Scritto da Pasquale Albino, Gian Marco Glisoni
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Quali sono le coordinate concettuali e istituzionali che delimitano l’attualità politica? Dove si svolgono i processi di governo della società globale e secondo quali modelli di razionalità? Che ruolo gioca lo Stato entro questa trama di saperi e poteri? E infine, quali pratiche di resistenza ne contestano il funzionamento indicando la possibilità di linee di sviluppo alternative? Come sostenuto da Michel Foucault già alla fine degli anni Settanta, per provare a rispondere a questo genere di domande occorre tracciare una genealogia della modernità politica liberale. Nel tentativo di gettare luce su quest’ordine di problemi e sulla loro genesi storica abbiamo intervistato Sandro Chignola, professore ordinario di Filosofia politica presso l’Università di Padova.
Sandro Chignola è professore ordinario di Filosofia politica presso l’Università di Padova. Dirige per quest’ultima il Centro Interuniversitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo (CIRLPGE) ed è membro del comitato scientifico di importanti riviste scientifiche italiane ed estere come «Filosofia politica», «Res Publica. Revista de filosofia política», «Cahiers GRM». È stato visting professor presso l’EHESS a Parigi, l’UNSAM a Buenos Aires e l’Universidad de Cordoba. Autore di nove monografie, alcune delle quali tradotte in inglese, spagnolo e portoghese, partecipa all’esperienza di ricerca collettiva di EuroNomade. Durante i suoi studi si è occupato in particolar modo dell’Ottocento francese, del pensiero di Michel Foucault e delle trasformazioni nelle istituzioni e nei saperi della politica all’altezza dei processi di globalizzazione. I suoi lavori si inseriscono nel contesto del gruppo di ricerca padovano sui concetti politici e nel dibattito internazionale legato al post-operaismo, coniugando con originalità la prospettiva storico-concettuale e l’orizzonte della teoria critica.
I suoi primi lavori si collocano entro il quadro della ricerca storico-concettuale sui concetti politici moderni svolta dal gruppo padovano fondato da Giuseppe Duso, concentrandosi in primo luogo sul pensiero controrivoluzionario francese. A partire da un breve chiarimento sull’impostazione scientifica del gruppo, potrebbe spiegarci a quali esigenze politiche e filosofiche hanno risposto queste sue prime ricerche?
Sandro Chignola: Noi del gruppo di ricerca sui concetti politici moderni abbiamo certamente inteso la storia concettuale entro un’impostazione metodologica comune, che è stata però declinata in maniera differente da ognuno. Ciò che condividevamo era una doppia polemica con la storia della filosofia e con la storia delle idee: polemizzavamo con la prima per il continuismo che esprimeva e con la seconda – oltre che per il continuismo da cui anch’essa risultava caratterizzata – per il suo costante operare anacronistico, consistente nello schema secondo il quale la costanza dell’idea finisce con il retroproiettare il suo significato attuale su fonti che non conoscono ancora lo specifico livello di concettualizzazione sul quale si colloca. Un esempio lampante a riguardo è l’utilizzo del termine “democrazia” in riferimento alla polis greca, che può essere foriero di enormi equivoci qualora non si assuma la netta differenza del significato assunto dalla parola “democrazia” nel contesto antico e in quello moderno. Per ciò che concerne la mia maniera specifica di praticare la storia concettuale, ero molto influenzato da Pierangelo Schiera, la cui partecipazione nella storia del gruppo padovano aveva avuto una grande rilevanza. In particolare, condividevo la sua attenzione alla dimensione propriamente materiale dei livelli di concettualizzazione. Ciò di cui intendevo occuparmi era, dunque, l’analisi dei fattori costituzionali complessivi che concorrevano a definire la materialità dell’impianto delle logiche di organizzazione discorsiva sul livello giuridico e istituzionale. A questo scopo fu decisivo lo studio dei testi di Reinhart Koselleck e Otto Brunner, entrambi storici appartenenti alla Begriffsgeschichte tedesca introdotti in Italia da Schiera. Così, prima leggendo Koselleck e poi problematizzandolo attraverso la lettura di Brunner, eravamo pervenuti all’idea della rottura determinante che si è prodotta nella storia del pensiero con l’impianto della scienza politica moderna. Progressivamente, iniziavamo a definire questa scienza come l’unica nella quale la politica fosse arrivata a dotarsi di concetti politici in senso proprio. In essa diveniva chiave la divaricazione tra teoria e prassi, tra il livello del concetto e quello dell’organizzazione della realtà. Per noi, questo orizzonte di organizzazione del sapere politico attorno al diritto naturale moderno – anche alla luce della produzione teorica della Rehabilitierung der praktischen philosophie, che in quegli anni era molto diffusa – mostrava con evidenza la sua radicale eterogeneità rispetto al livello epistemico della politica classica greca e premoderna. Contemporaneamente, un’altra presenza assolutamente rilevante all’interno del gruppo di ricerca sui concetti politici era Alessandro Biral, professore di Storia della filosofia politica a Venezia, purtroppo deceduto piuttosto giovane. Biral si era messo a lavorare non soltanto su Hobbes e Rousseau, come facevamo tutti insieme, ma anche sui dibattiti interni alla Rivoluzione francese e sulla Costituzione del ’91 in particolare. Questi suoi studi avevano contribuito a fissare, nell’impostazione teorica condivisa del gruppo, l’idea che la verità effettuale del contrattualismo moderno, ovvero della scienza politica moderna inaugurata da Thomas Hobbes, consistesse – per dirla con un’espressione spesso usata da Duso – nella “ricaduta costituzionale” della sua struttura logica nell’organizzazione materiale del pensiero costituzionale e costituente francese. In questo quadro, il mio interesse si era direzionato verso la controrivoluzione per via di un ulteriore incontro, che era fondamentalmente quello con la teologia politica di Carl Schmitt. Essendo lettori di Koselleck non potevamo non incrociare il pensiero di Schmitt, autore con cui lo storico tedesco è stato in relazione personale, com’è noto, subendone moltissimo l’influenza. Per noi, Schmitt risultava fondamentale per impostare una certa lettura del pensiero di Hobbes. Nelle mie prime ricerche il mio problema era stato, innanzitutto, cercare di vedere attraverso la controrivoluzione quale fosse il limite esterno del discorso politico moderno, poiché al tempo in cui facevo il dottorato si tendeva a leggere i controrivoluzionari come decisamente antimoderni. Ma la domanda che mi muoveva esorbitava questa consuetudine interpretativa; infatti, quello che mi interessava all’epoca era andare a verificare se effettivamente la logica controrivoluzionaria fosse in grado di esondare il perimetro logico di organizzazione della modernità. La mia risposta a tale domanda era negativa. Tant’è vero che il mio primo libro cercava di dimostrare che la teoria del potere sociale di Louis De Bonald non era in grado di eccedere la macchina moderna della sovranità, essendone invece potentemente influenzata. Adesso riconosco che l’impostazione di quel testo era in parte sbagliata, come per altro già diceva Adone Brandalise, uno dei miei maestri del tempo. In seguito ho, difatti, riconosciuto altri aspetti del pensiero controrivoluzionario che mi hanno fatto ricredere riguardo alla possibilità di ridurlo alla gabbia concettuale del diritto naturale moderno.
