2100: come sarà l’Asia, come saremo noi. Intervista a Simone Pieranni
- 02 Settembre 2024

2100: come sarà l’Asia, come saremo noi. Intervista a Simone Pieranni

Scritto da Giulia Dugar, Daniele Molteni

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«Carne coltivata e cocktail di meduse, Big Data e intelligenza artificiale, aziende milionarie e sorveglianza, chirurgia da remoto e chip neurali, leggi anti fake news e deepfake. L’Asia è ormai una potenza demografica, economica, culturale e militare, che cresce a un ritmo serrato e dove ciò che accade spesso è soltanto un’anticipazione di quel che accadrà nelle nostre società occidentali».

In 2100. Come sarà l’Asia, come saremo noi, uscito il 3 settembre 2024 con Mondadori, Simone Pieranni offre un’analisi di un continente che, tra conflitti sociali, novità tecnologiche e tendenze culturali, è in grado di offrire spunti preziosi per riflettere sul presente e immaginare il nostro futuro.

Pieranni è un giornalista, ha vissuto in Cina dal 2006 al 2014, dove ha fondato China Files, agenzia editoriale che collabora con diversi media italiani. Dal 2014 al 2022 è stato responsabile della redazione esteri del «Manifesto». Oggi lavora a Chora Media, per cui ha realizzato i podcast Altri Orienti, Fuori da qui e Taiwan: perché. Tra le sue numerose pubblicazioni: Tecnocina (Add editore 2023), La Cina nuova (Laterza 2021) e Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza 2020).


Il libro si pone un obiettivo che, come detto anche nell’introduzione, sottintende un dibattito particolarmente sentito per gli addetti ai lavori (giornalisti, divulgatori, studiosi) che trattano di Asia. Ovvero: guardare all’Asia e a ciò che vi succede per provare a comprendere come sarà il nostro futuro. Sono inoltre ripresi i concetti di “orientalismo” di Edward Said, identificando le etichette di “noi” (l’Occidente) e “loro” (l’Oriente), dove il primo, il centro, siamo abituati a percepirlo come punto di riferimento, guida, modernità, e il secondo, l’Oriente e più in generale l’Asia, la periferia, come esotico, arretrato, che si adegua e tenta di raggiungere la controparte. Nel libro questa visione viene contestata. In che modo e affrontando quali temi?

Simone Pieranni: L’informazione disponibile in Occidente su quanto accade in Asia è aumentata moltissimo negli ultimi anni, soprattutto riguardo Paesi come la Cina e l’India. Tuttavia, l’impostazione di fondo rimane quella che già intercettava Edward Said nel libro Orientalismo del 1978: non è stata ancora superata la visione colonialista e, soprattutto in ambito divulgativo, si tende ancora a definire l’Oriente per definire noi stessi in contrapposizione. Questo approccio, complici le guerre in Ucraina e poi a Gaza, è stato ancora più evidente negli ultimi due anni in cui abbiamo scoperto – ad esempio, tramite le risoluzioni dell’ONU sull’invasione russa dell’Ucraina – che la maggior parte dei Paesi del mondo non è allineata alla lettura occidentale di alcuni fenomeni. L’attenzione verso quello che viene definito “Sud globale” è aumentata, ma ancora i nostri media mainstream lo descrivono con gli stessi pattern che denunciava Said. Da un lato vediamo ancora l’Asia come un blocco omogeneo caratterizzato da tirannia, proteste, cambi di governo, potere militare, violazioni dei diritti e sfruttamento del lavoro, con generalizzazioni per noi rassicuranti che ci permettono di proiettare altrove paure e pregiudizi, soprattutto ora che le nostre democrazie sono in crisi. Dall’altro lato, osserviamo il fenomeno dell’essenzialismo, una visione che riduce gli asiatici a qualcosa di diverso e incomprensibile per noi, quasi fossero alieni. In Asia, al contrario, le giovani generazioni affrontano tematiche come il lavoro, l’ambiente e i diritti in modo molto simile ai giovani europei, nonostante le differenze economiche e culturali. Le trasformazioni sono globali e siamo tutti, come direbbero i cinesi, “sotto lo stesso cielo”. Queste premesse mi hanno portato a cercare i punti in comune tra le diverse società per superare una visione semplificata e distorta – che deriva dalla nostra esperienza e dalle parole che siamo abituati a utilizzare – che riduce quelle realtà a un essenzialismo o a un eccezionalismo che ci impediscono di capire e riconoscere le somiglianze e le differenze. Nel libro ho voluto dare rilevanza a numerosi Paesi per mostrare come siano diversi tra loro e contengano mondi indipendenti e spesso autosufficienti. Prendiamo l’India, ad esempio: nonostante non sia percepita come una potenza mondiale alla stregua della Cina, il suo mercato interno è enorme e la maggior parte dei turisti del futuro saranno indiani. È la popolazione che viaggia di più e che ha superato ampiamente i numeri da record dei cinesi del 2019, muovendosi prevalentemente in Asia verso destinazioni come la Thailandia o gli Emirati Arabi Uniti. Solo che tendiamo a non considerarli perché non li vediamo in Europa.

