire il senso risorgimentale dell’amor patrio, ovvero il senso del sommo sacrificio dell’individuo a favore della patria, nel senso postfascista di morte della patria onde far sopravvivere i singoli cittadini. A ben guardare, tuttavia, appare evidente come l’intento di della Loggia poggi più sulla natura della contesa pubblica in materia politica che sulla natura del civile confronto tra conoscenze storiche. È pur vero però che nella lotta dei discorsi i confini tra mera retorica pubblica e narrazione storica appaiano oggi decisamente più sfumati, per non dire anche decisamente più deboli, di un tempo, e che la strategia comunicativa di Della Loggia abbia il suo fascino, riuscendo a catturare un buon numero di spettatori[8].

Senza, però, scomodare i classici topoi storici, appare evidente il peso delle contingenze coeve sull’investimento di senso del passato ad opera di della Loggia. Come annota Isneghi, infatti, si coniugano e si fondono due distinte esigenze. La prima, è dare sfogo al precipitato di risentimento collettivo e ad un collettivo malessere politico-sociale, sino ad allora in sospensione[9]. La seconda, invece, è soddisfare la domanda pubblica di storia, ovvero «misurarsi sul terreno della comunicazione di massa»[10]. Il tema presente, dunque, ben si presta alla semplificazione spicciola che, depurando il tema da troppe categorie complesse e presentando la facile identificazione personale con stati emotivi, anziché con catene processuali lunghe, incontra il favore del consumatore finale, l’italiano medio, non troppo avvezzo alla conoscenza storica[11].

Il problema non è revisionare le conoscenze storiche consolidate, ma l’uso strumentale che si desidera compiere con tali revisioni. Ed è qui il nocciolo dell’operazione di della Loggia, vale a dire conferire attendibilità storica ai malanni italiani come conseguenza dell’infausta ideologia “rossa” assunta dalla Repubblica costituzionale, a sua volta un infausto effetto della ghigliottina ideologica compiuta dai resistenti nella forma di una chiusura culturale nei confronti di tutte le opzioni concorrenti.

 

Morte della patria o società senza Stato?

Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, dunque, sembra inquietare della Loggia che teme la conservazione della medesima ideologia[12], vale a dire la ripetizione di un canovaccio già visto, e mobilita contro tutte le risorse retoriche in suo possesso, gettando nell’agone pubblico la semplificazione storiografica di una patria defunta, del cui omicidio sono responsabili i soli comunisti. L’ammonimento è tanto semplice quanto inevitabilmente ingenuo: non si ripeta nel corso della presente occasione unica l’errore commesso dai padri. Afferma, infatti, risolutamente della Loggia, «La crisi dell’idea di nazione che percorre tutta la vicenda dell’Italia postbellica ha la sua genesi […] nei problemi di legittimazione del nuovo regime repubblicano che, proprio in relazione alla guerra, si stringono in un nodo che poi si rivelerà impossibile da sciogliere»[13].

Tuttavia, allargando il focus, sembra inevitabile ricondurre l’analisi di della Loggia al più vasto ambito della crisi dell’idea stessa di Stato, una crisi dai contorni mondiali e scarsamente ascrivibili ad una presunta specificità italiana. Dunque, la crisi dello Stato italiano va imputata ad una conseguenza della globalizzazione la quale atomizza i soggetti e ne frammenta le relazioni sociali, delegittimando il potere degli stati nazionali e il meccanismo di riconoscimento pubblico del potere in quanto tale. Di per sé, dunque, non è venuta meno l’idea di patria perché uccisa dai postumi della guerra perduta, ma perché è entrata in crisi l’idea stessa di Stato, quale luogo deputato alla composizione degli opposti interessi concorrenti ed espressione di un controllo popolare sulle decisioni ed azioni del potere pubblico. In altri termini, e a ben guardare, ad essere in questione è l’idea di democrazia, e non soltanto l’idea di patria. Queste ansie contemporanee, che si situano sul piano immanente delle turbolenze degli ultimi decenni, vengono proiettate da della Loggia nel passato al fine di individuare un momento esatto di inizio del processo presente, un processo considerato e semplice e lineare nel suo dispiegarsi nei decenni a seguire. Questo momento viene così individuato nell’8 settembre 1943, data di annuncio dell’armistizio e della fine della Guerra di Mussolini[14].

La storia nazionale mette bene in evidenza, però, non la fine della patria con l’armistizio, ma un processo ben più sottile e duraturo nel tempo, che ha costituito differenti livelli di statualità in virtù dei quali vige «un sistema di coesistenze multiple di scelte politico-istituzionali»[15]. La conservazione di istituti precedenti, e l’instaurazione di nuovi istituti ha reso non soltanto più complessa la natura dello Stato, ma ha anche normalizzato la sua serie incredibile di contraddizioni, tanto istituzionali quanto legislative, tanto economiche quanto sociali, tanto pubbliche quanto private. L’integrazione di «vecchio» e «nuovo» a lungo andare ha «indebolito il tessuto statale»[16], giungendo, a fine anni Ottanta del secolo scorso, a presentare un conto da pagare e, quindi, ha spinto alla ricerca di vie di fuga. Non la patria della Resistenza, ma una nuova patria; non l’Italia del malcostume, ma l’Italia del buon governo; non la nazione del malaffare, ma la nazione buona. La parola d’ordine nell’agenda politica, d’altro canto, è diventata riforma. Quando della Loggia celebra il funerale della patria, giustifica a tutti gli effetti i progetti di sua riedificazione su basi differenti.

