Recensione a: Enrico Borghi, Piccole Italie. Le aree interne e la questione territoriale, Roma, Donzelli editore, 2017, pp. 181, euro 26 (scheda libro)
Scritto da Alessandro Ambrosino
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Un leitmotiv dell’immagine dell’Italia all’estero è che essa, in qualche modo, sia la «culla della civiltà»[1]. Uno tra i territori più belli d’Europa, faro di cultura urbana, da amare e ammirare. Però, per quanto questo riguardo non può che essere motivo di vanto per i suoi abitanti, troppo spesso nasconde una sottesa idea della Penisola quale “terra classica”, da preservare come un diadema romano nella teca di un museo. Lo diceva anche Giacomo Leopardi, che nello Zibaldone così scriveva: «Quegli tra gli stranieri che più onorano l’Italia della loro stima, […] non considerano l’Italia presente, cioè noi italiani moderni e viventi, se non come tanti custodi di un museo e simili»[2].
È una cosa che ancora oggi molti economisti e politici tendono a fare, irrobustendo quella tradizione che vuole l’Italia fatta del Rinascimento a Firenze e/o della Roma antica a Roma. Un focus cittadino che ha letteralmente abbandonato tutto il resto. Pensare che la Penisola sia composta quasi solo da quelle 10-12 città “metropolitane” restituisce un’immagine parziale della complessità del Paese e rischia di portare all’impoverimento dell’intero sistema, con pochi poli di altissima specializzazione e, tutt’intorno, il deserto.
Enrico Borghi, deputato del Partito Democratico, presidente dell’UNCEM (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) nonché consigliere della Presidenza del Consiglio per l’attuazione della SNAI (Strategia Nazionale Aree Interne) e sindaco dell’ossolana Vogogna, questi rischi li conosce molto bene e li ha evidenziati nel libro Piccole Italie, scritto proprio a partire dalla sua esperienza di amministratore di montagna.
L’autore inizia ponendo una domanda: che cosa è rimasto del dibattito sul federalismo e l’autonomia dei territori dagli anni Sessanta ad oggi? Come è possibile che dopo le stagioni degli “schemi” di Vanoni, dopo i piani di intervento statale, dopo i tentativi federalisti, sfociati in un’elefantiaca mole di conflitti fra competenze statali e competenze regionali, e anche dopo l’ultimo tentativo di riassetto istituzionale del 4 dicembre 2016, miseramente fallito, ci si ritrovi a parlare di centralismo, o peggio di autonomie differenziate con il rischio di un centralismo regionale al Nord, in un eterno gioco dell’oca[3]? Nonostante quarant’anni di politiche territoriali gli indicatori sono impietosi: dal 1961 al 2010 è andato perso almeno il 50% della superficie di territorio produttivo, con punte dell’80% in alcune valli alpine e sull’Appennino[4]. Intere aree del Paese, soprattutto in montagna, si sono progressivamente spopolate causando un vero e proprio regresso sociale nel quale sono venuti meno i fondamentali diritti di cittadinanza (accesso a scuole, trasporti e sanità), con il risultato che ogni iniziativa è votata al fallimento. Un tracollo immane di cui sono protagonisti involontari la maggior parte dei piccoli comuni della Penisola, ovvero quei quasi 5600 comuni con meno di 5000 abitanti su circa 8000 comuni totali.
Il primo e grande merito del libro è quindi questo: parlare di un problema nazionale ma tenendo ben presente le diversità economiche, sociali, culturali e politiche di tutte queste “piccole Italie”. «Il tema – dice Borghi – non può avanzare senza considerare la complessità che l’Italia rappresenta»[5]. Complessità che non va ridotta, ma compresa e organizzata. In altre parole, le difficoltà delle aree rurali, interne e montane del Paese non sono un problema locale. La drammatica “secessione” di questi territori occupa più di metà della superficie nazionale. Ce lo spiega chiaramente Borghi: «Occorre sfatare un mito […] e cioè che occuparsi di territorio significa occuparsi di realtà locali. In realtà nelle aree rurali e montane italiane vivono ben 13 milioni di italiani. […] Una popolazione superiore a quelle di Grecia, Portogallo, Repubblica Ceca o Belgio»[6].
