Scritto da Matteo Marini, Enrico Sarnelli, Manuelita Scigliano
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Questo articolo riprende i temi affrontati nei saggi di Alastair Bonnett, Paolo Branca, Franco Cardini, Georges Corm, Giacomo Marramao raccolti nel libro Genealogie dell’Occidente, edito da Bollati Boringhieri a cura di Daniela Falcioni, e nell’intervista a Falcioni dal titolo Generare l’Occidente, pubblicata sul numero 1/2023 “Libertà” di «Pandora Rivista». Queste note intendono contribuire al dibattito sulla categoria di Occidente, a partire dalle sue origini storiche e dalle diverse declinazioni e rappresentazioni che tale idea ha assunto.
di Matteo Marini
La tesi principale della preziosa antologia Genealogie dell’Occidente curata da Daniela Falcioni consiste nell’invito ad abbandonare la dicotomia Oriente/Occidente a favore di una visione del mondo pluralista – o multipolare, come si usa dire oggi. La definizione attualmente prevalente è infatti quella coniata da Shmuel Eisenstadt, che parla di modernità multiple[1]. Lo stesso Eisenstadt, tuttavia, sottolinea come la modernità, intesa come progetto culturale volto ad aumentare l’apertura di ogni società nazionale verso l’esterno, abbia preso le mosse dapprima in Occidente, e come pertanto la modernità occidentale rimanga ancora un termine di paragone per i nuovi arrivati[2]. Questo volume ci presenta quattro tipi di risposta alla modernità occidentale: quella statunitense; quella giapponese; quella indiana; e quella islamica, che riassumeremo brevemente prima di avanzare alcune conclusioni di attualità politica.
La prima risposta – quella degli Stati Uniti d’America – potrebbe essere definita continuista. Sebbene gli Stati Uniti siano considerati parte dell’Occidente e dunque non dovrebbero apparentemente essere inclusi in un repertorio di risposte date alla modernità occidentale, giustamente Falcioni – nell’introduzione al volume – ci ricorda come, agli inizi del XX secolo, anche per giustificare il proprio intervento militare nell’Europa della Prima guerra mondiale, gli statunitensi elaborarono un corso di studi universitario, Western Civilization, in cui riflettevano su se stessi e definivano la propria identità culturale. Essi si consideravano tedofori della fiaccola di Atene in America, i continuatori della civiltà europea d’oltre Atlantico. Costruivano così un filo storico ideale che dalla Grecia antica porta a Roma, alla religione giudaico-cristiana che si espande in Europa dopo la caduta dell’Impero Romano, per arrivare quindi al Rinascimento italiano, alla Riforma protestante, all’Illuminismo e infine alla Rivoluzione industriale. Non si trattava tuttavia di una semplice ricostruzione posticcia e machiavellica ordita per convincere masse riluttanti di giovani americani a partire per il fronte europeo, bensì di una coscienza profonda e sedimentata, che si riscontra in manufatti concreti. Il fatto, ad esempio, che i padri fondatori della nazione (all’epoca dell’indipendenza dalla Gran Bretagna) fossero degli illuministi si ritrova nelle forme architettoniche della capitale Washington e dei suoi monumenti, o negli edifici istituzionali come Capital Hill e i parlamenti dei singoli Stati federali, tutti rigorosamente in stile neoclassico. Gli alfieri dell’Occidente nel mondo contemporaneo descrivono se stessi secondo lo stereotipo coniato sin dai tempi di Erodoto e di Aristotele, citato da Giacomo Marramao in Genealogie dell’Occidente: «A partire da Erodoto e da Aristotele, la coppia Occidente/Oriente assume i contorni di una vera e propria antitesi tra Occidente produttivo e libero ed Oriente seduttivo e dispotico» (p. 70). Secondo tale visione gli statunitensi sarebbero i portatori di un manifesto di valori composto dalla libertà individuale, dalla prosperità derivante dal progresso tecnico più che dalla dotazione di risorse naturali, dalla divisione dei poteri in ambito costituzionale e da uno stato di diritto che prevede l’uguaglianza di fronte alla legge senza distinzione di razza, fede, genere e ceto sociale di appartenenza.