 

Qual è il pubblico a cui è rivolto questo libro, anche rispetto a quello che ascolta Altri Orienti? Quanto dell’esperienza del podcast è confluita nella scrittura e in che misura la modalità espressiva del libro può aiutare ad approfondire le stesse tematiche?

Simone Pieranni: Il libro mira a una divulgazione più accessibile rispetto ai miei lavori precedenti, anche se ciò comporta delle semplificazioni. L’obiettivo è lo stesso di China Files: essere comprensibile mantenendo precisione e rigore. Con il successo di Altri Orienti ho avuto la possibilità di avvicinare molti ascoltatori alle vite delle persone dall’altra parte del mondo e così mi sono convinto a rivolgermi a un pubblico più vasto, in modo chiaro e accessibile, utilizzando le tecniche narrative che attirano le persone verso le storie reali, tipiche del genere non-fiction alla Truman Capote (che sta diventando popolare anche in Cina). Questo mi ha portato a cambiare il mio modo di scrivere per ricercare le storie particolari adatte a sviluppare nel lettore empatia e curiosità, ma che fossero anche funzionali ad affrontare tematiche più generali come accade anche con altri podcast di Chora Media. È difficile prevedere chi saranno i lettori di questo libro perché è la prima volta che pubblico con una casa editrice con una distribuzione così ampia, mentre altre volte sapevo che il pubblico sarebbe stato composto principalmente da persone che seguono il mio lavoro e sono magari già interessate alla Cina. Il libro è pensato soprattutto per chi conosce poco questa parte del mondo, e spero che emerga questa idea di avvicinamento senza la pretesa di esaustività. Quello che auspico è che dopo la lettura le persone sentano il desiderio di approfondire ulteriormente i temi trattati e ciò che accade all’interno dei Paesi, perché troppo spesso parlando di Cina o India raccontiamo solo Xi Jinping o Narendra Modi. Ridurre un Paese al suo leader o al suo destino geografico o demografico è limitante, per questo sono critico dell’impostazione “geopolitica” e trovo molto più interessante esplorare come vivono le persone all’interno di queste società.

 

Uno dei temi affrontati nel libro è quello del cibo e, anche se sembra in apparenza inusuale pensare ad esso quale arena in cui osservare la transizione verso la modernità, è un importante elemento di presa di posizione, quasi identitaria, in cui le località e le nazioni esprimono il loro intento di cambiare. Oltre ad avere una componente identitaria, il libro mostra come il cibo si inserisce nella necessità di un diverso rapporto uomo-natura che possa assumere una forma di «sopravvivenza collaborativa». Quali strategie stanno emergendo nei Paesi asiatici per affrontare la crisi climatica, che potrebbero diffondersi una volta superati gli stereotipi?

