Tante migrazioni, una migrazione. Dai circassi ai siriani
- 25 Aprile 2016

Tante migrazioni, una migrazione. Dai circassi ai siriani

Scritto da Gabriele Sirtori

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Le situazioni nella storia si rincorrono simili e spesso si finisce per connetterle. Si scopre quindi che ciò che si credeva episodio singolo è parte in realtà di un’unica grande e duratura tendenza, che è a sua volta fatto storico. Se «tutte le guerre sono un’unica guerra» sostenne qualcuno1, allora tutte le migrazioni sono un’unica grande migrazione, giungiamo ad affermare noi leggendo quanto accadde nelle agitate acque del Mar Nero 150 anni orsono. Masse enormi in movimento, navi-cimiteri galleggianti, tendopoli fatiscenti non sono una novità storica dell’ultimo secolo: quelli che chiamiamo oggi Siriani nel 1864 si chiamavano Circassi. Le somiglianze formali si perdono, cambiano le motivazioni. Oggi le migrazioni avvengono per allontanarsi da fame e guerra, allora non si trattò di fuga, ma di dislocazione forzata: eufemismo zarista per “pulizia etnica”.

Procediamo con ordine. Nella seconda metà dell’Ottocento un cittadino moscovita aveva a disposizione un territorio sconfinato in cui sentirsi in patria: dalla Siberia (1639) alle steppe kazake (1850) fino all’Armenia (1829). Uno spazio enorme, ma non del tutto unitario: tra le steppe tatare e l’Armenia infatti si frapponeva una catena montuosa, il Caucaso e in particolare le regioni del Nord, che per la loro conformazione inospitale, ripidi pendii e strette vallate, si configuravano come territorio di impervia conquista per l’esercito russo di per sé strutturato per grandi battaglie campali come quelle napoleoniche di poco precedenti. Le popolazioni di queste terre non erano da meno: montanari dediti alla pastorizia e alla razzia, divisi e in odio tra loro ma capaci di far fronte comune contro il nemico – talvolta uniti dalla comune religione islamica –, si può affermare che mai subirono la conquista da parte di un impero confinante. L’indipendenza di queste genti fu il loro tratto distintivo per secoli, cancellato soltanto dalle guerre caucasiche combattute dalla Russia tra 1817 e 1864.

Fu un’impresa militare lunga e costosa, non solo per la fierezza, che poi divenne paradigmatica, dei conquistati, ma anche per il supporto inglese i quali, nell’ottica del Grande Gioco coloniale, temevano l’espansione russa sia verso l’Impero Ottomano in piena crisi, sia verso l’Impero Persiano, barriera geopolitica a difesa dei loro possedimenti indiani. Verso gli anni 50 e la fine del conflitto, quando ormai soltanto il nord-ovest del Caucaso si opponeva alla conquista, la regione pullulava di spie inglesi. I gruppi di resistenza caucasici agli occhi dei Cosacchi poi sembravano avere risorse inesauribili e i villaggi continuavano a inviare supporti anche dopo essere stati messi a ferro e fuoco. Fu allora, nel ’57, che il comandante Dmitrii Miliutin, futuro Ministro della Guerra, escogitò l’idea, rivelatasi poi tragica, attuata solo alcuni anni dopo, di una deportazione di massa delle popolazioni del Nord-Ovest del Caucaso verso le coste del Mar Nero e nei territori ottomani. Questo piano fu messo in atto con una serie di azioni militari tra il ’60 e il ’64.

