Intervista a Carlo Galli
- 22 Maggio 2015

Intervista a Carlo Galli

Scritto da Matteo Giordano, Tommaso Sasso

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Il tema della rivoluzione neoliberale rappresenta una questione cruciale nel lavoro di Pandora, tema di cui ci siamo occupati sia nel numero zero della rivista, sia in un dibattito su questo sito. Questa intervista, a cura di Matteo Giordano e Tommaso Sasso, fornisce a questo proposito un contributo autorevole, approfondendo anche tematiche più generali relative alla crisi del pensiero dialettico, della politica e della sinistra nel mondo contemporaneo. Carlo Galli è professore di Storia delle Dottrine Politiche presso l’Università di Bologna e parlamentare. Autore di importanti studi su Carl Schmitt (tra cui ricordiamo, su tutti, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna 1996) e su diversi classici del pensiero politico, menzioniamo due testi recenti utili all’approfondimento delle questioni oggetto di quest’intervista: Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2013 e Itinerario nelle crisi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2013.


La crisi che viviamo, prima di tutto di civiltà, ha svelato la parzialità di una dottrina ideologica, quella neoliberale, alla base di quella che lei nel suo Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia ha chiamato la quarta rivoluzione. La Sinistra, in particolare quella europea, è stata subalterna culturalmente prima ancora che politicamente a una visione del mondo che non le apparteneva: cosa ritiene ci sia alla base di questo pressoché totale appiattimento? Come si spiega il suo deficit di autonomia intellettuale, la sua incapacità di articolare una lettura propria della storia recente, la limitatezza della sua proposta politica?

Carlo Galli: La quarta rivoluzione del XX secolo, la rivoluzione neoliberista, è una rivoluzione del capitale che ha avuto e ha come obiettivo la sconfitta e la disarticolazione delle forme di governo diretto del lavoro (il mondo comunista, almeno in teoria) e le forme di equilibrio tra capitale e lavoro che venivano realizzandosi nel mondo occidentale (il compromesso social-democratico). La fine del comunismo fornisce una parziale risposta alla domanda: perché la sinistra si è trovata sguarnita? Il motivo, paradossale, è che una sinistra come quella italiana, lontana dal sovietismo e dal materialismo dialettico, che ha preso le distanze dall’Urss anche a livello politico almeno a partire dal ’68, sostanzialmente è stata una sinistra che col crollo del comunismo non ha più avuto il coraggio non solo di definirsi comunista ma di analizzare che cosa voglia dire essere di sinistra. Quella sconfitta storica del mondo comunista organizzato ha pesato anche sopra chi era di sinistra pur non avendo più niente a che fare con quel mondo. Perché? Perché la storia è viscosa, perché il Pci italiano viene da una mitizzazione dell’Urss, nata dalla Seconda guerra mondiale. Con tutte le prese di distanza politiche, intellettuali, di ordine economico che nel frattempo erano intercorse, tuttavia, pur con tutti i dubbi che già negli anni Ottanta il mondo intellettuale marxista aveva dimostrato di avere su qualsivoglia declinazione del marxismo, la scomparsa dall’orizzonte storico reale dell’unico esempio di sinistra governante, per quanto detestabile, ha privato questo mondo di ogni riferimento. È come veder morire un padre che prima hai amato, che poi hai in una certa misura odiato, ma che però quando è morto ti lascia orfano davvero. E dato che nessuno aveva fatto l’operazione di individuare i nuovi fronti intorno a cui costituire la soggettività della sinistra e che quelli che avanzavano erano tutti fronti anticomunisti, tutto ciò ha trasformato le forze organizzate post-comuniste della sinistra italiana in forze assolutamente pragmatiche, il cui obbiettivo era esistere, resistere, possibilmente governare. Non c’è stata un’elaborazione teorica che abbia spostato l’asse dalla lotta di classe, abbandonata molto presto dal Pci, dalla promozione della democrazia progressiva (tesi togliattiana), o dalla difesa dello Stato democratico. Ci si sarebbe potuti aspettare, per esempio, che la sinistra diventasse una sinistra borghese, cioè un “partito dei diritti”. Non è successo. I politici di sinistra hanno semplicemente consumato un patrimonio, e intanto da bravi storicisti contro se stessi applaudivano il vincitore, mossi dalla convinzione della bontà di ciò che era sempre loro stato insegnato: vince chi ha ragione, ovvero ha ragione chi vince. Insomma, “vinceremo noi perché abbiamo ragione noi, ma se vincono gli altri hanno ragione gli altri”.

