“La rivoluzione americana” di Tiziano Bonazzi
- 17 Aprile 2019

“La rivoluzione americana” di Tiziano Bonazzi

Recensione a: Tiziano Bonazzi, La rivoluzione americana, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 200, 14 euro (scheda libro)

Scritto da Paolo Cappelletto

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«Noi, popolo degli Stati Uniti, allo scopo di realizzare una più perfetta Unione, stabilire la giustizia, garantire la tranquillità interna, provvedere per la difesa comune, promuovere il benessere generale ed assicurare le benedizioni della libertà a noi stessi ed alla nostra posterità, ordiniamo e stabiliamo questa Costituzione per gli Stati Uniti d’America»[1]. Recita così il celeberrimo preambolo alla carta costituzionale elaborata dalla Convenzione di Filadelfia nel 1787, che ha segnato la fine della parabola rivoluzionaria iniziata quasi due decenni prima e che ha avuto il suo culmine nel 1776, anno in cui le colonie firmarono e approvarono la Dichiarazione di Indipendenza scritta da Thomas Jefferson.

Qual è oggi il senso di studiare nuovamente quella serie di eventi chiamati “rivoluzione americana”? Tiziano Bonazzi, professore emerito all’Università di Bologna, ritiene che, per via della proliferazione storiografica sul tema, sia necessario fare chiarezza su cosa sia stata veramente la rivoluzione americana. Le letture ideologiche che vedono nell’America un caso unico e inimitabile (il cosiddetto “eccezionalismo americano”) abbisognano di una revisione e di un lavoro di “demitizzazione”: rileggere quegli eventi porta a considerare la rivoluzione come “il momento fondante non di una nazione unica nel suo procedere verso la libertà, bensì di una nazione fra le nazioni, irripetibile come ogni nazione, ma legata in un rapporto sistematico con la storia europea e con quella dell’intero bacino atlantico”[2]. Bonazzi ritiene dunque necessario de-ideologizzare la storia della rivoluzione, abbandonando lo storicismo progressista che vedeva nell’avvento degli Stati Uniti la realizzazione di un disegno teleologico di realizzazione della libertà. Nel compiere questa operazione, l’autore rilegge molti degli elementi che hanno caratterizzato la rivoluzione, a cominciare dalla percezione che i coloni avevano di sé stessi per concludere col dibattito intorno alla forma costituzionale.

È infatti necessario partire dall’inizio della storia del popolo inglese nel Nuovo Mondo, cioè dalla fondazione della città di Jamestown in Virginia nel 1607 e dall’arrivo dei primi Pilgrims a Cape Cod (Massachussets) nel 1620. Si parla infatti di popolo inglese in quanto “i protagonisti dei due episodi non si ritenevano certo americani, né pensavano di ritrovarsi un domani fra i Penati degli Stati Uniti”[3]. Bonazzi rivisita dunque la colonizzazione sottolineando due aspetti. Da un lato, le nuove colonie condividevano con tutte le altre l’obbedienza al monarca britannico e il sistema di common law; dall’altro, le neonate economie godevano di un costante flusso di immigrati e di gruppi religiosi settari (battisti, ma anche amish tedeschi). Le colonie divennero dunque meta di “persone perseguitate, marginali o potenzialmente tali che approfittarono del fatto che la colonizzazione ampliò la società inglese allentandone i vincoli”, immergendosi dunque in “un’Inghilterra più vasta”[4]. Non c’è dunque alcun dubbio, per Bonazzi, sul fatto che la coscienza dei coloni fosse prettamente inglese.

