Scritto da Lorenzo Cattani
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L’economia italiana langue ormai da vent’anni. Come ha saputo sintetizzare brillantemente Giuseppe Berta, la grande impresa attraversa una crisi gravissima mentre le piccole e le medie imprese mostrano una buona performance, soprattutto le seconde, ma soffrono di un deficit di imprenditorialità non indifferente[1]. Il rapporto ISTAT del 2017 ha confermato quest’analisi, mostrando che le PMI, soprattutto grazie alle medie imprese, accettano la sfida del cambiamento tecnologico, anche se faticano a produrre strategie imprenditoriali che permettano di generare valore aggiunto. Le grandi imprese, al contrario, registrano valori negativi sul cambiamento tecnologico ma si dimostrano capaci di generare valore aggiunto tramite strategie imprenditoriali di qualità. La differenza principale è che, nel caso delle PMI, le difficoltà nel generare valore aggiunto sono più che compensate dal cambiamento tecnologico, mentre per le grandi imprese il dato fortemente negativo sul cambiamento tecnologico non viene interamente compensato dai buoni livelli di valore aggiunto generato tramite strategie imprenditoriali.
Questi dati forniscono una solida base per formulare qualche considerazione, non solo verso quale modello di sviluppo puntare in Italia, ma anche su quali politiche investire per far sì che tale modello possa trovare la strada dell’efficienza. Occorrerebbe un piano ‘multilivello’ per gli investimenti pubblici, che li inserisca però in un mix bilanciato di politiche industriali e sociali ad ampio respiro, che rispondano ad una precisa visione strategica dell’Italia e delle sue interazioni con l’Europa. L’idea è che un simile insieme possa garantire una crescita trainata dall’innovazione e non dai bassi salari, una crescita, cioè, che possa essere inclusiva e ridurre le disuguaglianze.
Politiche per l’innovazione: Stato produttore e grande impresa
La grande impresa è in forte crisi, ma puntare unicamente sulle PMI non sarebbe una scelta oculata: affinché il sistema non ristagni è cruciale che le piccole imprese di successo crescano fino a diventare medie imprese e, analogamente, le medie imprese di successo diventino grandi o vengano assorbite da una di queste già esistente[2]. È proprio su questo campo che la teoria si scontra con la realtà italiana: da un lato il capitalismo privato è poco vivace e manca di intraprendenza, dall’altro la grande impresa sembrerebbe essere finita con l’industria pubblica. Fu proprio questa a supplire ad alcune delle strutturali carenze del nostro capitalismo, stimolando l’innovazione in molti settori, pur con limiti importanti che si manifestarono sopratutto a partire dagli anni Settanta. Eppure oggi il ruolo dello Stato nel promuovere l’innovazione viene rivalutato. Negli Stati Uniti, imprenditori come Steve Jobs o Bill Gates non avrebbero avuto molto successo senza l’aiuto degli investimenti pubblici dello Stato[3], ma in Italia i soli investimenti pubblici sarebbero insufficienti, se non fossero accompagnati da una vera politica industriale. Un possibile piano multilivello per l’implementazione di una politica industriale dovrebbe avere come obiettivo lo stimolo di un regime di produzione ‘ibrido’, che veda lo Stato direttamente coinvolto nella produzione stessa.
Una via possibile potrebbe essere quella di riunire gli asset di Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) in un unico gruppo, che potrebbe fungere da apripista e muoversi sulla frontiera della tecnologia. A differenza dell’IRI, che era nato con lo scopo di salvare e risanare imprese in dissesto, questo nuovo soggetto dovrebbe porsi come unico obiettivo quello di produrre beni in settori innovativi, la cui incertezza disincentiva i privati dal compiere un simile investimento. L’obiettivo più importante è quello di creare delle rilevanti sinergie fra pubblico e privato, cercando di dare vita a quello che Mariana Mazzucato ha definito «ecosistema simbiotico». A tale proposito potrebbe essere utile creare un organismo pubblico, ispirato al «modello Darpa» degli Stati Uniti[4], che orienti l’attività di ricerca. Un possibile campo su cui investire molte risorse potrebbe essere quello delle nuove tecnologie della “quarta rivoluzione industriale”, a cui fa riferimento il piano nazionale Industria 4.0. Un simile ente dovrebbe erogare finanziamenti a ricercatori universitari, start-up, aziende consolidate e consorzi industriali, supervisionando i progressi dei gruppi di ricerca e fornendo contemporaneamente assistenza alla commercializzazione dei nuovi beni prodotti, tramite per esempio l’utilizzo delle commesse pubbliche.