La seconda risposta – quella giapponese – potrebbe essere definita competitiva. Di fronte alla modernità occidentale, che, come ci ricorda Niall Ferguson nel best seller Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà, ha dominato il mondo per cinque secoli, dal Cinquecento ad oggi, il Giappone ha risposto, dopo una prima resistenza debellata dall’Ammiraglio Perry e dalle sue cannoniere a metà dell’Ottocento, con ammirazione e imitazione. Scrive Alastair Bonnett nel suo saggio in antologia: «Fukuzawa Yukichi – l’occidentalista giapponese più noto del XIX secolo – sosteneva che per salvaguardare l’indipendenza nazionale giapponese dall’imperialismo occidentale occorreva “spazzare via il cieco attaccamento alle abitudini del passato e adottare lo spirito della civiltà occidentale”» (pp. 124-25). Per quanto il Giappone si sia sforzato di imitare la tecnologia occidentale, a volte superandola, con la stessa determinazione ha cercato invece di preservare le proprie istituzioni tradizionali, fino alla sconfitta subita nella Seconda guerra mondiale, quando è stato costretto a adottare istituzioni democratiche in cambio degli aiuti materiali da parte dei vincitori. Dunque, la via alla modernità giapponese appare come il frutto di una mediazione tra il contatto con l’Occidente e la tradizione culturale nazionale, basato così sulla competitività produttiva.
Diverso è stato l’atteggiamento dell’India, che costituisce il terzo studio di caso dell’antologia, citato anch’esso nel saggio di Bonnett, e che potremmo definire una risposta alternativa a quella occidentale. Bonnett ci ricorda come Rabindranath Tagore, letterato e poeta indiano vissuto a cavallo del XIX e XX secolo, era alquanto critico della modernità occidentale. Quest’ultima si baserebbe sul materialismo e sulla rivoluzione industriale che massifica e fa perdere l’individualità, mentre quella asiatica si baserebbe sulla spiritualità, sulla ricerca della realizzazione del sé più profondo. Anche un’altra figura eminente, citata da Bonnett, il missionario bengalese Swami Vivekananda, era solito dire, dopo aver visitato l’Occidente per lunghi anni: «L’Asia produce giganti della spiritualità così come l’Occidente produce giganti della politica e della scienza». E più avanti: «Lasciamo che gli stranieri arrivino e dilaghino con le loro armate, non importa. Forza India! Conquista il mondo con la tua spiritualità! La spiritualità deve conquistare l’Occidente». Guardando a ciò che è successo nella seconda parte del Novecento e fino ad oggi, dal movimento degli hippie nella San Francisco del 1967 agli attuali movimenti New Age e alla fioritura di centri buddhisti in Occidente, si deve riconoscere che Vivekananda era stato profetico. Si pensi anche al fascino esercitato dal pensiero indiano sullo scrittore tedesco Hermann Hesse. E, per arrivare ad oggi, ai sociologi Ulrich Beck e Anthony Giddens, che, distinguendo tra la modernità classica e la modernità riflessiva dei giorni nostri, sembrano dar ragione alle profezie dei pensatori indiani citati da Bonnett.