Simone Pieranni: Il tema del cibo rappresenta un esempio concreto di come l’Asia affronti le sfide del futuro in modo più rapido e pragmatico. Nonostante le resistenze e il rispetto per le tradizioni, si sperimentano soluzioni innovative con la consapevolezza che è possibile tornare sui propri passi, se necessario, mentre in Occidente siamo ancora molto legati alle rendite di posizione e all’identità. Prendiamo ad esempio il caso di Singapore, che dipende dall’esterno per il 90% del suo approvvigionamento alimentare. Questa dipendenza ha spinto il governo a cercare delle soluzioni per garantire una maggiore autosufficienza alimentare e contribuire alla lotta contro il riscaldamento globale. Lì, dove i principali fondi finanziari sono impegnati in questo campo, l’innovazione alimentare è diventata una necessità vitale. Il tema del riscaldamento globale è presente in più punti del libro perché è molto sentito nella regione: in Cina, ad esempio, sono stati pubblicati libri che rileggono la storia del Paese attraverso il prisma dei cambiamenti climatici, riconoscendo il loro impatto sulle scelte politiche ed economiche. Inoltre, una caratteristica dell’Asia che facilita la diffusione dell’innovazione è la presenza di giganti economici come la Cina che possono garantire le necessarie economie di scala. Ad esempio, se la classe media cinese, composta da circa quattrocento milioni di persone, dovesse adottare la carne coltivata come alternativa agli allevamenti intensivi, magari nel consumo di chuar, la carne di agnello nello spiedino, questa tendenza sarebbe destinata a diffondersi. In questo caso la terminologia influenza la percezione, perché parlare di “carne coltivata” o di “carne cellulare” veicola idee molto diverse. Oltre alla Cina, è importante osservare quanto accade anche in altri grandi Paesi asiatici che potrebbero guidare nuove prospettive di consumo alimentare e che, anche grazie ad una popolazione molto numerosa, hanno il potenziale di innescare cambiamenti globali significativi.

 

Molte volte, gli esempi di modernità della regione asiatica proposti nel libro sembrano dover far fronte a una serie di contraddizioni. La prima risulta evidente soprattutto a chi in Asia ha viaggiato e ha fatto esperienza di come molti di questi elementi di modernità che emergono si accostano a uno standard di vita ben diverso da quello a cui siamo abituati, come in Indonesia dove alla grande confusione di Jakarta si contrappone il progetto della nuova capitale Nusantara. La seconda contraddizione, legata alla prima, è una riflessione in termini di costi: ovvero che questa modernità sembra rimanere legata ad ambienti economicamente e socialmente privilegiati, secondo dinamiche in parte paragonabili a quanto sta accadendo anche in Occidente.