A questa attività di un’ipotetica Darpa italiana dovrebbe affiancarsi la creazione di grandi laboratori di ricerca aziendali: se il «modello Darpa» non prevede distinzioni fra ricerca di base e ricerca applicata circa i progetti da finanziare, i laboratori aziendali dovrebbero specializzarsi sulla seconda tipologia di ricerca. Al riguardo la strutturazione delle partecipate statali potrebbe anche fornire interessanti spunti per effetti spillover verso i privati: i laboratori di ricerca aziendali potrebbero infatti dare luogo ad importanti sinergie pubblico-privato. Supponendo che i privati abbiano meno incentivi ad investire su laboratori di ricerca e sviluppo (R&S), l’iniziale partecipazione degli stessi alle attività dei laboratori pubblici potrebbe fornire gli stimoli adatti per estendere queste istituzioni anche al settore privato. Questi spillover possono verificarsi ponendo determinate condizioni alla partecipazione dei privati alla R&S. Una di queste potrebbe essere il vincolo della partecipazione dei privati alla creazione di aziende spinoff nuove, cui quindi conseguirebbe una sorta di turnover nella componente privata delle partecipate. Un’altra soluzione sarebbe quella di includere all’interno dei laboratori aziende private già esistenti, che non fanno parte di nessuna partecipata statale, a condizione che però si impegnino ad aprire dei propri laboratori aziendali di R&S dopo un certo tempo.
In entrambi i casi, una linea di finanziamento ulteriore potrebbe essere ottenuta anche tramite la Banca europea per gli investimenti (BEI). In questo contesto potrebbe essere utile sostenere la nascita di consorzi di ricerca fra più aziende private, che aiuterebbe non solo ad abbassare costi di R&S, ma anche ad evitare ridondanze fra più progetti di ricerca[5]. In tutto ciò la supervisione pubblica e l’affiancamento di funzionari esperti che lavorino a stretto contatto con le aziende restano un pilastro fondamentale della politica industriale. Non è nemmeno da escludere l’impiego di strumenti sussidiari come crediti d’imposta o bonus per i primi anni di vita delle imprese giovani, creando però enti che facilitino le stesse a fare domanda per accedere a tali strumenti[6].
Simili iniziative dovrebbero dare un contributo importante per restituire dinamismo al sistema produttivo italiano, investendo maggiormente sull’innovazione e cercando di costruire rapporti virtuosi fra pubblico e privato. In conclusione, questa è una strategia che dovrebbe riportare le PMI a diventare grandi imprese o ad essere acquisite da altre grandi imprese. Non bisogna scordare che infatti le grandi aziende hanno basi più solide per fare scelte coraggiose, in virtù di migliori capacità di gestire i costi di R&S e del maggior capitale reputazionale di cui possono disporre.
Discorso a parte è invece quello che riguarda i ritorni, diretti e indiretti, che lo Stato dovrebbe ottenere: sarebbe infatti consigliabile che lo Stato incassasse delle royalties per tutti quei beni che le aziende private hanno prodotto sfruttando innovazioni nate da laboratori pubblici o universitari. Magari, per rispettare l’incertezza che caratterizza i primi anni di vita di imprese che compiono scelte innovative, sarebbe consigliabile fissare il pagamento delle royalties ad una «clausola di attivazione» legata al fatturato lordo. Infine, bisognerebbe vincolare il pagamento delle tasse al paese in cui le aziende producono più valore e innovazione, quindi quello in cui risiedono i laboratori di R&S[7].
Questa è un’ipotetica strategia dal lato della politica industriale, che dovrebbe stimolare la crescita trainata dall’innovazione. Cosa fare invece per quanto riguarda l’inclusione e la distribuzione dei profitti dell’innovazione all’interno delle aziende? In poche parole, cosa bisogna fare affinché la crescita sia accompagnata da una riduzione delle disuguaglianza? Al riguardo sarà cruciale un set di politiche sociali che guardi molto alla struttura delle relazioni industriali.