Conclude la carrellata di modernità plurime il caso dell’islam, che potremmo definire una risposta alla modernità di tipo radicale. Nel libro se ne occupa Paolo Branca, il quale ci fa conoscere il pensiero islamico più recente, nella voce di alcuni suoi esponenti di spicco a noi contemporanei. Nonostante gli sforzi di Branca per non colpevolizzare l’intera cultura islamica, viene fatto notare che essa si pone di fronte alla modernità in una maniera dicotomica, basata sulla formula “prendere o lasciare”. L’élite dei Paesi arabi sembra suddividersi in due categorie: quella dei modernizzatori filo-occidentali, contrapposta a quella degli integralisti anti-occidentali, dimostrando così un’analoga dipendenza ossessiva dal modello di riferimento, l’Occidente. È come se il contatto ravvicinato con l’Occidente, e l’averne subito sia il colonialismo che i soprusi della decolonizzazione, avesse prodotto da una parte una sindrome del risentimento da parte del Medio Oriente, dall’altra una speculare adesione acritica – che sono le due risposte estreme, radicali, alla globalizzazione messe in atto da quella regione del globo. Scrive un acuto intellettuale islamico, Daryush Shayegan, citato nel saggio di Branca: «Ciò che chiamiamo identità culturale non è che un’illusione o, se volete, una falsa immagine di noi stessi. […] Ciò che muove il rifiuto della modernità è – disgraziatamente – il risentimento. Infatti, mentre è il distacco dello sguardo contemplativo che caratterizza il saggio, e mentre è il senso acuto della critica che rende l’intellettuale la coscienza inquieta della società, l’ideologo ha invece soluzioni preconfezionate per ogni problema del mondo, dal che deriva la ingenuità della sua militanza che rasenta l’autoreferenzialità. […] La modernità che ci avviluppa – conclude Shayegan – è ancora quella della seconda industrializzazione col suo strascico di ideologie totalizzanti e totalitarie» (pp. 160-161).
Come concludere? Continuità, competizione, alterità e radicalismo sono le quattro risposte alla modernità occidentale che hanno caratterizzato rispettivamente la modernizzazione di Stati Uniti, Giappone, India e Paesi islamici. Il volume curato da Daniela Falcioni ci dà contezza dell’esistenza di queste multiple modernità, e cade in un momento del dibattito internazionale quanto mai appropriato. Viviamo tempi difficili nelle relazioni internazionali, ed è pertanto quanto mai auspicabile il punto di vista della curatrice: un punto di vista ecumenico, che ci invita a guardare al dialogo più che allo scontro di civiltà. Tuttavia, se un appunto si può sollevare a questo tipo di approccio, è il rischio di cadere nell’indistinto, nel generico appello al relativismo culturale che, se può apparire politicamente corretto, non ci aiuta a comprendere né le differenze, né i tratti universali che pure esistono nelle varie civiltà. Basti pensare ad esempio alla realizzazione individuale, del sé più profondo, che si ritrova sia nella civiltà occidentale che in quella indiana. A conclusione di queste note – e a riprova di alcuni tratti universali della modernità –, vale la pena ricordare un pensiero di Vasilij Grossman, ebreo russo, che Daniela Falcioni aveva posto ad esergo del suo libro, e che è poi scomparso in fase di stampa:
«L’unione degli uomini, il suo significato, è determinato solo dall’obiettivo di conquistare il diritto di essere diversi, persone a sé stanti, particolari, di avere sentimenti diseguali, pensare a vivere ciascuno a modo proprio. Per conquistare questo diritto, o difenderlo o allargarlo, le persone si riuniscono. E allora si crea un pregiudizio orrendo ma potente: in questa unione in nome della razza, di Dio, del partito, dello Stato, si identifica il senso della vita e non il mezzo. No, no e no! Nell’uomo, nella sua timida unicità, nel suo diritto a tale unicità consiste il solo, vero, eterno significato della lotta per la vita». Tratto da Vita e Destino, Adelphi 2008.