Dopo le sue prime ricerche sul pensiero controrivoluzionario, si è occupato della nascita del concetto di società e della trasformazione del concetto di governo nella modernità politica europea. È stato tale mutato approccio ai controrivoluzionari a condurla verso questo successivo snodo della sua ricerca?
Sandro Chignola: Sì, mi sono reso conto che nel pensiero controrivoluzionario erano presenti un livello di inventività concettuale – si pensi ad esempio al termine “proletario”, che nel lessico politico francese ha una prima circolazione proprio in Louis De Bonald e Joseph De Maistre – e una logica che permette di pensare la dimensione del sociale come spazio di circolazione del potere. Entrambi questi elementi, che da giovanissimo non mi erano parsi particolarmente interessanti, risultano per certi aspetti irriducibili al quadro concettuale moderno. La loro scoperta è stata motivo di un mio rinnovato interesse per questi autori, che mi ha condotto verso la ricerca intorno al concetto di società. Di fatto, il pensiero controrivoluzionario è centrale per Auguste Comte e per l’impianto delle scienze sociali francesi, anche se non in una forma diretta che porterebbe a vedere nel pensiero controrivoluzionario una proto-sociologia. Questo aspetto innovatore del pensiero controrivoluzionario diviene evidentemente rilevante qualora si voglia provare a individuare un’altra filosofia politica nelle scienze sociali francesi, come fa il mio amico Bruno Karsenti. In quest’ottica, già nel pensiero controrivoluzionario si possono cominciare a rinvenire le tracce di un movimento di concettualizzazione che esorbita la scienza politica moderna. Alcuni tra i più giovani del gruppo padovano attualmente lavorano in questa direzione, indagano cioè sulle possibilità di sviluppo di questa logica alternativa proprio a partire dalle scienze sociali francesi. Dunque, i controrivoluzionari sono un po’ questa curiosa nebulosa: in parte divorati dall’impianto delle categorie politiche moderne e in parte introduttori di una forma di ragionamento politico che in qualche modo prova a forzare le maglie del discorso politico moderno, invitando con ciò a pensare un’altra modernità. Quest’ultima è, appunto, ciò a cui con queste ricerche anche io ho cominciato a dare l’attenzione che essa merita. L’ho fatto studiando a mio modo però, ad esempio scegliendo di tematizzare il pensiero di un sociologo “minore” come Gabriel Tarde e non quello ben più classico di Émile Durkheim, o studiando – come in un testo che è attualmente in pubblicazione – la semantica dello sviluppo come rovesciamento della tematica del progresso del Settecento francese, attraverso Auguste Comte, François Guizot e Alexis De Tocqueville. C’è pertanto una convergenza di temi d’indagine con Bruno Karsenti, in quanto ragioniamo sulle stesse contraddizioni della modernità. Ciò è testimoniato anche dal libro che ho scritto su Hegel, Lorenz Von Stein, le scienze sociali tedesche e Tocqueville[1]. In quel testo il mio problema iniziava ad essere la società come impensato delle categorie politiche rivoluzionarie. Diciamo che avevano iniziato a interessarmi, in questa direzione, le formule che provavano a fare i conti con quello che era il mantra di Pierre Royer-Collard – importante politico e filosofo liberale della Francia primo-ottocentesca – il quale, trovandosi a dover compendiare in una breve formula il risultato della Rivoluzione francese, affermava: «c’est la société en poussière». È la società polverizzata, atomizzata, individualizzata, secondo quel meccanismo di dissociazione che vediamo all’opera in Hobbes, in cui lo stato di natura dev’essere dissolto nei suoi elementi individuali per poter essere riorganizzato dalla teoria politica. Dunque, come Karsenti, avevo cominciato a pormi questa domanda: che cos’è la società? La risposta non l’avevo però cercata direttamente nel registro delle scienze sociali francesi ma ero, piuttosto, partito da quella teoria dei fattori politici costituzionali – come la chiamerebbe Schiera – ravvisabile in autori come Hegel e Lorenz Von Stein. È proprio a partire dal pensiero di questi autori che, in area tedesca, si è registrato il processo che ha condotto all’emersione, nel lessico politico, della centralità del sostantivo “società civile” (bürgerliche Gesellschaft) – che ha poi perso l’aggettivo divenendo semplicemente “società” – e dell’aggettivo “sociale” (sozial). In questo senso ho preso una direzione