La manifestazione di potenza data dal capitale negli anni Ottanta e Novanta, con le trasformazioni non solo economiche ma anche politiche che ne seguivano, ha convinto molti che questo era il brave new world da cavalcare, con alcune giustificazioni patetiche. Ad esempio che l’irrompere del capitalismo su scala globale aveva prodotto molto bene, che so, ai cinesi. Che può essere vero, ma che non dovrebbe essere una risposta soddisfacente per le forze comuniste occidentali. In ogni caso Marx, dopo il grande elogio della borghesia che fa nel Manifesto, dice anche che esiste un “oltre” rispetto alla civiltà borghese, perché altrimenti non si tratterebbe di Marx ma di Adam Smith.

Siamo in presenza, insomma, della debolezza politica, intellettuale, non voglio dire morale, di un ceto dirigente che ha perduto il proprio riferimento storico e politico, che, benché rinnegato, era la dimostrazione tangibile che la sinistra poteva prendere l’iniziativa. La spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre, esauritasi secondo Berlinguer, proprio questo significava.

Stando a Berlinguer, ricordiamo che anche lui è una figura di tramonto, non di aurora. Una persona che conosce molto bene l’Italia, che sa quello che l’Italia può fare, quello che non può fare, quello che avrebbe potuto fare la Democrazia cristiana con Moro e quel che può fare una Democrazia cristiana senza Moro. La figura di Berlinguer è sempre stata rappresentata come una figura progressiva, ottimistica, di entusiasmo, e in parte era vero, ma c’era in lui anche l’idea della questione morale, cioè dell’estrema corrosione e frammentazione del corpo sociale e del corpo politico. Tenuto conto che il concetto chiave della sinistra è che c’è una “parte” da cui cominciare per sbrogliare la matassa della storia, quando si parla di questione morale vuol dire che si è almeno in parte bloccati dalla vastità del male e dal fatto che non si sa più, dato che la questione è morale, se la si possa risolvere con la politica (tenuto conto che quella questione toccava, secondo Berlinguer, anche il Pci).

La democrazia vive una fase di grave involuzione, i diritti sociali sono sotto attacco da decenni, e con essi, conseguentemente la libertà sostanziale dei lavoratori. Possiamo ricondurre ciò tanto a una crisi della modernità, i cui caratteri costitutivi starebbero secondo molti osservatori lentamente venendo meno, quanto agli esiti della rivoluzione neoconservatrice di cui parlavamo poc’anzi. Qual è la sua lettura, e quale pensa sia il nesso, se esiste, tra crisi della modernità e neoconservatorismo?