di Enrico Sarnelli
Come è stato possibile che, da semplice coordinata spaziale, l’Occidente sia divenuto una realtà geopolitica, una concezione del mondo, uno stile di vita, una complessa categoria di identificazione individuale e collettiva? Oggi che questa nozione si è diffusa ovunque, divenendo di uso corrente e quasi banale nella sua onnipresenza, ci è difficile anche solo immaginare delle epoche non lontane in cui essa non era affatto così ubiquitaria e, anzi, si può dire circolasse raramente al di fuori di discorsi specialistici. Tra i tanti meriti del testo curato da Daniela Falcioni c’è in primo luogo questa salutare esperienza di defamiliarizzazione che la sua lettura procura, un “disincantamento” dell’Occidente che significa indurci a pensarlo non come un’entità autoevidente, ma piuttosto come il prodotto di una storia complessa e intricata che solo con la mobilitazione di un insieme di saperi diversi (quelli del filosofo, dello storico, del geografo, ecc.) è possibile provare a dipanare. Si tratta di porre il problema dell’identità e della natura dell’Occidente in modo diverso. Spostarsi da una prospettiva che, con un termine approssimativo, potremmo definire sostanzialista, entro la quale l’Occidente appare come una realtà immediatamente tangibile nell’oggettività di certe sue componenti (che siano storie, territori o le comunità umane che vi sono insediate, ecc.). Per adottare invece una chiave di lettura che, con altrettanta approssimazione, potremmo definire come costruzionista e che dell’Occidente enfatizza fortemente il suo aspetto di artefatto culturale, che, sebbene attinga le sue risorse simboliche e le sue strutture di plausibilità da un immaginario di discorsi e di rappresentazioni, non è meno “reale” nei propri effetti pratici. Diventa quindi prioritario l’accertamento di chi, quando, in vista di quali scopi e con quali esiti performativi di volta in volta proponga una determinata rappresentazione dell’Occidente.
Ad esempio, come si può apprendere dalla densa introduzione di Daniela Falcioni e dal contributo di Franco Cardini, grandi risorse intellettuali sono state investite sul problema di trovare all’Occidente un’origine temporale e una localizzazione nello spazio, finendo talvolta, con l’equiparazione dell’Occidente alla modernità, per fondere assieme spazio e tempo. Oswald Spengler ha fatto decorrere la civiltà occidentale a partire dall’Europa medievale in un periodo compreso fra il IX e il X secolo, nella persuasione che una nuova civiltà potesse sorgere solo dopo la completa dissoluzione politica e culturale dell’Impero Romano che l’aveva preceduta. Un ciclo di ascesa e caduta che l’Occidente era destinato a ripetere[3]. Ma se le retoriche del declino si sono rivelate piuttosto congeniali al racconto dell’Occidente, altrettanto bene hanno funzionato i moduli delle “magnifiche sorti e progressive”, che vanno lontano perché partono da lontano. Lungo tutto l’Ottocento era stato piuttosto usuale identificare la genesi della civiltà, sentita ancora come europea più che occidentale, nella Grecia classica, nell’Impero Romano o in ancora più remoti retaggi indoeuropei. Eredità esemplari e prestigiose che, prima di servire da riferimento ad una identità comune, erano già state opzionate come mitologie di fondazione per specifiche identità nazionali.
Apologetiche e teleologiche, quasi sempre viziate da ottiche riduzioniste (dei Greci si considera solo quella parte che anticipa il “noi” occidentale, si confisca a proprio esclusivo beneficio un’influenza culturale romana che ebbe campi di irradiazione molto più ampi, ecc.), queste concezioni che fanno dell’Occidente un’entità storica antichissima si sono dimostrate assai resilienti. Un orientamento “From Plato to Nato” si è conservato quasi intatto nei programmi curricolari dei più volte citati Western Civilization courses che tanta importanza hanno avuto nella divulgazione dell’idea di Occidente in America. Un modello di pedagogia esplicita che, vale sempre la pena ricordarlo, non ha praticamente avuto equivalenti in nessun Paese d’Europa, dove neppure ci si è mai preoccupati di fissare un “canone occidentale” di testi esemplari. Siamo già in anni a noi più prossimi e in effetti l’orientamento che ormai si va affermando pensa all’invenzione dell’Occidente come ad un fenomeno assolutamente recente. Alistair Bonnett, uno degli studiosi ospitati nel volume, ha collegato la nascita dell’Occidente a quei testi, come i lavori del sociologo evoluzionista Benjamin Kidd, che in Inghilterra ne teorizzano l’unità politica e culturale, soprattutto quando, nella seconda metà dell’Ottocento, la nozione di “razza bianca” diviene di impiego problematico come referenza collettiva[4]. Questo è appunto l’Occidente dell’Inghilterra. Ma anche altrove l’Occidente è potuto apparire solo a condizione di occupare il posto lasciato vuoto dalla nozione di razza bianca? Auguste Comte, in Francia, quasi cinquant’anni prima aveva potuto progettare una “repubblica occidentale” come prologo ad un futuro governo mondiale, dove le diverse razze avrebbero dovuto fondersi o collaborare[5]. A parere di chi scrive, le condizioni di possibilità di un ricorso generalizzato all’Occidente come riferimento identitario si sono realizzate solo a seguito della Prima guerra mondiale con la crisi dello Stato nazione, lo spostarsi degli equilibri geopolitici dall’Europa agli Stati Uniti e soprattutto con le trasformazioni introdotte dallo sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione di cui le “comunità immaginate” hanno crucialmente bisogno – come ci ha insegnato Benedict Anderson[6], ma come già aveva intuito Marcel Mauss riflettendo, proprio negli anni Trenta, sulla nozione di civiltà. Riflessione forse ispirata dalla visione che aveva avuto dei soldati americani sul fronte occidentale che ascoltavano i primi dischi jazz sui loro fonografi[7].
