Recensione a: Stefano Bottoni, Orbán. Un despota in Europa, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 304, 19 euro (scheda libro)
Scritto da Carlotta Mingardi
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«Siamo alla ricerca [..] di una forma di organizzazione comunitaria, che ci permetta di diventare competitivi in questa grande corsa mondiale. Per farlo, abbiamo dichiarato che la democrazia non debba essere necessariamente liberale. E che, pur non avendo carattere liberale, può sempre essere una democrazia. […] In questo senso, lo stato che stiamo costruendo è uno stato illiberale, uno stato non-liberale. […] Quando parlo dell’Unione Europea, non lo faccio perché ritengo che sia impossibile costruire uno stato illiberale nell’UE. Credo invece che sia possibile. La nostra appartenenza all’UE non esclude questa opzione[1]».
Con queste parole Viktor Orbán, primo ministro ungherese, inaugurava nel luglio del 2014 la propria visione per la futura trasformazione politica, sociale e culturale del paese: l’auspicata transizione in un modello governativo liberamente ispirato alle esperienze di Russia, Singapore, Cina, India e Turchia, in netto distacco con la tradizione liberale, mantenendo dell’assetto democratico l’aspetto più meccanicistico di organizzazione statuale. Una dichiarazione di intenti recentemente concretizzatasi tramite l’assunzione dei pieni poteri da parte del primo ministro, con il pretesto di meglio fronteggiare l’attuale situazione di crisi sanitaria nel paese.
L’anno 2014 rappresenta, sotto molti aspetti, una data importante nella storia recente dell’Unione Europea: è l’anno in cui si consuma la crisi ucraina e il ritorno assertivo della Russia nel panorama internazionale, realizzatosi a pieno nel 2015 in Siria. È inoltre l’anno delle elezioni europee e dell’inizio di un nuovo ciclo istituzionale, che vedrà, fra le altre cose: la questione del debito greco, col seguente braccio di ferro macroeconomico dell’Eurozona; l’abbattersi della crisi migratoria sulle sponde dell’Europa; la crescita dei partiti populisti di destra in tutta l’Unione; la crisi dell’autonomia giudiziaria in Polonia; la realizzazione di attentati terroristici sul territorio europeo; ed il concretizzarsi del referendum sulla Brexit. In questo contesto, durante gli anni dell’ultimo ciclo istituzionale UE e fino alla fine del 2019, l’influenza della figura di Viktor Orbán sugli sviluppi dell’integrazione europea è andata crescendo, dalla forte opposizione ad un’equa gestione dei flussi migratori alla recente nomina del commissario Olivér Várhelyi – ex ambasciatore ungherese presso la rappresentanza UE, vicino a Fidesz[2] – a capo della Direzione Generale della Commissione Europea per l’Allargamento e la Politica di Vicinato (DG NEAR). Allo stesso modo, è gradualmente accresciuta la persuasività di un modello, di cui Orbán si fa portatore, alternativo alla democrazia liberale, all’interno dell’Unione Europea stessa.
Ma chi è, quindi, Viktor Orbán? Da dove nasce la sua linea politica e come è stato in grado di trasformare l’Ungheria in un paese, per molti aspetti, autoritario?
Studioso e attivista, dissidente nei confronti del potere, impersonato nell’Ungheria comunista dalla figura di János Kádár[3], Viktor Orbán co-fonda nel 1988 a soli 25 anni la Federazione dei Giovani Democratici – Fiatal Demokraták Szövetsége, (più tardi Fidesz – Unione Civica Ungherese). Il partito, formato da attivisti altamente istruiti provenienti dai più importanti istituti accademici del paese, vedeva nel progetto dell’integrazione europea e nell’appartenenza al blocco occidentale il futuro dell’Ungheria democratica. Contraddistintosi per l’abile utilizzo della comunicazione televisiva, Orbán approda in parlamento all’opposizione nel 1990, in seguito alle prime elezioni libere nel paese, vinte dalla coalizione di centro-destra guidata dal Forum Democratico. Il sistema elettorale dell’Ungheria post-comunista, misto, maggioritario e proporzionale, sarà lo stesso che nel 1998 consentirà anche il primo successo elettorale di Orbán. Pur partendo da una posizione liberale, Fidesz si avvia presto verso una graduale riconversione a toni e temi conservatori, soprattutto in ambito economico, verso il quale il premier mirerà sempre più a mantenere un certo grado di sovranità. Un tratto che diverrà più evidente durante il primo mandato governativo (1998-2002), ma soprattutto durante il suo secondo mandato, dal 2010 al 2014. Un’altra importante ridefinizione della linea di partito è segnata invece dalla svolta filorussa del 2010: innegabilmente, il riposizionamento geopolitico della linea di Fidesz ed il riavvicinamento all’ex “nemico”, contro cui lo stesso Orbán si era indirettamente scagliato alla fine degli anni Ottanta, segnano una cesura nell’identità storica del partito.