Carlo Galli: Sì, un nesso esiste. Nell’affermazione della rivoluzione neoconservatrice vediamo, oltre all’elemento della conservazione, anche l’elemento della distruzione che questa rivoluzione opera nei confronti del paradigma politico tardo-moderno. Una crisi della modernità che si consuma all’insegna dell’ammodernamento: non c’è infatti nulla di regressivo o restaurativo nel neoliberismo. Una rivoluzione fatta da un sistema di potere a proprio vantaggio; un vantaggio che, come sempre, viene presentato come storicamente necessario e come coinvolgente tutti. Le rivoluzioni si fanno così: certo, si fanno anche “contro” qualcuno, ma la forza dei rivoluzionari sta nel poter dire “noi siamo la testa, noi siamo il cervello e il cuore di un processo dentro il quale stanno quasi tutti, a eccezione dei nemici da abbattere”. La modalità in cui si è manifestata la rivoluzione neoliberista è distruttiva del mondo social-democratico. Dobbiamo chiederci quindi come è stato possibile che anche in questo caso i pochi beneficiari abbiano convinto i molti che quella era una rivoluzione giusta, da compiere. Ovvero, dobbiamo chiederci come e dove si è manifestata l’egemonia. Essa, a mio avviso, si è manifestata anche attraverso l’utilizzazione surrettizia del pensiero negativo, un pensiero fortemente corrosivo del razionalismo moderno nella versione sia liberale sia dialettica, e fortemente impregnato di attivismo, di sentimentalismo e di espressionismo, cioè dell’idea che l’esistenza della società è spiegabile a partire dall’individuo, e che un’analisi della società di tipo strutturale non ha senso, come non lo ha neppure un’analisi della società in chiave di rapporti di potere. Dell’idea, insomma, che la società è fatta di individui, che ciascun individuo è un grumo di energia, una volontà di vita e di potenza (oltre che un sistema di calcolo razionale dell’utilità attesa) che ha il sacrosanto diritto di essere lasciata esistere e anzi agire e godere. Secondo questo schema si indicano a questo individuo alcuni nemici, ossia le forme disciplinanti, ma anche emancipanti, della fase social–democratica: il partito, lo Stato, la burocrazia, il sapere accademico. Discorsivamente, possiamo semplificare la narrazione attraverso le affermazioni seguenti: “Quelli sono i tuoi nemici! Quelli sono quelli che non vogliono che tu viva e goda. Noi ti liberiamo. La vita è bella perché è rischiosa, perché è un’avventura, perché è fatta di passioni, perché è fatta di sentimenti e di libertà. Quelli ti sfruttano e ti dominano. Dicono di agire per il tuo bene, ma sono dei parassiti”. Tanti “super uomini di massa” hanno creduto a questa narrazione (l’espressione di Umberto Eco è molto precedente, e diversamente mirata; ma è pertinente). Si dice erroneamente che la fase neoliberista è la fase del consumo: in realtà la fase del consumo è la fase socialdemocratica. Il neoliberismo, invece, è orientato primariamente verso la mobilitazione e il rischio. La definizione di soggetto contenuta negli autori del neoliberismo, Hayek prima di tutti, è quella di “imprenditore”; uno dei cui tratti è l’aggressività come approccio ai rapporti con le persone e le cose. È, questo, uno dei miti efficacissimi che hanno distrutto quelli precedenti, quelli tardo-moderni. In questo senso il neoliberismo ha tratti post-moderni, fermo stante il carattere moderno del suo cuore propulsivo, il capitalismo. È un capitalismo che riforma profondamente se stesso, sotto il profilo dei processi produttivi. Penso al passaggio dal fordismo al toyotismo, determinato dalla fase di crisi e di crollo dei tassi di profitto in cui entra il capitale negli anni Settanta. Si è detto “è finita un’epoca, ora è inevitabile il passaggio da un’economia della domanda e di stimolo dei consumi a un’economia dell’offerta” (il che significa che i cittadini dovranno farsi piacere ciò che viene loro offerto; e ciò avviene mentre i cittadini vengono convinti che questa è la libertà). Si è detto: è ora di finirla con la “gabbia dei diritti”: l’ideale devono essere la trasgressione e la libera espressione della propria volontà di potenza (il cui reale dispiegamento è stato naturalmente riservato ai capitalisti). In parallelo, potentissima è stata la rivoluzione tecnologica, l’elettronica, senza la quale non sarebbero state possibili la smaterializzazione del lavoro e l’impiantarsi di una struttura capitalistica che ha molto meno bisogno di manodopera che non in passato. In ogni caso, si sostiene, “questa è la libertà, e ti deve piacere. Se non ti piace la chiamiamo ‘flessibilità’ e ti diciamo che è un obbligo”. In ogni caso, è sbagliato leggere il mondo in chiave di rapporti di classe o di potere (il pensiero dialettico): la società è sì un insieme di rapporti di potere, ma non strutturati, non riconducibili a un principio. Il mondo è una giungla da sempre e per sempre.

Questo pensiero è passato a vari livelli. È passato a sinistra, attraverso Nietzsche e Foucault, e a livello economico è passato attraverso autori come Hayek: con lui, l’economia neoclassica esce dal rapporto valore-lavoro e entra nella dimensione dell’utilità marginale, aperta da Pareto e Mises; non ci sono le strutture, ma soltanto l’individuo calcolabile.

Insomma, da questo nesso deriva che il mondo non è ordinabile…

Carlo Galli: No, mai. Anzi chi lo vuole ordinare è nel migliore dei casi uno sciocco, o nel peggiore un totalitario: chi vuole ordinare un mondo inordinabile ha bisogno di un’enorme quantità di violenza che crea una gabbia, quella sì mortale; in ogni caso l’ordine che risulta sarà sempre meno efficiente del mondo libero. Mentre il mondo fa la guerra alla Germania nazista, Hayek scrive The road to serfdom (1944), sia antinazista (certo) sia principalmente anticomunista (chi vuole mettere ordine nell’infinita complessità della società, secondo l’autore, arriverà a Stalin). La sinistra italiana, però, ha continuato e continua a credere che a tutto ciò si possa rispondere con una rivisitazione della terza via.