Tra queste diverse genealogie occidentali le relazioni sono state spesso conflittuali. È sempre possibile farle giocare le une contro le altre, come nel caso della classica dicotomia Atene vs. Gerusalemme che costituisce l’oggetto del polemico contributo di Georges Corm, assai preoccupato per i rischi connessi ad una sempre più insistita rivendicazione di radici giudaico-cristiane, a discapito di una più profana e inclusiva eredità greco-romana. Senza dimenticare che anche la coppia Grecia-Roma, come fa notare Marramao, è un’eredità problematica da raccogliere, in quanto unità spuria di due opposti modelli di cittadinanza.
Queste dispute non hanno peraltro impedito, soprattutto ai livelli più mainstream, che tutte queste diverse storie potessero essere sussunte in un’unica grande filiera evolutiva, immaginata e narrata come una specie di corsa a staffetta, con i concorrenti che a turno fanno una parte del tragitto passandosi il testimone della missione civilizzatrice. Così la gara si inaugura con un miracolo greco di filosofia e di libertà, che poi consegna la fiaccola della civiltà occidentale all’Impero Romano che vi aggiunge di suo il diritto, per poi essere trasferita al Medioevo cristiano, che a sua volta l’allunga al Rinascimento delle scoperte geografiche. E così via, passando per l’Illuminismo, la Rivoluzione industriale del libero mercato, fino al nuovo ordine mondiale[8].
È la storia eccezionale di una civiltà eccezionale: anche studiosi molto importanti e rispettabili non hanno saputo sottrarsi alla tentazione di spiegare il miracolo, di isolare il fattore che dell’Occidente ne avesse consentito l’ascesa e poi il trionfo su scala planetaria. Come quando Max Weber si chiedeva perché solo in Occidente si fosse affermata quella forma di razionalità che aveva favorito lo sviluppo capitalistico o come quando De Rougemont riteneva l’amore romantico una prerogativa peculiare dell’Europa, rilevando un nesso genetico tra la facoltà di scegliere liberamente il partner e lo sviluppo dell’individualità moderna[9]. La lista dei valori o delle istituzioni di cui l’Occidente è stato indicato come titolare in esclusiva sarebbe lunghissima (stato di diritto, democrazia rappresentativa, burocrazia meritocratica, tecniche irrigue, stampa, ecc.) e comprenderebbe anche la disciplina praticata da chi scrive, cioè l’antropologia, dal momento che è stato detto che solo l’Occidente avrebbe prodotto degli antropologi poiché solo in Occidente ci sarebbe stata questa tendenza ad interessarsi ad altre culture e a riconoscere loro un valore. Tuttavia, da quando si è cominciato a fare studi comparativi più seri e documentati[10], molte di queste pretese unicità culturali si sono rivelate scarsamente difendibili. È stato difficile trovare tecnologie o realizzazioni istituzionali che non avessero un qualche corrispettivo in altri universi culturali e anche dell’origine di certe innovazioni made in West si è cominciato a discutere. Non è questione di stabilire caso per caso chi sia stato – Cina, India o Europa – l’artefice geniale e chi il pigro beneficiario. Come ha cercato di dimostrare, fra gli altri, Jack Goody, a partire dall’età del bronzo e fino almeno al VII secolo, l’Europa sarebbe stata parte integrante di un più ampio ecumene euroasiatico, composto da una molteplicità di aree di influenza legate tra loro da una fitta rete di scambi di vita culturale e materiale[11]. È una storia di culture che si frequentano, anche se spesso fanno