Si tratta dunque di una grande questione nazionale, che riguarda l’identità stessa del Paese e che spinge ad interrogarci sulla nostra libertà, intesa qui come diritto di scelta del territorio sul quale vivere e crescere. Le aree interne esistono e resistono, conservando quella dimensione positiva della comunità dove la cooperazione prevale sulla competizione.
Che fare dunque? Il secondo merito del libro è il suo approccio propositivo. Enrico Borghi non si limita ad una semplice disamina storico-critica della questione territoriale, ma ci fornisce appunti per un progetto. Il secondo, il terzo e il quarto capitolo, come ha scritto Giuseppe Dematteis, sono: «un buon saggio di geografia umana […] che in realtà è una geografia politica»[7].
Avvalendosi di una serie di mappe molto dettagliate, Enrico Borghi fotografa minuziosamente le fratture territoriali in atto, dal rapporto città-campagna al ruolo dell’agricoltura, passando per l’annoso problema della parcellizzazione comunale, per poi proporre riforme costruttive, che mettano ordine soprattutto nei livelli di governance intermedia[8].
Occorre, secondo Borghi, una ridefinizione completa del coordinamento tra governo centrale, regioni e comuni, che sistemi una situazione attuale assolutamente caotica. Questo riordino generale delle competenze deve però partire dall’esigenza di assicurare alle autonomie locali una capacità di esplicitarsi liberamente. Con istituzioni di tal fatta, finalmente fuori dalla logica space blind (cieche ai luoghi), allora si riafferma un principio di fondo: l’affermazione del valore e delle realtà territoriali italiane, con tutte le loro peculiarità, nel rinnovamento dell’ordine democratico[9].
Nuovamente, Borghi richiama la positività dei territori, che diventano spinta propulsiva per il Paese quando si inseriscono nella preziosa sperimentazione della SNAI, la Strategia Nazionale per le Aree Interne[10], pensata proprio per rispondere localmente alle grandi sfide globali. Segue un capitolo di respiro più ampio, in cui Borghi descrive come altri Stati europei hanno affrontato la questione della marginalizzazione dei luoghi. Riforme organiche sono state fatte in Francia, Germania, Austria, Spagna e Svizzera, con risultati più o meno efficaci. Ad esempio in Francia il sistema delle communautés, sorta di associazioni di comuni, ha integrato un’idea politica di sviluppo territoriale con una gestione dei servizi molto efficiente. Paradossalmente, sostiene Borghi, uno Stato dall’impianto altamente centralista e meno rispettoso dell’autonomia dell’Italia, si è mostrato più lineare ed efficace[11].
Al contrario, la distanza tra la percezione reale del problema e il dibattito a livello centrale in Italia resta siderale. Senza fare sconti, Borghi sintetizza: «parlare di riforma delle Poste a Roma significa discutere di alta finanza, parlarne nei territori significa dire alla gente se domani avranno ancora il servizio del postino o meno»[12]. Questioni complesse, che richiedono «mani da chirurgo»[13] pazienza e alta formazione politica.
Terzo merito del libro è un tentativo di risposta che non sia solo tecnica. L’ultimo capitolo è dedicato infatti ad una proposta “partitica” per la politica dei territori. Chiaramente Borghi pensa ad una politica “di sinistra” e si concentra principalmente su cosa può fare il suo partito, il PD. Tuttavia qui, come dice Dematteis: «egli dimostra di credere nella politica, e questo gli fa onore, ma molti lettori faticano a seguirlo»[14].