È proprio in virtù del sentirsi cittadini britannici, con tutti i diritti che ne conseguivano, che un secolo dopo i coloni si opposero all’emanazione da parte del parlamento di Londra dello Stamp Act, l’imposta di bollo volta a finanziare le truppe inglesi presenti in nord America. Nel ‘700 i coloni si erano uniti in assemblee coloniali, con il fine non di “partecipare direttamente o indirettamente al governo, bensì di difendere le proprie «libertà» di sudditi britannici”[5]. Vi era dunque la volontà delle colonie di rendersi addirittura più british di quanto già non fossero, per diventare interlocutori sempre più paritari rispetto ai propri concittadini oltreoceano. Essere sudditi della Corona implicava il riconoscimento di determinati diritti, tra cui la tolleranza religiosa e le procedure del common law, oltre al concetto del “no taxation without representation”. Fu proprio il principio dell’essere tassati da propri rappresentati che portò nove delle tredici colonie a riunirsi collegialmente per la prima volta con uno scopo politico, ossia denunciare l’ingiustizia dello Stamp Act, che verrà poi abrogato in seguito a forti proteste nelle colonie. Lo stesso avverrà coi Coercive Acts emanati dal parlamento britannico nel 1774 con il fine di punire i bostoniani che, stanchi di pagare le tariffe della compagnia imperiale, gettarono in mare i carichi di tè su cui pesavano gli ingenti dazi. Le autorità britanniche imposero la chiusura del porto di Boston ed esautorarono l’Assemblea del Massachussets, nominando governatore il generale Thomas Gage. Fu il punto di non ritorno, che diede inizio alla parabola rivoluzionaria che cominciò con il rifiuto dei coloni di obbedire ai britannici, con la creazione di comitati e il voto di mozioni anti-inglesi. Questa ribellione spinse il sovrano a dichiarare nell’agosto 1775 tutte le colonie in stato di ribellione, ordinando alle proprie truppe di sopprimere le proteste. Si entrava dunque nel pieno della Rivoluzione.

Dalla rivoluzione alla Costituzione

Nel 1776 i coloni si trovarono dunque davanti a un bivio, “o sottomettersi all’interpretazione costituzionale e alla volontà politica di Londra o muovere verso l’indipendenza che avrebbe permesso di mobilitare il paese e cercare aiuti all’estero”[6]. Erano dunque divisi tra whig, favorevoli all’indipendenza e tory, i lealisti a favore della Gran Bretagna. A prevalere furono i primi: il 4 luglio 1776 il Congresso approvò la Dichiarazione d’Indipendenza, con cui si dichiaravano illegittime le azioni del Re e si sanciva l’indipendenza delle colonie. La ratio del testo non era illuministica, bensì medievale: si giustificava la ribellione sostenendo che “il re era venuto meno ai suoi doveri di difesa del popolo rompendo così il patto di protezione e obbedienza su cui, secondo la tradizione giuridica feudale, si fondava l’obbligazione politica, cioè l’obbligo di obbedire”[7].

Uno degli aspetti più interessanti del testo è l’attenzione che l’autore dedica alle tradizioni culturali che hanno mosso e guidato la rivoluzione americana. La costruzione della nuova nazione dipende nella visione dell’autore in particolar modo da specifici elementi filosofici e religiosi, tra cui l’illuminismo e una certa forma di protestantesimo, che insieme ebbero una grande influenza sulla società coloniale e sugli scritti della Rivoluzione e sulla Costituzione. Da essi nacque un “individualismo a base etica e religiosa, ma non confessionale, che si completava nel porre la propria individualità al servizio del bene comune”[8]. L’illuminismo scozzese – secondo cui ciascun uomo deve equilibrare le proprie facoltà innate verso il bene – e il fenomeno del revivalismo metodista (il Great awakening) – movimento di riforma dell’anglicanesimo volto a privilegiare l’attenzione ai poveri e la religiosità individuale rispetto al potere di chiese e congregazioni –  crearono nella società coloniale un “movimento intercoloniale e interdenominazionale che univa nella diversità i cristiani”, oltre a indirizzare la vita delle colonie “verso l’umanitarismo, la benevolenza, l’equilibrio”[9]. È questo dunque lo sfondo teorico che per Bonazzi riuniva i coloni in una visione comune del mondo.