Politiche per l’inclusività della crescita
È importante specificare che ottenere una distribuzione equa della crescita non è un’opera di beneficienza, non si tratta di concedere paternalisticamente benefici ai lavoratori, ma si tratta invece di irrobustire il tessuto produttivo. In un’economia in cui la distribuzione della crescita è fortemente diseguale vi è il rischio che aziende, le quali effettivamente innovano e hanno successo, operino in un sistema fragile, con possibili conseguenze nefaste sulle capacità dello Stato di finanziare il successivo ciclo di innovazione. È anche importante capire che quando si parla di distribuzione della crescita non ci si possa più limitare nel proprio raggio d’azione alla semplice riduzione della povertà in tutte le sue forme. Combattere la povertà e l’esclusione sociale può essere fatto solo se si lavora sui redditi più alti, poiché queste sono più forti in società dove molte quote di ricchezza sono concentrate nella parte della popolazione ad alta distribuzione[8].
Come raggiungere un simile obiettivo? Probabilmente la soluzione migliore è puntare su politiche volte a migliorare la struttura delle relazioni industriali, bilanciate da una serie di politiche sociali, volte a scongiurare una crescita trainata da bassi salari. Questo mix di politiche avrebbe il fine di aumentare la produttività e la diffusione delle conoscenze, i principali motori di riduzione delle disuguaglianze[9].
Innanzitutto è fondamentale discutere la possibilità di una tassazione del capitale a livello federale. La tassa mondiale sul capitale discussa da Piketty è infatti un punto di arrivo. Per poter giungere ad un’attuazione completa è cruciale partire dal livello locale/continentale, come suggerito dallo stesso Autore, e da questo punto di vista l’Unione europea rappresenta un ottimo punto di partenza[10].
Tuttavia, la tassazione è uno strumento necessario ma non sufficiente, poiché da sola si limita ad impedire la formazione di un gruppo di rentiers. Sta invece alla politica e alle istituzioni incanalare le risorse drenate dalla leva fiscale per mettere in atto politiche efficaci. In questo senso, a livello europeo potrebbe essere utile approvare una legge sul salario minimo europeo e sul reddito minimo garantito. In questo modo si fornirebbero incentivi per investire sulle competenze della forza lavoro, disincentivando strategie di flessibilità esterna o interna volte al solo contenimento del costo del lavoro (tramite il salario minimo). Allo stesso tempo, verrebbero date garanzie ai lavoratori qualora persistesse l’utilizzo di forme contrattuali atipiche come i contratti a tempo determinato (tramite il reddito minimo garantito[11]). Queste due proposte vanno quindi viste come strumentali per una politica che offra protezione agli individui, puntando fortemente sulle competenze della forza lavoro. La formazione dove così essere gestita a livello nazionale, poiché rappresenta un passaggio fondamentale, che si intreccia con le diverse specificità nazionali che caratterizzano i diversi regimi di produzione[12].
In tutto ciò emerge prepotentemente il problema delle competenze. Un aspetto importante del capitalismo italiano è sempre stato quello dell’investimento specifico, ovvero la necessità da parte dei lavoratori di acquisire competenze che potevano essere ottenute solo all’interno di una data azienda. È quindi fondamentale puntare su una formazione continua (CVT[13]) delle competenze in tutti i settori[14]. Si potrebbero istituire, all’interno della contrattazione collettiva, degli incontri che mirino a discutere i principali cambiamenti tecnologici e come le imprese possano formare i lavoratori in modo che questi abbiano già un livello di competenze adeguato quando i cambiamenti tecnologici verranno effettivamente implementati. Tenendo presente le caratteristiche del capitalismo italiano, appare chiaro come questo richieda un ruolo importante della politica, quale mediatrice fra le parti sociali, e come renda le aziende pubbliche fondamentali per il successo di un simile piano. Così facendo, la forza lavoro dovrebbe essere quindi in grado di saper ‘ricevere’ il cambiamento tecnologico in maniera più efficace. Per le piccole e medie imprese sarebbe invece preferibile puntare su programmi CVT mirati a introdurre una strategia di ‘flessibilità funzionale’, in cui i lavoratori siano in grado di svolgere più funzioni a seconda delle esigenze produttive dell’azienda. In questo modo, con una forza lavoro maggiormente preparata e specializzata, non solo si farebbero passi avanti sulla produttività ma anche sui salari. Un ulteriore passaggio potrebbe essere quello di garantire maggiore trasparenza, a livello europeo, sulla presenza di quelli che Piketty chiama «superdirigenti», provando allo stesso tempo a persuadere le aziende, anche con strumenti fiscali, a non avere al loro interno dirigenti con stipendi eccessivi.