In Italia, il pubblico inizia a conoscere meglio Viktor Orbán soprattutto dal 2010, all’inizio del suo secondo mandato: la sua battaglia per una trasformazione politica, sociale, culturale ed economica dell’Ungheria però comincia molto prima. È questo il primo messaggio che Stefano Bottoni –attualmente docente di Storia dell’Europa Orientale all’Università di Firenze e precedentemente presso l’Accademia Ungherese delle Scienze – veicola al pubblico italiano nel suo recente saggio Orbán. Un despota in Europa, edito da Salerno Editrice nella collana L’altrosguardo (2019). Sopperendo infatti all’avvertita (e confermata) carenza di un lavoro approfondito sulla storia politica recente ungherese, Bottoni offre una prima visione comprensiva della storia e della crescita politica del più importante personaggio pubblico del paese. In un’operazione che unisce l’aspetto biografico ad un dettagliato resoconto storico del complesso percorso di trasformazione della società ungherese degli ultimi trent’anni, lo studioso ripercorre le tappe fondamentali dell’Ungheria post-comunista: dalla speranza di riscatto nella transizione democratica, alla delusione per l’incremento delle disuguaglianze sociali della svolta neoliberista, all’ingresso nell’Unione Europea, all’approdo ad un nuovo nazionalismo identitario (e magiaro), retoricamente opposto, seppure ancora strettamente dipendente, rispetto a quelle élite occidentali apertamente screditate dal primo ministro ungherese. La chiave di lettura che Stefano Bottoni propone è quella di un politico che è stato in grado di interpretare le aspettative disattese di una classe media, che aveva sì sognato l’Occidente, ma «quello trionfante degli anni ’80, un misto di prosperità, consumismo e protezione sociale, che condivideva dei valori etici molto più conservatori rispetto a quello di oggi» (p.271); un leader che ha trovato, anno dopo anno, le parole giuste per affiliare non solo gli universitari e la classe media urbana, l’originale bacino di voti di Fidesz, ma anche gli operai e i cittadini delle aree rurali.
Se quindi una prima particolarità del saggio di Bottoni sta nell’illustrare come la figura di Victor Orbán sia figlia degli sviluppi sociali in cui si inserisce, un secondo aspetto mostra la peculiarità e la capacità di un giovane intellettuale e attivista. Viktor Orbán, a soli 35 anni diviene primo ministro; si ritaglia, attraverso un delicato gioco di alleanze e opportunità, il ruolo di valido interlocutore presso le élite occidentali; da un’iniziale posizione di marginalità, costruisce il proprio consenso creando una nuova retorica basata sulla rivisitazione di temi xenofobi, nazionalisti e identitari (soprattutto dell’identità magiara), in netta discrepanza con i valori di quelle stesse élite, che tuttavia non cessano mai del tutto di supportarlo[4]. Stefano Bottoni non ci propone il ritratto semplicistico di un uomo, promotore di idee retrograde e pericolose, ma quello di un politico abile, determinato, opportunista, razionale e carismatico, capace di sacrificare e rimodellare nel proprio pragmatismo, persino alcune posizioni storiche del proprio partito, come nel caso del riposizionamento in chiave filorussa. Nelle parole dell’autore, «Orbán non è un funzionario di partito, un giornalista o un intellettuale prestato alla politica; non è un oligarca desideroso di convertire la sua fortuna economica in capitale politico. E non è una delle tante grigie figure dell’area post-comunista, catapultate al potere da amicizie influenti. […] Orbán possiede un intuito potente e resta oggi l’unico protagonista del collasso del blocco sovietico ad avere attraversato decenni di crisi e rivolgimenti senza sparire o marginalizzarsi».
In questo resoconto, oltre al ruolo giocato dalle priorità delle élite internazionali e dalle capacità politiche di Viktor Orbán, svolge una parte significativa anche la difficoltà del partito socialista ungherese nel far fronte alle problematiche della crisi economica (e poi migratoria): ma soprattutto, l’incapacità della sinistra ungherese nel creare un’opposizione credibile al potere persuasivo della comunicazione di Fidesz, diffuso attraverso i diversi organi di informazione e sui social media.
Sempre dando conto al lettore della complessità e particolarità delle evoluzioni locali, nel seguito del volume l’autore apre ulteriormente l’analisi alla cornice di rapporti internazionali in cui il primo ministro ungherese ha saputo posizionarsi: da una parte Stati Uniti e Unione Europea, in particolare la Germania; dall’altra, l’importante riavvicinamento con la Russia a partire dal 2010, in un momento in cui i rapporti con l’Unione Europea andavano gradualmente aggravandosi a causa del conflitto russo-georgiano del 2008 e della seguente rottura della cooperazione in materia di sicurezza e antiterrorismo. Anche in questo caso, l’immagine che Bottoni ci trasmette è quella di un capo di stato motivato a divenire un mediatore prezioso per le cancellerie occidentali e russe, ma anche determinato a studiare da vicino la modalità governativa, comunicativa e di gestione del dissenso messa in atto da Vladimir Putin, attuando una vera e propria azione revisionista della stessa linea politica che aveva caratterizzato la nascita di Fidesz.