finta di non conoscersi. Studiare l’Occidente prescindendo da questo sistema di interconnessioni significa, quantomeno, ritagliarsi un’unità di analisi assolutamente artificiale. I sommovimenti in atto oggi nell’economia mondiale forse ci aiuteranno a comprendere meglio il senso di una dinamica interconnettiva nella quale siamo stati immersi per tanto tempo e i cui effetti non si sono affatto esauriti. Ma questo discorso di ecumene euroasiatico, a parte certe dubbie declinazioni geopolitiche, fatica ad affermarsi a livello di senso comune. È ancora abbastanza difficile pensare alla propria come all’altrui storia culturale senza ricadere in qualche forma di essenzialismo differenzialista.
Nella letteratura antropologica sono attestati con frequenza casi di società che pervengono ad una consapevolezza di sé ponendosi in relazione con un’altra collettività umana. Se quindi è difficile condividere l’idea di Karl Jaspers riportata nel testo, secondo cui anche questa attitudine sarebbe stata peculiare della sola civiltà occidentale, è chiaro che nella sua proiezione planetaria l’Occidente ha avuto storicamente molte occasioni per valersi di una varietà di “altri significativi” da utilizzare nel processo di autocomprensione, tra cui certamente l’Oriente è stato uno dei più importanti. Nella linea di riflessione inaugurata da Edward Said, l’Oriente è un’invenzione regolata da una grande griglia simbolica denominata “orientalismo” che avrebbe permesso all’Occidente di costruire l’Oriente come alterità e di rappresentare se stesso, secondo modalità non meno essenzializzate e stereotipe, come l’inverso di questa alterità: così il fatalismo immobilista dell’Oriente è il mito del progresso rovesciato; la “tipica” chiusura dell’orientale nel proprio particolarismo culturale ha come pendant una società dinamicamente aperta al mondo; l’immaturità e l’illogicità degli orientali avrà come corrispettivo positivo un Occidente razionale e maturo al punto da potersi assumere il compito di farsi arbitro dei destini di quelle terre e dei popoli che le abitano[12]. Suggestive e stimolanti, le tesi di Said presentano degli inconvenienti, il principale dei quali è l’unilateralità e la quasi assoluta autoreferenzialità che sembra guidare il processo con cui l’Occidente inventa se stesso e i suoi vari altri.
Diversamente, molti saggi compresi nel libro, ma in particolare quelli di Branca e di Bonnett, tengono invece ferma l’idea che il confronto, anche antagonistico, fra Oriente e Occidente consista comunque in una relazione. E non è possibile oscurare uno dei termini di questa relazione senza produrre un quadro falsato, poiché, per quanto grande sia il dislivello di potere e l’asimmetria delle forze, nessuno è così debole da non poter incidere, sia a livello immaginativo che pratico, nella rappresentazione che l’altro si fa di sé. Così come, all’inverso, nessuno è così forte da poter non tenere conto dello sguardo che un’altra civiltà gli restituisce, come provano i casi esemplari proposti da Bonnett di Yukichi e di Tagore, il poeta e drammaturgo indiano a cui dobbiamo alcune delle più interessanti riflessioni su cosa significasse essere indiani e occidentali. Non si può dire, insomma, che l’Occidente sia stato mai l’assoluto padrone di un gioco in cui gli altri erano solo sostanza inerte da manipolare a piacere. Non era vero il secolo scorso, non lo sarà nel futuro. Tutto lascia pensare che “vivremo in tempi interessanti”, come si suol dire in Cina.