A questo proposito, dobbiamo limitarci alla riproposizione del paradigma sconfitto o serve un passo ulteriore verso un’elaborazione che riannodi i fili spezzati di una cultura politica?

Carlo Galli: Quanto a cultura politica, nessuna riproposizione. Ragioniamo e andiamo avanti. Sotto il profilo politico-istituzionale una riproposizione di elementi di socialdemocrazia mi sembra invece inevitabile. Parlo di elementi di protezione del lavoro, sulla base di un ragionamento. Il senso della sinistra non è quello dell’uguaglianza, ma dell’ordine dinnanzi a una destra che teorizza l’inordinabilità del mondo. Ordinare dunque significa porre le condizioni per cui ci sia la possibilità di iniziativa politica non solo del capitale. Iniziativa politica vuol dire che la sinistra non è solo quella che (talvolta) rimedia ai danni, non è solo quella che sta dietro e rincorre, ma traccia la via. O quantomeno combatte alla pari, ponendosi come contropotere. Non anarchico, ma credendo nel conflitto e in forme di transitoria neutralizzazione o di momentaneo equilibrio del conflitto. Si tratta di pensare a individuare, nelle forme nuove che i tempi nuovi esigono, momenti di equilibrio fra capitale e lavoro, analogo a quello che fu gestito, storicamente, dallo Stato sociale. Che implica non solo interrompere il processo di accrescimento della disuguaglianza, ma soprattutto l’idea che in politica non tutto è possibile, anche se si accetta l’originaria assenza di fondamenti moderna. E, in concreto, si tratta di affermare che, se non è vero che tutto è possibile, neppure è vero che l’orizzonte delle possibilità è dettato dalle compatibilità del capitale. Non è vero che se il capitale ha un’esigenza, essa entra ipso facto nell’agenda politica anche se tale esigenza confligge con altre esigenze, quali esse siano. Non è vero che – dato che abbiamo ceduto all’idea che il mondo è inordinabile – dobbiamo essere sempre pronti a soddisfare le esigenze del Capitale, perché questo si muove in un’infinita complessità e noi non possiamo permetterci di aggravare il suo già gravosissimo impegno.

Questa è a tutti gli effetti una gerarchia di priorità, che non può essere interpretata affermando che “siamo tutti sulla stessa barca”. Perché questo è vero, certo, ma nella barca svolgiamo compiti molto diversi, e tali compiti ci fanno diversi, attribuendoci interessi diversi che non possono essere risolti limitandosi a ripetere il noto “There is no Alternative”. Il compito fondamentale della sinistra è di costruire nuova egemonia, ossia riuscire a mostrare ai cittadini che il modo di guardare al mondo può essere diverso da quello corrente. Si tratta di smontare miti consolidati, come per esempio quello dell’uguaglianza dei punti di partenza. L’accumulazione storica del privilegio non può essere combattuta che attraverso la costruzione attiva di politiche positive e, accanto a queste, attraverso la programmazione economica (la “società regolata” di Gramsci). Gli elementi di casualità, di irrazionalità e di violenza contenuti nella società capitalistica non devono essere accettati come naturali, ma devono invece essere contrastati attivamente per far sì che gli esseri umani siano padroni di se stessi e che non vivano la società, la loro esistenza collettiva, come qualcosa di naturale. Non può essere infatti considerato naturale ciò che è fatto dall’uomo. La differenza tra la critica genealogica e la critica nichilistica sta nel fatto che la prima vuole vedere come è stato fatto il mondo, il che è cosa diversa dal dire che tutto è infondato e nulla è ordinabile. Il concetto di fondo è che tutto è sì infondato, perché fondamenti sostanziali non ne conosciamo, ma tutto è stato fatto nella storia da esseri umani attraverso precisi rapporti di potere e di sapere che vanno conosciuti. Per criticare il presente lo si deve smontare verticalmente, genealogicamente. Si è invece imposta la narrazione intrinsecamente di destra secondo cui non è importante chi ha fatto che cosa, non è importante decifrare i rapporti di forza che determinano il mondo: è sufficiente sapere che il mondo è un insieme di rapporti di potere. E che non c’è alternativa se non quella di starci.