Grande attenzione si riserva poi all’analisi dei vari documenti della Rivoluzione, come la già citata Dichiarazione d’Indipendenza, ma anche le Cato’s Letters del 1720-1723 e il pamphlet Common Sense di Thomas Paine, databile al 10 gennaio 1776. Questi due testi avevano reso popolare un pensiero repubblicano che auspicava uno spirito civico della popolazione per impedire la deriva tirannica dei governanti e proponeva la legge come sola sovrana di un governo libero, considerato, in una prospettiva antropologicamente pessimistica, come un male necessario per frenare le pulsioni malvagie degli uomini. Questi elementi vengono recepiti anche da Thomas Jefferson, la cui Dichiarazione d’Indipendenza rappresenta per Bonazzi “il documento che ha dato il via alla modernità politica in cui viviamo”[10]. È una tesi difficilmente contestabile, in quanto vengono messi nero su bianco i dettami del contrattualismo lockiano, ossia la proclamazione delle “verità di per sé evidenti” di uguaglianza, dei diritti naturali delle persone, oltre che l’impostazione contrattualista dello stato, per cui il popolo, che diventa sovrano, si unisce nel riconoscere dei propri rappresentanti scelti tramite elezione. L’impostazione basata su dei diritti derivanti da Dio per tutti gli uomini ha un sapore alquanto universalistico, tanto che Bonazzi vi riconosce un’aporia. Si è infatti di fronte a un “popolo che si proclama universale nel momento in cui si presenta come un popolo storicamente determinato e distinto dagli altri”, un conflitto dunque tra un’esaltazione nazionalistica che vede negli Stati Uniti un “nuovo Israele”, da un lato e il preteso universalismo dei diritti naturali, dall’altro[11].

L’autore si concentra poi nel descrivere il processo istituzionale che portò alla Costituzione tutt’ora in vigore. Si può considerare questa la terza parte del volume, dove si espone il processo costituente che ha al proprio centro soprattutto la questione del federalismo. La guerra d’indipendenza si concluse nel 1783, due anni dopo la ratifica da parte di tutti gli stati degli Articles of Confederation and Perpetual Union, il testo che rendeva gli Stati Uniti una confederazione priva di un legislativo, esecutivo e giudiziario comuni, dove la quasi totalità dei poteri era lasciata ai singoli stati. Tale frammentazione comportò una frattura sia socioeconomica e politica tra i diversi stati sia in politica estera. Per rispondere a queste criticità, nel 1787 si riunì la Convenzione di Filadelfia, che vide ben presto un consenso “su alcuni principi del tutto assenti negli Articoli quali il bicameralismo e la divisione dei poteri fra legislativo, esecutivo e giudiziario”[12]. Tuttavia, molte altre questioni dividevano i delegati, in primis la schiavitù, la rappresentatività degli stati più piccoli e la divisione dei poteri tra stati e governo federale. L’autore esplora in modo analitico queste questioni, mostrando come la formula costituzionale adottata si sia fondata su un federalismo che permise “di costituire un luogo di sovranità indivisa, esterna e superiore agli stati, nazionale appunto”, affidando importanti competenze al governo federale, come politica estera, finanze e commercio estero in particolare[13]. È sicuramente apprezzabile del volume di Bonazzi l’attenzione dedicata a un altro testo, il Federalist, ossia l’insieme di 85 articoli apparsi su diversi giornali per convincere i rappresentanti dello stato di New York a ratificare la Costituzione. Questioni come il sistema elettorale, il modo in cui evitare il sorgere di fazioni, il pluralismo etico-religioso sono solo alcuni dei temi trattati dagli autori dei Federalist Papers, a cui si contrapponevano gli “antifederalisti”, preoccupati sia per il troppo potere dato al governo federale a scapito degli stati sia per la possibile sopravvivenza di una repubblica dell’estensione territoriale degli Stati Uniti.

La rivoluzione americana come inizio della modernità

La storia degli eventi, l’analisi del contesto intellettuale (politico, filosofico e religioso) e l’attenzione ai testi sono i tre capisaldi attorno a cui il volume di Bonazzi ruota. Queste tre istanze ben si integrano nel tentativo dell’autore di rileggere quello che, a ragione, ritiene l’atto di nascita della modernità politica, sfatando molti miti riassumibili perlopiù nell’interpretazione dell’eccezionalismo americano, che legge negli eventi di quei decenni un unicum della storia dell’umanità, dai risvolti quasi profetici di un’America come nuova Gerusalemme. È necessario invece calare quei passaggi in determinati momenti storici coi loro contesti politici, sociali ed economici particolari.