In questo frangente, Bottoni pone alla nostra attenzione un altro aspetto importante: non solo la capacità persuasiva di questa alternativa di sistema all’ordine liberale, ma anche i suoi limiti e contraddizioni, specialmente se inserita in una realtà interconnessa come quella del progetto europeo. La società ipotizzata (e concretizzata) da Orbán, condivide dell’assetto europeo l’impostazione economica e l’approccio neoliberista, con significative eccezioni[5]. Tuttavia, nel difendere la centralità statale e soprattutto, la sua sovranità, Orbán non ritiene necessario aderire ad una comunità di valori quali il rispetto delle minoranze, dei diritti fondamentali dell’individuo e dell’indipendenza della magistratura: tutti aspetti della democrazia liberale secondo il primo ministro non essenziali, che frenano la corsa dell’Ungheria verso il raggiungimento di un assetto sociale stabile, efficiente e competitivo.
Nell’ambito dell’integrazione europea, questo diviene per l’UE un’arma a doppio taglio: nonostante i proclami sovranisti di Orbán, l’Ungheria rimane strettamente dipendente dagli investimenti delle compagnie europee; congiuntamente, il significativo coinvolgimento delle stesse aziende europee nell’utilizzo dei fondi di sviluppo europeo, di cui l’Ungheria rimane fra i maggiori beneficiari (p.242) pone altri stati membri dell’UE in una posizione delicata. La questione quindi non sarà comprendere se Orbán voglia discostarsi dall’UE, ma piuttosto quanto la sua politica possa influenzarne gli sviluppi, fino a dove l’UE sarà disposta a tollerare la violazione dei propri valori fondanti per tutelare il proprio assetto economico e che tipo di implicazioni tutto ciò potrà avere sul progetto europeo.
L’ultimo, importante, capitolo del volume è dedicato alla “visione del mondo” di Viktor Orbán e della nuova classe di intellettuali, attivisti e storici che le sue politiche hanno saputo creare: studiosi e amministratori che agiscono in base ad un sentire che, citando Bottoni, «che si alimenta sull’orgoglio della diversità, per emancipare l’identità politica e culturale di destra dalla subalternità rispetto al post-comunismo in Ungheria, e alla sinistra intellettuale post-Sessantotto in Occidente» (p.226). Una visione che non pretende di inserirsi all’interno di una particolare ideologia, liberale o socialista, ma che vede nel conservatorismo pragmatico uno stile di vita.
In conclusione, lo studioso ci presenta la storia di una controrivoluzione politica, culturale e sociale, resa possibile dall’intersecarsi di fattori globali, locali, personali. Se la capacità e l’intelligenza politica di Orbán rimangono centrali, ed egli rappresenti «forse il politico più talentuoso ed originale comparso sulla scena politica europea negli ultimi decenni» (p.9), il lavoro di Bottoni mostra anche quanto abbiano contribuito al suo successo le aspettative disattese della classe media ungherese, le difficoltà dei partiti di sinistra ed il supporto delle élite internazionali. Il risultato che ci si presenta è un modello governativo sì ispirato all’esperienza russa, o turca: ma, in qualche modo, ancora differente, dove «Orbán non è espressione di un blocco di potere, come Vladimir Putin, ma creatore sovrano di un proprio sistema di governo, che parte dall’apparato statale e si snoda lungo la piramide sociale ungherese per influenzare le dinamiche globali» (p.9). Imperfetto, autoritario, moderno e feudale insieme, ma fondamentalmente stabile.
Lungi dal volerne affermare “l’unicità”, l’opportunità di ripercorrere la storia recente ungherese ci aiuta ad interpretare un importante tassello del puzzle del presente, necessario per intravedere i potenziali sviluppi dei tempi a venire.
[1] Il discorso integrale (in lingua inglese) di Viktor Orbán, del 25 luglio 2014 è reperibile a questo link
[2] Fidesz – Unione Civica Ungherese, partito politico co-fondato da Viktor Orbán il 30 marzo 1988.
[3] János Kádár, segretario del Partito Socialista Operaio Ungherese, fu di fatto primo ministro dalla rivoluzione del 1956 al 1988.
[4] Vista l’impossibilità di raggiungere una chiara maggioranza sulle modalità di esclusione di un partito dal PPE, l’appartenenza del partito di Viktor Orbán al Partito Popolare Europeo è stata solamente sospesa a tempo indeterminato nel gennaio 2020.
[5] In seguito alla svolta del 2010, che ora verrebbe definita “sovranista”, il governo di Viktor Orbán adottò delle misure quali la nazionalizzazione dei fondi pensione e degli importanti limiti all’indipendenza della Banca Centrale dall’esecutivo.