un po’ diversa da quella di Duso, probabilmente perché nel mio lavoro di ricerca si è sempre più radicata l’influenza di Schiera. Il mio problema diventava cogliere l’organizzazione della riflessione sulla politica non soltanto sui livelli alti della storia della filosofia ma in quell’impasto vischioso che Schiera chiama le dottrine politiche, e a cui personalmente mi riferirei come dimensioni istituzionali del pensiero politico. Parlo dell’impasto dei concetti politici che circolano sia al livello delle istituzioni che a quello dell’opinione pubblica. Questo intreccio non risulta organizzato da una priorità specifica, gerarchica e fissa, per cui la filosofia sarebbe sovraordinata al diritto o alla teoria dell’amministrazione. Si tratta, piuttosto, di una dimensione densa e aggregata della discorsività entro la quale si producono e si riproducono impianti concettuali dall’immediata vigenza politica. A riguardo, è stato molto importante il momento in cui ho scritto il testo sulla storia del concetto di società[2] perché, cercando di capire cosa significasse Regierung (governo) dentro una dimensione di articolazione del rapporto con il sociale, mi sono trovato a rileggere la lezione di Foucault sulla governamentalità pubblicata nel 1978 su aut-aut[3]. È stato così che ho cominciato a tematizzare alcune forme di governamentalizzazione della politica, in quanto mi rendevo conto che non era un caso che Lorenz Von Stein parlasse della Wissenschaft der Gesellschaft (scienza della società) come Regierungswissenschaft (scienza di governo) e del problema di quella sorta di endiadi che si dà tra la materiale processualità sociale e il problema del suo governo. La problematica del governo riemergeva dunque attraverso il quadro della sovranità intesa nel senso moderno, eccedendolo. Ciò avveniva nonostante la maniera giusnaturalistica di intendere la politica cercasse specificamente di elidere il problema del governo, di espellerlo da sé in virtù del processo formale di autorizzazione alla base della rappresentanza politica che, a partire da Hobbes, fonda la legittimità e l’irresistibilità del potere sovrano. Questo momento è stato importante perché lì ho cominciato a fissare quelli che sono tutt’ora alcuni tra i miei maggiori interessi di ricerca, non in rottura ma in perfetta continuità con il mio modo di declinare la storia dei concetti politici. Immergere l’approccio storico-concettuale in queste dimensioni più vischiose della discorsività politica mi ha, infine, condotto all’esigenza di approfondire lo studio della microfisica e della genealogia del potere di Foucault. Per comprendere cosa Foucault intenda con microfisica del potere, occorre quantomeno leggere Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975) da cui si ricavano indicazioni molto precise in questo senso. Ci sono almeno un paio di luoghi in questo testo del 1975 dove Foucault rivendica esplicitamente il passaggio da una macrofisica ad una microfisica del potere. A partire da Sorvegliare e punire Foucault mette in luce che, se il potere è fatto per fabbricare individui, quella fabbricazione di individui si dà certamente, in primo luogo, nelle teorie del contratto sociale moderne, ma viene poi operata materialmente nei bassifondi di quei saperi esperti, tecnici – e certamente non filosofici – che sono quelli degli esperti di educazione, di addestramento militare, di criminologia, ecc. In questo solco ho provato successivamente a porre altri miei lavori, poiché è proprio su quest’ultimo piano – quello microfisico o governamentale – che si dà quell’impasto che Schiera chiama dottrine politiche, in cui si stratificano diversi livelli di istituzionalizzazione del sapere politico. Ciò non va certo inteso nel senso di una sorta di rapporto comandato per cui la teoria si istituzionalizza ma, al contrario, entro una circolarità per cui la prassi tende ad istituzionalizzare riflessivamente i concetti che le servono per funzionare e, viceversa, i livelli concettuali non sono scindibili dalla prassi che li istituisce. Per pensare ciò mi è servito Foucault.
Il percorso della storia concettuale padovana non è, tuttavia, il solo che lei abbia seguito, dal momento che Toni Negri è stato un altro dei suoi maestri e molta della sua produzione degli ultimi anni interseca una linea di pensiero post-operaista. Come tiene insieme due riferimenti per molti aspetti eterogenei come Duso e Negri nella sua proposta filosofico-politica?