Purtroppo, rileggendo il libro a distanza di più di due anni dalla pubblicazione, l’ottimismo dell’autore riguardo il “fallimento” del progetto territoriale della Lega, abbandonato per rincorrere un modello nazionalista, si è dimostrato privo di fondamento. Per le stesse ragioni, le riflessioni su un PD: «partito delle comunità […] da Formazza a Capo Passero»[15], capace di ricevere le energie che arrivano dalle aree interne e rielaborarle in una politica generale per l’intera nazione appaiono poco realistiche. Attenzione: non si vuole mettere in discussione la necessità di un programma come quello proposto da Borghi, anzi, i valori di solidarietà, equità e cooperazione non possono essere discussi e devono restare patrimonio della sinistra.
Tuttavia, alla luce dell’ultimo rapporto Oxfam, nei 10 anni che ci separano dalla crisi il numero dei miliardari è raddoppiato, mentre la “ricchezza” della metà più povera della popolazione è scesa dell’11%[16] allargando sempre di più la forbice della disuguaglianza globale. Contro quell’1% di “paperoni” che possiede metà della ricchezza globale, servendosi di organismi quali la Banca Mondiale, l’FMI o le agenzie di rating, lo Stato ha perso capacità decisionale, essendo stato limitato dall’approvazione di tanti tecnicismi che riducono la sua capacità a vantaggio del mercato[17].
Riguardo questi temi, la politica non è stata neutra in questi anni. E se è eccessivo additarle tutte le colpe dello status quo, sarebbe ipocrita sostenere che non vi abbia nulla a che fare. È certamente necessario, come dice Borghi: «ripartire dal territorio […] recuperando uno spazio di partecipazione e di dimensione collettiva a contatto con le istituzioni più vicine»[18] ma, forse, un po’ più di realismo permetterebbe di battersi più efficacemente contro queste minacce.
In conclusione: se «tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco», come ricorda Ermete Realacci nell’introduzione citando Gustav Mahler, allora tutta la politica deve riflettere sulla cultura delle periferie e sulle sue peculiarità, senza paura di ripartire da una dimensione locale. Solo così le “piccole Italie” potranno salvare la “grande Italia”.
[1] Pochi giorni fa, nella plenaria di febbraio 2019 del Parlamento Europeo di Strasburgo Guy Verhofstadt, leader del gruppo ALDE, ha cominciato il suo intervento sottolineando proprio questo aspetto.
[2] G. Leopardi, Zibaldone, Le Monnier, Firenze, 1921.
[3] Il corsivo è mio poiché l’autore, avendo pubblicato Piccole Italie nel 2017, non avrebbe mai potuto descrivere le più recenti trasformazioni occorse sul tema dell’autonomia di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.
[4] E. Borghi, Piccole Italie, Roma, Donzelli, 2017, pp. 52 e segg.
[5] E. Borghi, Piccole Italie, Roma, Donzelli, 2017, p. 62
[6] Ibidem, p. 64.
[7] G. Dematteis, Le aree interne, in “Dislivelli”, 5 settembre 2017. URL: http://www.dislivelli.eu/blog/le-aree-interne.html
[8] Con una riuscitissima metafora: «la trasformazione dell’antico bruco provinciale nella farfalla dell’ente di area vasta», E. Borghi, Piccole Italie, cit., p.5.
[9] Ibid. p. 62.
[10] Si veda, su questo tema un recente articolo di Pandora Rivista: https://www.pandorarivista.it/articoli/divario-centro-periferia-aree-interne/.
[11] Ibid. pp. 110-111.
[12] S. Rizzi, Puntare sui piccoli Comuni per fare il Piemonte, in: «Lo Spiffero», 28 maggio 2017. URL: http://www.lospiffero.com/ls_article.php?id=33681
[13] Ibid. p. 78.
[14] G. Dematteis, Le aree interne, cit. URL: http://www.dislivelli.eu/blog/le-aree-interne.html
[15] E. Borghi, Piccole Italie, cit., p. 169.
[16] M. Chiara Turchi, Mind the gap: il rapporto Oxfam 2019 contro la disuguaglianza, in «Pandora Rivista», 20 febbraio 2019.
[17] G. Dematteis, Le aree interne, cit. URL: http://www.dislivelli.eu/blog/le-aree-interne.html
[18] E. Borghi, Piccole Italie, cit., pp. 170-171.