Come se scavassero direttamente in una montagna man mano che penetravano nelle vallate i soldati dello Zar estraevano decine di migliaia di uomini, donne, famiglie e li incolonnavano in lunghe carovane dirette verso le pianure litorali del Mar Nero. Intere popolazioni di Circassi, l’etnia principale, vennero sfollate, disperse o trucidate. «La guerra nel Caucaso non sarà completamente terminata – scrisse in un articolo un corrispondente del Journal de St. Pétersbourg – finché i nostri soldati non avranno attraversato ogni catena montuosa e non ne avranno espulso gli ultimi abitanti». L’operazione fu portata a compimento e le fonti russe riportarono che, dei circa 505.000 abitanti di quelle zone, nei primi anni Sessanta avessero abbandonato la regione tra i 400 e i 480.000 individui. Fonti di diplomatici presenti nel Caucaso affermano della diceria diffusasi tra i funzionari che anche una donna avrebbe potuto tranquillamente attraversare quelle montagne senza pericolo alcuno: non avrebbe incontrato nessuno.

La situazione poteva quindi dirsi risolta, il rischio di insurrezioni in quella zona scongiurato. Si poneva però un nuovo problema: la gestione dello sfollamento. L’impero russo prese accordi con la Sublime Porta perché questa accogliesse nei suoi territori i suoi correligionari caucasici. L’impero Ottomano non era nuovo ad una simile situazione e già qualche anno prima in seguito alla guerra di Crimea decine di migliaia di Tatari avevano affrontato migrazioni in direzione dei Balcani e in Anatolia, ma questa volta la situazione si presentava di proporzioni decisamente maggiori. I caucasici abbandonando le proprie abitazioni portarono con sé oltre ai familiari e ai loro beni anche schiavi e approvvigionamenti extra, per un totale da trasportare che superava di gran lunga le previsioni fatte. La gestione della crisi fu fallimentare. Su vascelli più grandi ma probabilmente meno sicuri dei barconi che oggi vediamo attraversare il Mediterraneo viaggiavano fino a 1800 individui. Navi sì messe a disposizione dai governi russo e ottomano, ma non tutti riuscivano a trovarvi un posto. Chi non ci riusciva era costretto a ricorrere a imbarcazioni più piccole e instabili, gestite da una sorta di mercato parallelo del tutto simile a quello rintracciabile attualmente sulle coste del Nord Africa: era destino diffuso che queste affondassero nelle acque perigliose del Mar Nero e difatti in molte fonti si riporta di decine e decine di corpi di annegati spiaggiati sulle coste orientali Balcaniche o Anatoliche. I porti di arrivo principali erano Trebisonda e Samsun dove i migranti, in attesa di essere ricollocati, sostavano a migliaia accampati: le tendopoli nel ’64, apogeo della crisi, contavano al loro interno rispettivamente 25.000 e 40.000 individui. Ogni giorno circa 150 persone morivano di malattie o inedia. I loro corpi venivano cremati frettolosamente o abbandonati in mare e da lì capitava che finissero nei porti o sulle spiagge trasformandosi in un attentato alla salute pubblica. Chi sopravviveva o fuggiva disperdendosi nell’entroterra anatolico o era ridistribuito nei vari territori ottomani.

Le migrazioni di ieri e quelle di oggi

Al giorno d’oggi il problema principale e irrisolvibile legato alle migrazioni dei profughi siriani e nordafricani è gestirne l’inserimento nella realtà europea: come distribuirli? Cosa farne? L’impero Ottomano la risolse così: sfruttò l’occasione di queste migrazioni per indebolire quelle regioni dell’impero popolate da minoranze, quelle regioni cioè in cui la presenza turcofona o musulmana era scarsa: i Balcani, l’Anatolia dell’Est, la Siria. Impose così ai popoli di quelle zone (Slavi, Curdi, Armeni, Arabi) di fornire vitto e alloggio in misura di uno sfollato ogni 4 abitanti. Fu una manovra politica e strategica. Fu una scelta pensata a tavolino per colpire quelle zone dell’impero dove più facilmente potevano raccogliersi, ed effettivamente ciò stava succedendo, le forze che avrebbero potuto mettere in discussione il potere centrale: così facendo gli strateghi ottomani ottennero un impoverimento e un indebolimento di quelle regioni e i loro abitanti, concentrati tutti gli sforzi nella gestione di questa emergenza, rivolsero i propri malumori non tanto contro la Sublime Porta e le sue decisioni quanto contro i Circassi stessi, ulteriori bocche da sfamare in territori già scarsi di risorse. La gestione dei nuovi arrivi prende sempre energie e risorse non solo economiche a chi li accoglie, era chiaro allora come lo è oggi nei palazzi europei. Se il ricollocamento dei profughi di allora fu programmato tenendo conto di questo fatto in chiave strategica in un quadro imperiale, oggi la decisione di chiudere le frontiere verso il Nord nell’ambito delle migrazioni attuali è presa per ragioni di comodo da parte dei singoli Stati. Ragionamento cinico, grave, ma tutto sommato comprensibile: la cosa cambia notevolmente nel momento in cui l’UE o approvi o incoraggi politiche del genere. In tal caso si tratterebbe di una politica sfrontatamente anticomunitaria, quasi imperialista nel momento in cui le regioni che al momento si trovano in posizioni di potere decidano di favorire alcune zone piuttosto che altre, in una dialettica nord-sud che lasci ricchezza e potere ai primi a discapito dei secondi. Dico, sarebbe gravissimo. E forse sbaglio nell’usare il condizionale.