Sandro Chignola: Innanzitutto, c’è un semplice dato biografico da considerare. Io mi sono iscritto all’Università di Padova dopo il 7 aprile 1979[4]. Quindi, inizialmente Toni lo conoscevo solo per alcuni dei suoi lavori che, per diversi motivi, ci trovammo a leggere avidamente. Il primo libro di Toni che ho letto credo sia stato Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse (1979) che, offrendo preziosi strumenti teorici, permetteva di posizionarsi, anche politicamente, nel campo di una nuova sinistra totalmente liberata dalle ortodossie comuniste del Partito. Cosa che mi interessava molto dato che le mie esperienze politiche si muovevano in quell’area, anche se negli anni Settanta ero molto giovane. Ad ogni modo, quel libro di Toni ha iniziato a cambiare molte delle mie prospettive – per come potevo capirlo, dato che avevo circa vent’anni quando è uscito. Successivamente, il pensiero di Toni entra nei discorsi del gruppo di ricerca sui concetti politici introdotto da altri. Accade durante i seminari che hanno poi portato alla pubblicazione di un libro matriciale per, almeno, un paio di generazioni di studenti e ricercatori di filosofia politica a Padova: Il contratto sociale nella filosofia politica moderna (1987). Al tempo, alcuni tra noi rilevavano delle difficoltà nel tentativo di posizionare Spinoza tra gli autori del contratto sociale, ovvero nel campo della teoria politica moderna. Il problema è che il pensiero politico di Spinoza, nonostante fosse contemporaneo e per molti versi interno agli schemi concettuali della filosofia politica del Seicento, sembrava essere irriducibile ad essi. Ricordo che qualcuno propose di leggere non tanto L’anomalia selvaggia (1981), quanto un articolo che Toni – grazie ad Emilia Giancotti, grande studiosa di Spinoza – aveva pubblicato proprio in quegli anni sulla rivista spinozista Studia Spinozana[5], intitolato Reliqua desiderantur. Congettura per una definizione del concetto di democrazia nell’ultimo Spinoza. Fu leggendo questo testo che cominciammo ad accorgerci che per alcuni di noi Toni poteva essere, oltre che un riferimento politico (quale era già stato), anche un riferimento filosofico. Infatti anche lui, come noi, era da sempre profondamente discontinuista, anche laddove si occupava di storia della filosofia o del diritto. Inoltre, anche lui si cimentava con quella dimensione di impasto tra livelli concettuali e prassi politiche a cui ho fatto riferimento. Infine, negli anni si è saldato anche un rapporto personale sempre più stretto. Dai primi anni Duemila abbiamo condiviso varie esperienze, come la fondazione, insieme ad altri, di Uninomade e poi di Euronomade, attraverso cui abbiamo promosso svariate iniziative e seminari, curando anche dei libri collettivi. Ciò è avvenuto proprio negli anni in cui anche Toni andava sempre più radicalizzando filosoficamente una duplice prospettiva: da un lato, l’idea che gli schemi concettuali classici della modernità politica andavano progressivamente esaurendosi o trasformandosi in maniera radicale nell’impatto con la globalizzazione – il mondo cambiava in maniera così rapida e radicale da richiedere l’invenzione di nuovi strumenti per l’interpretazione del movimento della società globale e l’intervento politico in essa –; dall’altro lato, Toni rendeva sempre più evidente nel suo impianto discorsivo una forte influenza di Foucault, che aveva iniziato a manifestarsi quantomeno a partire dagli anni Novanta. “Come facciamo a pensare l’attualità?” è una domanda di stampo foucaultiano che, nei termini che accomunano me e Toni, può essere tradotta in questi termini: “come facciamo a pensare la politica al di fuori del lessico della sovranità e dei diritti in una prospettiva di liberazione?”. Non che nella tradizione politica alla quale Toni e io apparteniamo – seppur con età e stili diversi – si fosse mai pensato che si possa fare politica in nome di diritti esigibili di fronte allo Stato. Però, insomma, c’era il problema di pensare altrimenti tutta questa relazione, comprendendo la materialità dei processi che avevano portato a scomporre il quadro sovranista e costituzionale classico. Di qui l’altro mio problema. Avendo acquisito una posizione accademica e dovendo provare a insegnare qualche cosa ai giovani, era necessario fissare dei punti di orientamento per la scelta delle tematiche e delle modalità di questo insegnamento. Decisi dunque di focalizzarmi attorno a due principali problematiche: da un lato, la polemica con la storia della filosofia di cui ho parlato e, dall’altro, la radicalizzazione della prospettiva storico-concettuale verso un pensiero filosofico in grado di assumere responsabilità politica nei confronti della prassi. Per noi che facevamo parte del gruppo di Duso fare filosofia ha sempre significato anche quest’assunzione di responsabilità politica, visto che i concetti politici moderni non possono strutturalmente esaurire la problematicità della prassi. Questa postura è simile a quella dell’etica weberiana del lavoro intellettuale, postura che ritrovo anche in Foucault, secondo il quale occorre pensare il senso della filosofia soltanto fuori di sé, quando essa si fa storica o interamente politica. L’assunzione di questa impostazione mi ha condotto a pensare – nel mio rapporto con l’Università, da un lato, e in quello con le organizzazioni politiche che frequentavo, dall’altro – che il sapere filosofico non è certamente un sapere neutro e che, anzi, nel modo di praticare la storia della filosofia o la filosofia teoretica di altri colleghi, questa presunta neutralità o asetticità del pensiero trasformi la filosofia in filologismo, obbedendo ad un implicito riflesso di potere. Infatti, il sapere ordinato, neutro, che così si insegna, è in realtà funzionale al consolidamento dei rapporti di potere dati, per come essi si riproducono. Ciò mi ha portato a ritenere che fosse importante ragionare tenendo sempre in considerazione il fatto che c’è una responsabilità politica nella filosofia. Il che per me vuol dire, banalmente, che c’è responsabilità anche nella tematizzazione e nell’esposizione dei programmi che si fanno per le lezioni. Occorre chiarire che la filosofia è differente dall’entomologia – ammesso che nello studio degli insetti non si diano scelte politiche – e che dunque le scelte politiche, da cui il pensiero filosofico prende l’abbrivio e con cui deve confrontarsi costantemente, vanno non solo esplicitate ma giustificate e rivendicate. C’è una responsabilità politica del pensiero che per me è irriducibile, così come c’è una responsabilità politica nei confronti della vita che scegliamo di fare. Ciò ha a che fare con Weber, con l’ultimo Foucault e con la prassi istituzionale dell’insegnamento universitario.
Nei suoi lavori più recenti, lei utilizza la nozione di governance per tracciare il superamento della democrazia rappresentativa cui ha fatto cenno parlando della globalizzazione. Chiarirebbe in che senso questo processo conduce verso una gestione del potere e una produzione del diritto in chiave post-democratica e sovranazionale?