Per Remo Bodei, l’8 settembre 1943 è sì avvenuta una catastrofe generale, ma non è venuta mai meno l’idea di nazione. Piuttosto, è perito lo stato etico, vale a dire «un modello ideale e pratico di stato»[17], ben rappresentato dall’attualismo gentiliano. Il “noi” generale si è frantumato in favore di tante soggettività sino ad allora sussunte sotto lo spirito generale dello Stato fascista; l’organismo totalitario si è disgregato lasciando sussistere le sue parti costitutive. Detto altrimenti, il “noi” dello Stato etico si è diviso in tante coscienze singole. Ma ciò non conduce al facile sbocco dissolutivo. Infatti, come già avvertiva Pavone in quel 1994, anno di riedizione dell’opera capitale di alcuni anni prima, la posta in gioco all’indomani dell’8 settembre era «il senso stesso dell’Italia e della sua identità nazionale […] e la guerra di liberazione fu combattuta […] per concorrere a liberare l’Italia dalla prospettiva di un perpetuarsi del regime fascista»[18].

Lungo la tormentata storia della modernità, pertanto, l’Italia ha cercato quasi disperatamente di tenere il passo, di colmare le lacune, di raggiungere l’agognato traguardo del progresso[19], ma è rimasta una storia marginale, lo scarto italico tra il paese ideale e il paese reale[20], la contesa irrisolta delle polemiche retoriche e dei sogni dei polemisti.


[1] Cfr. A. Pizzo, Satta e l’estrema unzione alla Patria. Note (non) storiografiche, in I. Pozzoni (ed.), Rassegna storiografica decennale. II, Limina Mentis, Villasanta, 2018, p. 35 e sgg.

[2] Cfr. A. Lepre, Storia della Prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 8.

[3] Cfr. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943 – 1988, Einaudi, Torino, 2002, p. 8: «Il Fascismo, invece di essere rovesciato da una rivolta popolare, veniva distrutto da un colpo di Stato dall’alto».

[4] Cfr. E. G. della Loggia, La morte della patria, Laterza, Roma – Bari, 2003, p. 3: «Il sentimento di una vera e propria «morte della patria» fu, infatti, ciò che oggettivamente provò, in quel biennio terribile e immediatamente dopo, chiunque nel proprio mondo etico-politico, o solo emotivo, custodisse […] l’idea di nazione».

[5] Cfr. G. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2017, p. xi: «quanto sia ancora sentito il problema storico e civile della guerra e della Resistenza».

[6] Cfr. R. De Felice, Il rosso e il nero, Baldini e Castoldi, Milano, 1995.

[7] Cfr. S. Satta, De Profundis, Ilisso, Nuoro, 2003, p. 53: «La morte della patria è certamente l’avvenimento più grandioso che possa occorrere nella vita dell’individuo».

[8] Cfr. A. Del Boca, Introduzione, a: A. Del Boca (cur.), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza, 2009, p. 16: «le vivaci polemiche che suscita, costituiscono comunque un forte incentivo a una rilettura della recente storia italiana, che sinora era stata incerta e limitata».

[9] Cfr. M. Isneghi, op. cit., pp. 56 – 7: «A metà degli anni Novanta il marasma politico […] incrocia antichi malesseri in sospensione; i ripensamenti individuali accompagnano i ripensamenti collettivi».

[10] Ivi, p. 57.

[11] Cfr. A. D’Orsi Dal revisionismo al rovescismo, in A. Del Boca (cur.), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza, 2009, p. 362: «I rovescisti vogliono fare colpo, vendere libri, far parlare di sé».

[12] Cfr. G. De Luna, Revisionismo e resistenza, in A. Del Boca (cur.), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza, 2009, p. 319.

[13] Cfr, E. G. della Loggia, op. cit., p. 27.

[14] Cfr. E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Laterza, Roma – Bari, 2009, p. 248: «l’Italia non era più una patria […]  era diventata una terra di nessuno».

[15] Cfr. S. Cassese, L’Italia: una società senza Stato?, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 108.

[16] Ivi, p. 109.

[17] R. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino, 1998, p. 7.

[18] Cfr. C. Pavone, op. cit., p. xvii.

[19] Cfr. E. G. della Loggia – A. Schiavone, Pensare l’Italia, Einaudi, Torino, 2011, p. 45 e sgg.

[20] Cfr. S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia, 2001, p. 476 e sgg.

Scritto da
Alessandro Pizzo

Dottore di ricerca in Filosofia. Attualmente occupato nel mondo della scuola. I suoi campi di ricerca vanno dalla razionalità delle enunciazioni normative alla filosofia della disabilità. È redattore di un proprio blog personale.

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