Non va inoltre dimenticato quello che il testo sottolinea in più occasioni, ossia l’enorme debito che i padri fondatori ebbero con l’Europa, nei termini delle teorie politiche e filosofiche sottese ai testi e ai pamphlet della Rivoluzione, che situa i protagonisti di quell’epoca dentro un determinato humus intellettuale prettamente illuministico e di matrice europea. Sempre riguardo all’Europa, si considera il rapporto tra la rivoluzione del 1776 e quella francese, considerando una semplificazione antistorica leggere la rivoluzione americana come una rivoluzione francese senza i mutamenti sul piano sociale. Anche in questo caso, si rivela necessario riconoscere la complessità storica e gli aspetti particolari di entrambe, in particolare, nel caso americano, il ruolo delle élite, le condizioni geografiche e quindi anche il ruolo delle comunità locali. Ciò che è certo, però, è la necessità di evitare una lettura della rivoluzione americana come qualcosa di totalmente alieno al Vecchio Mondo, in quanto “si trattò di un evento del tutto europeo da inserire nella storia della conquista europea dell’Atlantico e delle Americhe e nella storia dei processi di modernizzazione europei”[14].

La rivoluzione americana di Bonazzi riesce dunque nell’intento di offrire al lettore un’introduzione agli eventi della seconda metà del Settecento, leggendoli dal triplice punto di vista della storia tout court, della cultura politica dei coloni e dei documenti che hanno segnato quel periodo. Ne emerge dunque un ritratto onesto della Rivoluzione, che non omette le già citate aporie e problematicità di quel processo, come la schiavitù. Questo libro è perciò un contributo molto utile per chi voglia affacciarsi in modo introduttivo e disincantato alla rivoluzione americana, senza le esaltazioni ideologiche che Bonazzi vuole problematizzare.

Rivisitare quegli anni, culla della modernità e del liberalismo, può anche aiutare a leggere con più attenzione il presente, in un’epoca in cui proprio il liberalismo, sistema politico adottato per la prima volta negli Stati Uniti, sta vivendo momenti di criticità e subisce plurimi attacchi, dall’interno e dall’esterno. Sempre più osservatori si interrogano infatti sulla possibilità che il verdetto con cui Fukuyama sanciva nel sistema liberale il compimento della storia sia errato.[15] Per tale ragione, i dibattiti tra federalisti e antifederalisti riguardo alle tante questioni che interrogavano i padri fondatori, dalle competenze di stati e governo federale al pluralismo all’interno di una nazione, dalla rappresentanza dei cittadini a come sventare le fazioni, possono avere una certa attualità, mutatis mutandis, anche oggi. Riprendere in mano in modo non ideologico la storia, le idee e i dibattiti di quegli anni permette dunque di avere una visione più consapevole non solo di quell’epoca, ma anche del nostro presente.


[1] http://www.treccani.it/enciclopedia/costituzione-degli-stati-uniti-d-america/

[2] Bonazzi, Tiziano. La rivoluzione americana, il Mulino, Bologna, 2018, p. 11.

[3] Ivi, p. 13.

[4] Ivi, p. 24.

[5] Ivi, p. 35.

[6] Ivi, p. 67.

[7] Ivi, p. 77.

[8] Ivi, p. 30.

[9] Ivi, p. 33.

[10] Ivi, p. 76.

[11] Ivi, p. 80.

[12] Ivi, p. 125.

[13] Ivi, p. 141.

[14] Ivi, p. 160.

[15] https://www.pandorarivista.it/articoli/il-secolo-greve-mattia-ferraresi/

https://yalebooks.yale.edu/book/why-liberalism-failed

https://medium.com/@crimsoncola1927/book-review-why-liberalism-failed-by-patrick-j-deneen

Scritto da
Paolo Cappelletto

Nato nel 1995, ha conseguito la laurea magistrale in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Padova e ha partecipato a programmi di scambio con l’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne e la Boston University. Si interessa di politica americana.

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