di Manuelita Scigliano
Nel dibattito sulle tensioni contemporanee fra Islam e Occidente si continua a parlare di clash of civilisations o di occidentalizzazione forzata, o ancora di “occidentalite”, ad indicare quel particolare stato d’animo definito da Albert Memmi “complesso del colonizzato”. «Per secoli, coloro che sono stati soggetti all’occidentalizzazione e alla colonizzazione hanno dovuto elaborare la sfida dell’essere alienati rispetto sia alle proprie tradizioni sia all’autorità egemone» (p. 143), scrive Alastair Bonnet nel volume.
Sembrerebbe però che nel processo di creazione del concetto di Occidente da parte dei popoli arabo-musulmani si delineino tre distinte fasi storiche e che solo nell’ultima di queste fasi questa categoria si sia legata all’idea di alterità radicale e di modernità come habitus estraneo. Bernard Lewis ci ricorda che per tutta l’epoca medievale e agli albori dell’era moderna l’interesse dei popoli musulmani per quello che accadeva al di là della Grecia era pressoché nullo[13]. Il vero Occidente era tutt’al più la Grecia, ma in un’ottica più temporale che spaziale: era la Grecia dell’epoca classica, a cui si doveva e poteva attingere per alimentare la scienza e la cultura musulmana. Con la Campagna d’Egitto di Napoleone si apre una nuova era; l’Impero Ottomano si scopre improvvisamente vulnerabile e guarda con interesse ai popoli europei che hanno saputo brillantemente avanzare nel campo tecnologico, scientifico e militare. Tutto ciò fornisce lo stimolo a una serie di iniziative: viaggi dell’élite ottomana, traduzioni di opere straniere, aperture di scuole laiche. In Tunisia, ad esempio, nel 1837 Ahmed Bey incarica l’italiano Luigi Calligaris di istituire la prima scuola laica del Paese. «L’activité de traduction et de publication de nouveaux ouvrages qui accompagne la création de l’école militaire introduit une donnée profane dans le paysage culturel […] L’école militaire constitue une petite fenêtre sur un monde différent, qui affiche sa supériorité par son avance technique et qui la traduit par ses victoires militaires»[14].
Fra il Settecento e l’Ottocento, lo spirito che anima il confronto con i popoli europei è sostenuto dalla consapevolezza che i fondamenti su cui si basa il progresso europeo non sono estranei o in contrasto con lo spirito della Legge islamica, e che strumenti e istituzioni possono quindi essere importati, metabolizzati, adattati. Esenoussi, riformatore tunisino del XIX secolo, scriveva: «Dopo aver conosciuto queste leggi e averle confrontate in gran numero con le regole del nostro diritto (Shar’) […] posso dire che l’emanazione delle regole si fonda su principi generali dai quali le nazioni e le razze non possono allontanarsi e su particolari ramificazioni che dipendono dai costumi e dalle situazioni locali e storiche»[15]. A differenza dell’orientalismo, l’occidentalismo, in questa fase iniziale, è più aperto alle negoziazioni di valori e verità, alla messa in discussione dei propri sistemi e al riconoscimento di una storia comune. Laroui scrive che «l’occidentalismo pratico degli arabi significa non tanto uno studio asettico della cultura europea, quanto la valorizzazione e appropriazione di alcuni dei suoi aspetti»[16].
Questo confronto/incontro con l’Occidente, tuttavia, viene bloccato e capovolto dall’avvento del colonialismo, che irrompe imponendo una diversità brandita come confine e una modernità concepita come strumento di oppressione. Col colonialismo l’Occidente diviene l’altro radicale: «L’impact de la colonisation, notamment en Egypte et en Tunisie, a renforcé incontestablement cette conscience des différences et des divergences, corrélativement bien entendu aux tentatives multiples d’assimilation culturelle et politique. Les résistances se multiplient et se renforcent»[17]. Il fenomeno contemporaneo dell’Islam radicale sembra collocarsi su questa linea di sviluppo: «A prima vista, il radicalismo islamico sembrerebbe esprimere la scelta decisa per risolvere il confronto fra “identità propria” e “modello occidentale”» (p. 156). Si identifica Occidente con “modernità” e si resta imprigionati in griglie concettuali che, anche quando tentano di superarla, affondano le radici in un’occidentalizzazione incosciente.