Sandro Chignola: Per molti di noi, i due corsi di Foucault al Collège de France, cioè Sicurezza, territorio e popolazione (1978) e Nascita della biopolitica (1979), sono arrivati al momento giusto. Si tratti di corsi tenuti tra il 1977 e il 1979 che dimostrano la lucidità di Foucault, perché, mentre tutti al tempo ritenevano che la rivoluzione neoliberale di Reagan e Thatcher non fosse destinata ad alcuna longevità politica, lui ne aveva colto la radicalità. In questo processo Foucault coglie la materializzazione di ciò che aveva chiamato “governamentalità”, con un termine oscuro ma destinato a grande fama. Per chi cominciava a rendersi conto, a partire dall’inizio degli anni Duemila, del cambiamento indotto dalla liberalizzazione dei commerci e dalla globalizzazione, nonché dal crescente ruolo che cominciavano ad avere organizzazioni non sovrane e non elettive, il lessico foucaultiano permetteva di definire questi processi nei termini della governance multilivello. L’obiettivo era quello di cercare di capire come si stava trasformando il governo nella materialità dei suoi effetti e nella materialità delle resistenze che doveva processare. Il nostro paradigma di lettura si è sempre situato al di fuori della retorica ideologica secondo la quale la modernità diventava “liquida”, conducendo in una sorta di epoca post-politica o secondo la quale, come alcuni sostenevano allora, il mondo si unificava nel segno dei flussi. Per noi, il problema era quello di capire che la globalizzazione era in primo luogo una risposta politica cosciente per risolvere i problemi della conflittualità diffusa degli anni precedenti. Riorganizzare in senso neoliberale lo Stato significava riorganizzarlo lateralmente rispetto alla sua incapacità di elaborare la crescente richiesta di claims degli anni Settanta. Infatti, il neoliberalismo inizia a pianificare le proprie istituzioni immediatamente dopo questo decennio. Lo sviluppo delle organizzazioni internazionali in senso neoliberale, da una prospettiva operaista, non poteva che essere interpretato come la risposta alla potenza soggettiva del lavoro vivo che, nella seconda metà degli anni Settanta, aveva reso di fatto le fabbriche e alcuni interi Paesi tendenzialmente ingovernabili. In questo modo si attuava un insieme di trasformazioni istituzionali in direzione post-democratica e post-rappresentativa, poiché le procedure di governo tendono ad organizzarsi attraverso saperi tecnici che si sottraggono al problema dell’autorizzazione democratica. Inoltre, questa operazione tenta di rispondere ad una conflittualità crescente a livello internazionale. Occorre sempre decentrare lo sguardo: gli anni Ottanta sono trascorsi in maniera abbastanza pacifica in Europa, ma a livello globale questo decennio e quello seguente sono stati periodi di straordinaria conflittualità, come dimostrano i cicli di lotta in Corea e in America Latina. La globalizzazione è stata un tentativo di riorganizzare i poteri e le istituzioni teso a tecnicizzare il problema della decisione politica anche su questo livello. Abbiamo quindi iniziato ad occuparci di questo aspetto. Negri e Hardt avevano riconosciuto l’unificazione di questo processo di ridefinizione del comando nella formula dell’“Impero”. In Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2000), intendono segnalare la presenza di una costituzione mista globale composta di tre elementi: in primo luogo, la decisione imperiale monopolizzata dagli Stati Uniti in quanto detentori della potenza nucleare e dell’esercito più potente al mondo; in secondo luogo, l’assetto aristocratico dipendente da un livello di organizzazione tecnica di esecuzione e gestione governamentale della globalizzazione attraverso istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea, i grandi oligarchi che sono diventati ora i capitalisti delle piattaforme; e, infine, l’elemento democratico e plebeo rappresentato dalla moltitudine, che ha trovato una forma di politicizzazione, ad esempio, durante il G8 di Genova. Noi non siamo mai stati no-global, ma abbiamo sempre pensato ad un’impostazione differente della globalizzazione. Circolava una retorica tesa a giustificare la globalizzazione nei termini di un’esportazione generalizzata della democrazia e dei diritti, mentre per noi si trattava di pensare dal basso i processi di politicizzazione globale. Queste trasformazioni, che conducevano in direzione di una multi-level governance come riorganizzazione dei sistemi di potere in ottica post-statuale, se lette con una lente foucaultiana – cioè riconoscendo che il rapporto di potere, come il rapporto di capitale, è sempre una relazione duale e che quindi è sempre la resistenza che obbliga il potere a riconfigurarsi – offriva la possibilità di pensare la politica soggettiva delle classi oppresse sui molti livelli di confronto possibile tra la governance e la soggettività insorgente. In altri termini, si trattava di risemantizzare in senso moltitudinario quella soggettività rivoluzionaria che storicamente era sempre stata pensata nei termini della classe operaia. Le lotte delle donne contro il governo patriarcale così come la lotta di chi resiste in Val di Susa contro le decisioni amministrative di espropriazione intercettano alcuni livelli di ristrutturazione del potere, configurando una lotta politica all’altezza delle trasformazioni in atto. Volendo sintetizzare al massimo, non si può parlare di un unico soggetto. “Moltitudine” era il singolare collettivo per nominare questo assemblaggio eterogeneo che di volta in volta si definisce secondo la specificità di confronto con uno dei livelli determinati della governance. Nei regimi di governance si produce, da un lato, il punto massimo di innovazione delle tecnologie di potere e, dall’altro, il punto debole della sua organizzazione. Il fatto è che nel discorso della sovranità la legittimità della decisione dipende, con un rivolgimento al passato, dalle procedure con le quali essa si forma. A riguardo basti pensare alle retoriche politiche quotidiane attraverso cui spesso l’esecutivo si rivolge contro i poteri costituzionali che limitano l’arbitrarietà della sua decisione: “ci hanno eletti e quindi siamo legittimati ad agire”. Nel lessico della governance, invece, si assiste ad un’inversione della logica temporale dell’autorizzazione democratica, poiché chi governa è sempre esposto al confronto con le resistenze di coloro che gli stanno di fronte e, pertanto, legittima la propria operazione sulla base del risultato che otterrà, secondo un evidente rivolgimento alla dimensione temporale del futuro. Questa struttura, da un certo punto di vista, coincide con la retorica promissoria per la quale chi detiene le funzioni di comando sostiene sempre che accettando le sue decisioni si otterranno i risultati collettivamente migliori, ma al tempo stesso è proprio ciò che espone produttivamente le funzioni della governance multilaterale al confronto costante con coloro che in quelle decisioni governamentali si trovano coinvolti sul livello specifico che li riguarda, obbligando il processo di governo a rendere conto dell’operazione che sta compiendo. Questo apre degli spazi inediti di soggettivazione politica perché il problema della legittimità non può più essere risolto in termini puramente formali.