Questo discorso sulle competenze mette in luce quale sia la nuova dimensione della disoccupazione: essere disoccupati non vuol più dire non lavorare ma vuol anche dire non imparare cose nuove, qualcosa che non può essere risolto con un sussidio o con politiche di attivazione work first mirate a far trovare lavoro velocemente, a prescindere dal tipo di lavoro e, soprattutto, della sua qualità. L’accumulazione delle conoscenze dovrà continuare anche se non si lavora e sarà una sfida che solo lo Stato, insieme alla creazione dei sopracitati legami virtuosi fra pubblico e privato, potrà affrontare[15].
Ultima questione è quella della riconciliazione vita-lavoro, un problema che grava maggiormente sulle spalle dei più svantaggiati, come mostrato dal rapporto ISTAT 2017. Sarà quindi importantissimo puntare su una rete locale di asili nido pubblici, pre-scuola e post-scuola (da estendere almeno fino alle scuole elementari)[16], per corrispondere anche a quelle attività solitamente ancora oggi appannaggio del genere femminile, bisogni che in questo articolo non sono stati trattati per necessità di sintesi. Queste politiche potrebbero riportare l’Italia su un sentiero di crescita intelligente e inclusiva, il nodo da sciogliere sarà la costruzione di un consenso che ad ora manca sia in Italia che in Europa.
[1] G. Berta, Che fine ha fatto il capitalismo italiano?, Il Mulino, Bologna 2016.
[2] P. Ciocca, L’IRI nell’economia italiana, Laterza, Roma-Bari 2015.
[3] M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Roma-Bari 2015.
[4] Ivi, p. 111.
[5] Ivi, p. 140.
[6] Le anticipazioni del rapporto Svimez 2017 hanno infatti mostrato come, ad esempio, le imprese del Mezzogiorno fatichino maggiormente ad accedere ai crediti d’imposta previsti dal piano Industria 4.0
[7] Si ritiene che la scelta di delocalizzare i laboratori di R&S in un Paese dove le tasse sono inferiori non sarebbe razionale, in quanto tale spostamento si tradurrebbe anche in un calo vistoso nella qualità dei beni prodotti.
[8] A. Atkinson, Disuguaglianza: che cosa si può fare?, Raffaello Cortina, 2015.
[9] T. Piketty, Il Capitale nel XXI Secolo, Bompiani, 2014.
[10] Piketty propone una tassazione dello 0% per tutti i patrimoni inferiori al milione di euro. Per i patrimoni tra 1 e 5 milioni di euro propone una tassazione del 1% e una del 2% per i patrimoni superiori a 5 milioni di euro. L’autore propone anche una tassazione maggiormente progressiva, pari al 5% o anche al 10%, per i patrimoni superiori al miliardo di euro.
[11] Che andrebbe calcolato tenendo conto anche dei patrimoni e non solo del reddito maturato dal proprio lavoro.
[12] Cfr. P. Hall, D. Soskice, Introduction, in Peter Hall e David Soskice (a cura di), Varieties of Capitalism: The Institutional Foundations of Comparative Advantage, Oxford University Press, 2001, pp 1-68.
[13] Sono i cosiddetti programmi di continued vocational training, ovvero programmi di formazione per adulti.
[14] K. Thelen, Varieties of Liberalization and the New Politics of Social Solidarity, New York: Cambridge University Press, 2014.
[15] Si potrebbe pensare alla fornitura di un sussidio condizionata alla frequenza di determinati programmi.
[16] M. Ferrera, Rotta di collisione: euro contro welfare?, Laterza, Roma-Bari 2016.