Le parole d’ordine del nostro tempo, dello schema che lei ha tracciato, “Decisione, immediatezza, governamentalità”, giustificano l’impressione secondo cui la crisi della modernità in atto abbia tra i suoi sintomi un progressivo affermarsi dei tratti qualificanti del pensiero negativo?

Carlo Galli: Sì, in quanto il pensiero negativo è un pensiero di crisi della modernità. Anticipa a livello filosofico la mancata tenuta della teoria moderna dell’ordinabilità razionale del mondo. Vi dò un’indicazione storico-critica: dentro la rivoluzione neoconservatrice c’è l’idea di potenza che vi descrivevo, ma al tempo stesso un’idea di ordine. Ma attenzione, di ordine deciso, non di ordine costruito. Il pensiero negativo ha per un lato l’aspetto nichilistico e decostruzionistico per cui non c’è ordine, dall’altro ha l’elemento decisionistico, secondo cui l’ordine non c’è, ma ci deve essere. Parliamo di un ordine completamente infondato, completamente arbitrario e assolutamente contingente, che non ha alcun bisogno di essere legittimato se non dal successo stesso. Il decisionismo è parte integrante del pensiero negativo, nel quale non c’è solo l’imperativo “divertiamoci”, ma anche “marciate uniti sotto il comando del capo”.

La crisi capitalistica particolarmente in Europa non è risolta perché qui vige una versione particolarmente aggressiva dell’ordoliberalismo tedesco, che è la dottrina implicita dell’Unione europea, cioè l’economia sociale di mercato, che ha come paradigma di fondo salari relativamente bassi, coesione sociale (attraverso l’intreccio di impresa e sindacati, finanza e industria), costituzionalizzazione del mercato e rigoroso controllo della massa monetaria. Per paesi meno organizzati e ordinati della Germania, politiche di crescita, per questa via, sono molto ma molto difficili. La crisi europea, da cui quindi ancora non si esce, ha portato alla distruzione della democrazia e del legame sociale. Quando si dice che esiste solo il potere (del mercato, dei conti pubblici, e della politica che se ne fa carico) e poi lo si dimostra distruggendo ogni certezza (pensioni, lavoro fisso), allora si trasforma ogni cittadino in un grumo di energia (aggressiva o passiva) orientata solo al proprio benessere, alla propria sopravvivenza. A quel punto non si hanno più istinti democratici, che risultano inutili. A questo punto scatta il decisionismo: poiché non si può più vivere in una società così scomposta e frammentata, è ora di fare sacrifici, di passare all’austerità. La politica deve tornare a essere verticale, deve tornare a imporre una linea. Naturalmente col voto che la legittimi. Un voto dato non a un progetto ma a un leader. Eccoci dunque di fronte a una democrazia di investitura, e anche, per dirla con Colin Crouch, a una postdemocrazia. Cioè una democrazia che è tale solo nelle forme esteriori, ma che non conta più sull’idea dell’esistenza di una società complessa, costruita da conflitti e rapporti di potere e strutturata sulla mediazione oltre che sui diritti individuali. La democrazia diventa un insieme di cittadini affamati, riottosi, a cui si devono dare risposte che non si possono dare (il modello economico-politico europeo prevede una disoccupazione strutturale al 10%). Ciò detto, in questa società non più rappresentata per conflitti, per poteri sociali, ma ridotta a un insieme sparso e dunque omogeneo, siamo tutti infelici ma “sulla stessa barca”. Potremo essere felici solo se seguiremo fino in fondo l’unica strada possibile, percorribile nell’unico modo possibile.

Quanto pesa l’assenza del mito, anche religioso, nel modo di concepire la politica oggi?

Carlo Galli: Non viviamo in un mondo privo di miti, ma in un mondo che ha sostituito i propri miti. L’Occidente è immerso in una condizione di disordine come non si era mai vista nel XX secolo. Stiamo ancora facendo i conti con la mancata soluzione della questione dell’Impero ottomano, a cui non fu data risposta, se non coloniale o dittatoriale.