Potrebbe insistere sul concetto di moltitudine che ha mobilitato? Quali trasformazioni politiche ed economiche hanno segnato l’insufficienza della nozione di classe operaia e imposto la sua rielaborazione?
Sandro Chignola: Il concetto di moltitudine cercava di definire un’interpretazione della nozione di classe all’altezza della transizione tra il regime di accumulazione fordista e quello post-fordista. Il regime di accumulazione fordista aveva la caratteristica di dare luogo a grandi concentrazioni di lavoro operaio territorializzate in sistemi produttivi nazionali, ma questo rendeva possibile anche la speculare concentrazione di potenti soggettività del lavoro vivo che contestavano le forme di accumulazione della fabbrica. La ridefinizione degli assetti produttivi attuata attraverso i processi di globalizzazione si è configurata come una risposta al rischio rappresentato da queste concentrazioni attraverso la loro scorporazione. Il decentramento delle produzioni si è realizzata sia in chiave di divisione internazionale del lavoro per dislocare la concentrazione operaia in luoghi non soggetti a forme di politicizzazione, sia mediante la messa al lavoro di competenze che non sono più quelle soltanto fisiche del lavoro operaio classico. La transizione al post-fordismo riguarda forme decentrate e reticolari della produzione del valore e, soprattutto, per quanto concerne il nesso con il neoliberalismo, la sussunzione reale delle caratteristiche biologiche della specie umana. Già Marx parlava della lebendige Arbeitskraft, ma qui in questione è proprio la messa al lavoro della qualità – come scrive Paolo Virno – “specie-specifica” dell’umanità all’interno delle procedure di terziarizzazione delle produzioni e di precarizzazione del lavoro. Ciò che viene sussunto dal sistema produttivo sono le capacità linguistiche, cognitive e relazionali del vivente umano. Esempi concreti sono il lavoro degli analisti di simboli, così come le nuove forme di lavoro operaio cui si richiede costantemente la capacità di programmare e riadattare la programmazione dei terminali anche sulle catene di montaggio e per questo sono indispensabili le reti neurali e cognitive. Ma si pensi anche alla reperibilità immediata dei riders che deve conformarsi ad un modello di iper-connessione integrale alle reti digitali che organizzano il loro lavoro. È evidente che si è prodotta una transizione clamorosa in questo senso. Ad ogni modo, vorrei evitare un fraintendimento. Non si tratta di sostenere che il lavoro operaio sia finito, quanto piuttosto che si sia esaurita la centralità del lavoro operaio di fabbrica in Occidente. In termini tradizionali, tende a rendersi molto difficile il passaggio dalla classe in sé alla classe per sé. Moltitudine era il concetto con il quale si tentava di nominare questa complessità per provare a definire un concetto soggettivo di classe – elemento questo spesso non compreso, come dimostrano le accuse di trozkismo o anarchismo rivolte a noi e Negri. Le forme del lavoro sono cambiate, pertanto utilizzare un termine come quello tradizionale di classe non restituiva la complessità della composizione tecnica e politica delle molte espressioni del lavoro vivo contemporaneo, dal precario della ricerca al fattorino di Glovo, dall’occupante di case al migrante clandestino. Queste sono tutte figure che negli ultimi vent’anni hanno politicizzato la propria posizione, impattando gli specifici livelli di governance che li contrastano. È difficile, però, inventare un concetto collettivo che tenga insieme queste esperienze differenziate. Anche sul piano filosofico, un elemento estremamente complesso è quello di pensare i livelli di traducibilità di queste espressioni. Non a caso, nel dibattito della filosofia politica contemporanea una metafora molto presente è quella dell’assemblaggio, proprio perché una delle grandi potenze di risposta dell’organizzazione post-fordista del lavoro alla soggettività operaia classica è stata la disseminazione e la disgregazione delle figure del lavoro vivo. In assenza della grande concentrazione di fabbrica che una volta permetteva di organizzare lo sciopero mettendo in comunicazione tecnici e operai (fu questa la grande innovazione introdotta da Potere Operaio negli anni Sessanta), diventa difficile rinvenire dei meccanismi di soggettivazione politica della moltitudine. Ribadisco che si tratta di un problema anche filosofico, perché richiede di pensare la questione della convergenza e della traduzione. L’intersezionalità, in molti casi, rischia di restare uno slogan, perché suppone sempre un’universalità della lingua della traduzione che, invece, è proprio il problema. Un linguista esperto nel tema della traduzione come Naoki Sakai sottolinea la complessa necessità di pensare i meccanismi di traduzione etero-linguistica che fronteggino la tendenza alla traduzione omo-linguistica, che è quella del capitale. Se le lotte vengono realizzate sempre in traduzione omo-linguistica, sulla base, cioè di un soggetto universale e predefinito, allora risulta impossibile organizzare la molteplicità e l’eteronomia che codificano il molteplice puro delle figure del lavoro vivo.
Il concetto di governance globale sembra tematizzare la configurazione di un’epoca storica in cui il principio della sovranità statale è divenuto anacronistico. Come si spiegano, in questo contesto, il ritorno dei sovranismi registrato negli ultimi anni, il tendenziale spostamento a destra dello scenario politico internazionale e le allarmanti tensioni belliche che lo attraversano?