La domanda che resta aperta è: Occidente e modernità devono necessariamente coincidere? O attraverso l’esempio di casi come quello del riformismo ottocentesco tunisino si può arrivare a definizioni di più modernità possibili, non in antagonismo, non totalmente indipendenti, ma coesistenti e comunicanti? Harry Harootunian, riferendosi al Giappone, parla della modernità come «modulazione di un processo globale più ampio» (p. 121). Bonnett cita Tagore che mette in discussione il nesso tra modernizzazione e occidentalizzazione: «Il modernismo non si identifica con il vestito degli europei» (p. 136). L’esempio del riformismo tunisino è un ulteriore tassello nella riflessione sul rapporto fra Occidente, Oriente e modernità, e suscita domande sul peso e sul ruolo della colonizzazione nel processo di modernizzazione prima e radicalizzazione poi delle società musulmane.
[1] «Il cuore del concetto di modernità giace nella cristallizzazione e nello sviluppo di una o più modalità di interpretazione del mondo […] caratterizzate da un livello di apertura e d’incertezza mai raggiunte prima. […] Il cuore del concetto di modernità multiple giace nell’assumere l’esistenza di forme specifiche di modernità influenzate da distintive eredità culturali e condizioni sociopolitiche». (Shmuel Noah Eisenstadt, Jens Riedel e Dominic Sachsenmaier (a cura di), Introduzione a Comparative Civilizations and Multiple Modernities, Brill, Leida 2002).
[2] «Una delle più importanti implicazioni del termine “modernità multiple” è che modernità e occidentalizzazione non sono le uniche “autentiche” modernità, per quanto esse siano accadute prima e continuino a rappresentare un punto di riferimento di base per le altre». (Shmuel Noah Eisenstadt, Multiple Modernities, «Daedalus», 2000, vol. 129, No. 1, MIT Press).
[3] Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 1957 (ed. or. 1918).
[4] Alastair Bonnett, The Idea of the West: Politics, Culture and History, Palgrave Macmillan, New York 2004.
[5] Auguste Comte, Cours de philosophie positive, 60è Leçon, Hermann, Parigi 1975, t. II.
[6] Benedict Anderson, Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma 2009 (ed. or. 1982).
[7] Marcel Mauss, Les civilisations. Éléments et formes, in Marcel Mauss, Oeuvres, t.2, Les Éditions de Minuit, Parigi 1969, pp. 456-79 (ed. or. 1930).
[8] Eric Wolf, L’Europa e i popoli senza storia, il Mulino, Bologna 1990 (ed or. 1983).
[9] Jack Goody, Il furto della storia, Feltrinelli, Milano 2008 (ed. or. 2006).
[10] Per un bilancio aggiornato di questa linea di ricerca si vedano i testi raccolti in Arun Bala e Prasenjit Duara (a cura di), The Bright Dark Ages. Comparative and Connective Perspectives, Brill, Leida 2016.
[11] Jack Goody, Eurasia. Storia di un miracolo, il Mulino, Bologna 2012 (ed. or. 2010).
[12] Edward Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1991 (ed. or. 1978).
[13] Bernard Lewis, The Muslim Discovery of Europe, W.W. Norton & Company, New York 2001.
[14] Leila Temime Blili, Des beys et des réformes. Entre cadre global et contingences locales, p. 25 in AAVV, L’eveil d’une nation – catalogo dell’esposizione Ksar Said 2016-2017.
[15] Citato da Yadh Ben Achour in La tentazione democratica, Ombre Corte, Verona 2010, p. 81.
[16] Abdallah Laroui, Islam et modernité, La Découverte, Parigi 1986, p. 162.
[17] Ibidem, p. 43.