Ma per quanto i profughi di oggi possano risultarci problematici, quelli di allora lo erano forse in misura maggiore, se non altro per una certa loro usanza stridente con il panorama in cui erano inseriti. Mi riferisco all’uso della razzia, vagamente accettata in ambiente caucasico, in Anatolia, come anche da noi ora, era considerata qualcosa di molto peggiore del furto. I circassi iniziarono a essere definiti banditi per antonomasia e gli scontri tra “immigrati” e “locali” proseguirono per anni fino ad acuirsi negli anni Ottanta e durane la Prima guerra mondiale. In questo periodo la politica etnica ottomana in favore dell’etnia turca divenne ancora più radicale (il momento topico fu il Genocidio armeno del 1915-16) e i caucasici circassi, annoverati come musulmani turcofoni di origine turca, furono preferiti sulle popolazioni storicamente presenti di arabi, armeni, curdi, balcanici. Le vittime si tramutarono in carnefici.

Sebbene non dappertutto la divisione fra nuovi arrivati e locali fu così netta (già infatti dalla seconda generazione si poterono osservare matrimoni misti), in alcuni territori i Circassi si isolarono e crearono comunità endogamiche che resistettero fino ad oggi. In Siria ad esempio si trovano alcuni villaggi circassi nel governatorato di Homs oltre alle comunità presenti nelle città di Khanasir e Manbij nei dintorni Nord di Aleppo. O perlomeno lì si trovavano prima della guerra civile. È infatti molto probabile che molti dei discendenti degli antichi migranti caucasici siano ora in viaggio lungo le strade balcaniche diretti verso l’Europa, o di nuovo intenti ad attraversare un mare, o accampati alla bene e meglio in un campo profughi. Sono l’anello di congiunzione simbolico tra eventi passati e attualità, tra le migrazioni di ieri e quelle dell’oggi: ci mostrano che grandi spostamenti non sono eventi straordinari, ma elementi costanti nel panorama storico, specie nella dialettica delle minoranze. La somma delle migrazioni fanno un’unica grande migrazione che dura da quando esiste la storia: volontaria o meno essa è sempre dettata da fattori esterni opprimenti che di qualsiasi tipo si presentano con frequenza. Ma sebbene sia una costante, ancora non si è imparato a gestirla adeguatamente. Oppure, ma questa è solo un’ipotesi, non lo si è voluto fare.


1 – «There I saw one I knew, and stopped him, crying: ‘Stetson! You who were with me in the ships at Mylae!’», T. S. Eliot, The Waste Land, 1922.

Scritto da
Gabriele Sirtori

Nato a Lecco nel 1996, studente di arabo e persiano, ha passato gli ultimi 3 anni tra Iran, Egitto, Libano, Kurdistan (iraniano) e il Veneto. Ha seguito corsi presso l'Università Ferdowsi di Mashhad, Iran. È studente del terzo anno presso l'Università Ca Foscari di Venezia.

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