Sandro Chignola: Quando si fa riferimento alla transizione da sovranità a governance, la potenza del discorso di Negri, che non tutti hanno compreso, consiste nel mostrare che la sovranità statuale non viene integralmente eliminata. Gli Stati diventano, invece, punti di snodo di una più vasta realtà imperiale e possono essere utilizzati di volta in volta per ottenere risultati specifici. Questa è la cosa più importante che ho imparato sulla produzione giuridica globale contemporanea. Sandro Mezzadra e Brett Neilson, nei loro lavori, riflettono proprio sul modo in cui la globalizzazione va interpretata alla luce delle forme in cui essa hits the ground[6]. I flussi finanziari di capitale utilizzano gli Stati per territorializzarsi. Studiare il funzionamento dei processi di giuridificazione contemporanei permette di vedere, ad esempio, che le imprese transnazionali possono decidere in quale Paese affrontare le corti nel caso in cui abbiamo problemi di diritto civile o penale, possono scegliere entro quali regimi far valere la propria fiscalità, ecc. Gli Stati sono fondamentali per questa modularità, non solo come dighe da innalzare contro i migranti. Il punto fondamentale è che la razionalità complessiva di questi processi trascende il riferimento al singolo Stato, poiché si realizzano intrecci sovranazionali di flussi di valore che travalicano i confini della sovranità statuale. Dunque, non penso che la governance sia la forma monopolistica dell’esercizio del potere entro la quale si alloca e struttura la totalità dei processi politici contemporanei. Direi piuttosto che una parte dei poteri politici contemporanei abbia operato una governamentalizzazione, ovvero una rideterminazione in senso esecutivo e amministrativo, dei propri dispostivi di funzionamento. C’è una vasta letteratura sul tema delle autorità amministrative indipendenti e sui saperi tecnici che hanno sostituito la progettazione politica e l’organizzazione delle strutture di governo a livello internazionale. Nei miei lavori mi avvalgo del termine politologico di governance per rendere conto di queste trasformazioni, senza la pretesa che nella nostra epoca funzionino solo tali modelli di potere. Non penso nemmeno che il neoliberalismo sia, ormai, riducibile al significato che gli attribuiva Foucault riconducendolo alla figura di Friedrich von Hayek. Negli ultimi dieci anni, si è organizzato un neoliberalismo di destra attraverso il quale gestire e governare la grande crisi economica del 2008 in senso autoritario. Questo implicherebbe una seria analisi ulteriore. Per ora mi limito ad affermare che la potenza della lettura foucaultiana dei neoliberali della scuola di Chicago e dell’ordoliberalismo austriaco consiste nel fatto che Foucault ha ben compreso come la particella “neo-” sia fondamentale per segnalare la distinzione con le prospettive del liberalismo tradizionale. Il neoliberalismo, per Foucault, è tale perché sa che occorre governare. La grande novità è il passaggio dal liberalismo manchesteriano, che implica una formula astensiva per la quale bisogna tendenzialmente astenersi dall’intervento politico il più possibile, ad un liberalismo di tipo nuovo, che progetta le condizioni della governabilità dei processi, compresi quelli funzionali all’espansione delle sue logiche di valorizzazione. Dotarsi di questa decisionalità di governo significa poter agire su molteplici livelli. Tendo a pensare che, in questo contesto, gli Stati diventino spazi intermedi nei quali si territorializzano decisioni di governo sull’economia e i flussi di valore. Dal punto di vista geopolitico, queste strutture multilivello di governo non hanno un centro motore unilaterale. È proprio uno dei limiti dei discorsi classici sull’imperialismo come forma suprema del capitalismo, i quali prevedevano una formula unitaria delle relazioni internazionali. La multilateralità degli spazi della governance globale implica anche la potenziale conflittualità di questi stessi spazi. Ritengo che i regimi di guerra contemporanei, così come i regimi autoritari e quelle che vengono chiamate democrazie autoritarie o illiberali, siano effetti coerenti con la riarticolazione continua dei processi di governance, i quali possono infatti produrre clamorose rivalità infra-imperiali. La globalizzazione, dal mio modesto punto di vista, si sta definendo nel senso di una complessa logica conflittuale attraverso guerre per procura e guerre locali che possono sfociare in conflitti più estesi. Ci troviamo di fronte, direi, ad una globalizzazione multipolare, in cui l’egemonia non si assesta in maniera fissa e univoca. Quello che mi colpisce, sia a livello di pensiero sia a livello di pratica politica, è che fino al Novecento nelle relazioni internazionali si configuravano costantemente transizioni di egemonia piuttosto chiare (ad esempio: il diciannovesimo come secolo inglese, il ventesimo come secolo americano), mentre nel nuovo millennio non è chiaro se le transizioni egemoniche possano effettivamente realizzarsi o meno. Attualmente sembrerebbe di no, perché la particolare struttura dei processi di valorizzazione contemporanea impone di transitare da un ordine all’altro entro un regime di rivalità piuttosto marcata e radicale.
A partire dalla sua lettura di Foucault, lei sostiene che il potere si renda visibile laddove incontra una resistenza. Ad oggi, dove rinviene le principali pratiche di resistenza a livello europeo e che cosa ci dicono del funzionamento dei rapporti di potere sul continente?