L’Europa è assediata dal disordine, attorno ad essa tutto brucia. L’unica idea che sta circolando in Europa, a livello di potere politico, è quella ordoliberista: stabilizziamo il capitalismo, rendendolo unica legge dell’esistenza, pur all’interno di un generico personalismo che però non può mai essere percepito come contraddittorio rispetto al capitalismo, con il quale deve convivere perfettamente. È sufficiente eliminare i corpi intermedi o ridurli a collaboratori, in altre parole è sufficiente eliminare l’elemento del conflitto. Il dramma è che oggi in Europa chi non sposa questa idea non ne ha un’altra. Non a caso in Italia siamo dentro a un processo di trasformazione della democrazia. Non dico che stiamo andando verso una forma di dittatura, dico però che stiamo andando verso una democrazia senza partiti, o monopartitica, fondata sul plebiscito, sull’immagine e, da un punto di vista strutturale, sull’individualizzazione del lavoro (in contraddizione profonda con la Costituzione in cui sta scritto che il lavoro è politica, è ciò che fa incontrare noi stessi e l’altro). Adesso il lavoro è un problema privato, non è questione pubblica. Non a caso i sindacati non possono più essere portatori di un progetto politico, non possono più essere coinvolti nella produzione di strategie politiche. In altre parole, viene delegittimata o addirittura eliminata la concertazione. In tutto ciò è presente un vero iper-politicismo. Non è vero che il neoliberismo è antipolitico; in realtà gioca su due piani: sull’antipolitica quando si tratta di distruggere lo Stato e i corpi intermedi, sull’iperpoliticismo quando si tratta di rivendicare al leader il monopolio della politica.

Tutto ciò è il nuovo mito politico dell’Occidente. Capitalismo, organicismo personalistico, decisionismo, assunti come fede, come nuovo Verbo. A cui altri contrappongono sanguinosamente altre fedi, altri Verbi. A cui si tenta – dato che il rapporto tra religione e politica è esploso e che la neutralizzazione moderna, la secolarizzazione liberale della religione, non ha tenuto – di contrapporre i valori dell’Occidente trasformati in una contro-fede.

Cito una seconda volta il suo Sinistra: dall’offensiva neoconservatrice escono due sinistre senza relazioni reciproche, che paiono riproporre la vecchia dicotomia fra riformismo e comunismo, ma assai indebolita: il riformismo di oggi cerca quasi solo di frenare la potenza, e la crisi, del neoliberismo, in un realismo che, se spinto all’eccesso, diventa rassegnata accettazione del presente; mentre il radicalismo è quello di [..] una galassia cangiante e occasionale di esperienze e di tendenze che vanno dalle insorgenze al catastrofismo. Ciò premesso, dove vanno cercati gli elementi di contatto tra le due sinistre, è davvero individuabile un terreno di lotta comune dove l’una possa inverare i limiti dell’altra?

Carlo Galli: Oggi la contrapposizione non si gioca più tra due diverse interpretazioni di Marx (comunismo e il riformismo nella sua accezione storica), ma tra il riformismo e la critica. Il riformismo è infatti ogni diventato l’acritica assunzione delle esigenze del capitale. Oggi per riformismo intendiamo la riconfigurazione di un paese in modo da tale che esso sia più efficiente secondo una direzione unica e data, quella cioè di essere più produttivo e competitivo. Oggi il riformismo è completamente staccato dalla prospettiva della sinistra, e chi avrebbe interesse a opporsi a questo tipo di riformismo, non avendo sostanzialmente davanti a sé un’offerta politica conseguente, si rifugia nell’astensionismo.

Non a caso, per stare all’Italia, il Partito democratico non incrocia le esigenze dei disoccupati, dei sotto-occupati e in generale di gran parte dei ceti popolari, che a loro volta si illudono di trovare rappresentanza in forze antipolitiche o antisistema. Se mettiamo insieme i non votanti, i votanti per la Lega, per Berlusconi e per Grillo sfondiamo di molto la soglia del 50%.

Infine, il mio non è un messaggio di pessimismo, come banalmente si dice; queste, piuttosto, sono situazioni in cui devono venir fuori le Idee. Finora la mia idea è di decostruire l’apparato di pensiero che ha sorretto e legittimato ciò che abbiamo descritto. Per il resto, per la prassi, toccherà anche a voi.

Scritto da
Matteo Giordano

Classe '96, studia Filosofia alla Sapienza di Roma.

Scritto da
Tommaso Sasso

Studia giurisprudenza all'università di Roma 3. È membro del Comitato di redazione di Italianieuropei.

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