Sandro Chignola: Il problema non è la resistenza in senso molare. Il rapporto di governance, o di governo in senso classico, è sempre costitutivamente resistito perché non è in grado di formalizzare la relazione riducendola ad unità. La potenza del meccanismo di rappresentanza politica al quale abbiamo fatto riferimento per definire la specificità della macchina concettuale della politica moderna risiede nella decisione del sovrano che si rende il mezzo del processo di unificazione del corpo politico e, soprattutto, della risoluzione formale del rapporto comando-obbedienza. Il problema della democrazia rappresentativa da Hobbes alla Rivoluzione Francese si situa esattamente a quest’altezza. Ciò che può essere inteso come governance, cioè la governamentalizzazione dei dispostivi di potere, è la frantumazione dell’unità politica, è l’uno che si è fatto due. L’incantamento teatrale del quale parlava Hobbes e sul quale si sono sorrette le organizzazioni dei poteri pubblici per secoli si è smagato. Oggi i processi di governo sono sempre e costitutivamente duali nella loro struttura, non tiene più l’identificazione rappresentativa del soggetto che esercita il comando con la volontà del soggetto che gli obbedisce. Il tema della resistenza non va inteso, quindi, come l’erezione coordinata di grandi opposizioni. Si tratta piuttosto di comprendere che di tanto in tanto i rapporti di governo – che possono scorrere lisci secondo la loro performatività, legata alle promesse che elaborano e ai risultati che affermano di ottenere – si ritrovano materialmente bloccati perché non riescono a compiere le proprie effettive procedure, a causa anche di resistenze microfisiche. Con questa espressione, Foucault indica la multilateralità dei meccanismi attraverso cui i processi di potere investono i corpi, i desideri, i bisogni, scompongono e riassemblano le soggettività. Ma c’è sempre una direttrice duplice, non c’è mai una pura verticalità, perché ogni forma di rapporto di potere implica l’affiorare di una resistenza. Una delle figure chiave, per noi di Euronomade, per ripensare l’internazionalismo all’altezza della fine dell’internazionalismo classico, ad esempio, è il movimento Ni una menos, che nel giro di un decennio ha prodotto soggettivazioni politiche transnazionali impressionanti. Ai tempi della Guerra del Golfo qualcosa di simile era accaduto con quelle prime organizzazioni di marce internazionali per la pace, che il New York Times definiva nei termini della nascita di un nuovo grande potere globale. Vi sono poi resistenze nel campo dell’ecologia, della crisi climatica e, successivamente, si danno tutte quelle resistenze microfisiche che si istituiscono lungo il coinvolgimento a più livelli nelle procedure della governance. Penso alle resistenze che si determinano a livello cittadino, comunale, dentro l’Università, o ancora con le occupazioni di case, con gli scioperi della logistica e del lavoro migrante. Il mio problema non è certo che non vi siano forme di resistenza e che dunque esse non rendano visibili gli inceppi della decisionalità politica, quanto piuttosto che queste pratiche di resistenza comunicano molto poco fra loro perché il soggetto moltitudinario non ha ancora trovato il dispositivo di traduzione adeguato a mantenere la specificità di ogni lotta insieme alla loro articolazione politica. Il fantasma dell’unità rappresentativa produce sul suo rovescio la difficoltà dell’unificazione. Hic Rhodus, hic salta. In fondo, il capitale è una grande macchina di traduzione, sussume tutto al codice del valore. Questa è la traduzione omo-linguistica. Il rapporto di capitale funziona finché riesce a sussumere ad un’unica lingua, che è quella della valorizzazione, qualsiasi processo sociale o naturale. Il capitale continua a riprodurre la sua interpellanza omo-linguistica, mentre il soggetto moltitudinario e frammentato è chiamato ad inventare qualcosa di differente dalla traduzione omo-linguistica, perché quella era la lingua della classe e dell’organizzazione operaia che ormai non ha più centralità. Nella misura in cui, come direbbe Agamben, la “segnatura” delle lotte degli ultimi vent’anni è stata la frammentazione delle loro agende specifiche, allora la questione è quella di definire dei processi capaci di tradurre questa molteplicità mantenendone la particolarità etero-linguistica. Questo, di nuovo, è ciò che sostiene Sakai e che trovo fondamentale. Occorre rinvenire una lingua che sia in grado di esprimere la Babilonia della moltitudine. Il neoliberalismo ha prodotto questa Babilonia, frammentando la composizione unitaria della classe rivoluzionaria. Assemblaggio, agency, agencement sono forme in cui molti, da Judith Butler a Toni Negri, tentano o hanno tentato di rispondere a questo problema. Rimane certo, ad ogni modo, che tale risoluzione non possa compiersi in termini macchinici, ma attraverso l’invenzione di dispostivi di traduzione e l’invenzione di concetti. Perciò, nel mio ultimo testo[7] ho iniziato ad assumere come orizzonte teoretico centrale l’ontologia politica. Il grande spettro che residua dentro l’idea classica di politica sono alcune categorie come soggetto e rivoluzione, che servono soltanto a rappresentare il discontinuo, l’inerte e il morto, come direbbe Bergson. Occorre pensare il contrario: il continuo, l’attivo e il vivente.
[1] Sandro Chignola, Fragile cristallo. Per la storia del concetto di società, Editoriale Scientifica, Napoli 2004.
[2] Il riferimento è nuovamente a Sandro Chignola, Fragile cristallo, op. cit.
[3] Si tratta della lezione del 1° febbraio 1978 del corso Sécurité, territoire et population tenuto da Foucault al Collège de France: Michel Foucault, La governamentalità, «aut-aut», 167-168 (1978), 28.
[4] Il 7 aprile 1979 è la data di inizio di una lunga e nota serie di procedimenti giudiziari contro diversi membri dell’Autonomia Operaia tra cui Toni Negri, che era uno dei principali protagonisti del movimento.
[5] «Studia Spinozana: An International and Interdisciplinary Series», n. I, 1985.
[6] Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Border as Method, or the Multiplication of Labor, Duke University Press 2013; The Politics of Operations. Excavating Contemporary Capitalism, Duke University Press 2019; The Rest and the West. Capital and Power in a Multipolar World, Verso Books 2024.
[7] Sandro Chignola, Diritto vivente. Ravaisson, Tarde, Hauriou, Quodlibet, Macerata 2020.