Simone Pieranni: Uno degli aspetti più affascinanti dell’Asia è proprio la presenza di questo tipo di contraddizioni. In La Cina nuova, ad esempio, ho affrontato temi come il socialismo di mercato, la corruzione e la meritocrazia, cercando di descrivere una società complessa che affronta le sue contraddizioni in modi che per noi possono essere di difficile comprensione. Il concetto di socialismo di mercato, ad esempio, può sembrare un ossimoro perché in Occidente abbiamo un’idea di mercato che è spesso distorta, dimenticandoci che Adam Smith con la sua “mano invisibile” prevedeva un ruolo regolatore dello Stato: non è detto che mercato significhi necessariamente capitalismo; quindi, socialismo e mercato non sono per forza in contrasto. Quello che per noi appare come una contraddizione, per altre culture non lo è e viceversa. In Paesi come Cina, India, Indonesia e Bangladesh esistono ancora profonde disuguaglianze sociali e per quanto riguarda i costi, pensiamo appunto alla futura capitale indonesiana Nusantara: non tutti vi si trasferiranno, e molti rimarranno in città destinate a scomparire o a restare senza servizi. In Red Mirror citavo una serie TV brasiliana dal titolo 3% che illustra perfettamente questo concetto di smart city: i ricchi vivono in ambienti privilegiati mentre i poveri restano privi di protezioni ed esposti a ogni tipo di inquinamento. Le contraddizioni sono presenti in ogni continente perché sono il risultato di un sistema capitalistico che privilegia l’estrazione di risorse e la ricchezza finanziaria andando oltre i differenti sistemi politici e a discapito dell’uguaglianza economica e dei diritti. Anche in Vietnam, dove il Partito Comunista è al potere, il nuovo segretario del Partito Tho Lam nella sua prima visita è andato nel Guangdong per rafforzare i rapporti commerciali con la Cina, e subito dopo ha allentato la lotta alla corruzione per privilegiare lo sviluppo economico. Il capitolo in cui emerge maggiormente la tensione tra il mondo in cui viviamo e le narrazioni proposte è quello sul lavoro, dove si vede chiaramente come lo “scontro di civiltà” sia una costruzione dei governi nazionali che non mette mai in discussione il sistema. Se i lavoratori europei e asiatici iniziassero a dialogare tra loro, rompendo questo giogo nazionalista, forse sarebbe possibile mettere in discussione non solo l’orientalismo ma anche il sistema economico. Le contraddizioni che bruciano dentro l’Asia ci permettono di osservare su larga scala, come in uno specchio ingigantito dal suo peso demografico, gli effetti dei cambiamenti sociali e le soluzioni che ci verranno proposte in futuro, che però potrebbero essere vantaggiose solo per le classi dominanti. La tecnologia è un esempio di come il possesso e il controllo siano fondamentali più di come vengano usate le innovazioni, perché determinano il tipo di utilizzo e gli effetti che avranno sulla società.

 

Riguardo alla tecnologia, il libro descrive come il controllo dei media e dei social venga utilizzato per riscrivere il passato e influenzare le nuove generazioni, spesso ignare delle pagine più drammatiche della loro storia nazionale. Quanto differisce questa pratica da quella attuata in Occidente? Quali innovazioni tecnologiche, anche in ambito militare e geopolitico, possono diventare comuni tra società occidentali e orientali?

Simone Pieranni: Il tema della tecnologia è centrale per comprendere le contraddizioni di cui abbiamo parlato. Il recente arresto del proprietario di Telegram, ad esempio, solleva una questione complessa perché da un lato l’app offre numerose libertà di comunicazione – che permettono, ad esempio, alla comunità LGBTQ+ in Iran di organizzarsi – ma dall’altro il suo fondatore si è sempre rifiutato di collaborare con le autorità che chiedevano chiarimenti. Il problema centrale è se queste libertà possano giustificare i rischi connessi ai crimini sulla piattaforma. La tecnologia è sia strumento di sorveglianza che di “restyling politico”, soprattutto in alcuni contesti asiatici dalla recente storia autoritaria: nelle Filippine, ad esempio, gran parte della popolazione è molto giovane e non ha memoria diretta della dittatura di Ferdinand Marcos e questo ha permesso al figlio di sfruttare le nuove tecnologie per guidare la narrazione e prendere il potere. Gli strumenti di propaganda però sono diffusi anche in Occidente, basti pensare che durante le convention democratiche e repubblicane negli Stati Uniti sono stati riservati importanti spazi per influencer, in un Paese che mentre cerca di bandire TikTok invita i creator persino alla Casa Bianca per raccontare le ragioni dei finanziamenti verso l’Ucraina. Il potere della tecnologia ha questo lato soft legato alla manipolazione dell’opinione pubblica, ma ha anche un lato hard, legato all’uso militare. Quando parliamo di intelligenza artificiale pensiamo a ChatGPT e alle applicazioni civili, ma i governi pensano invece all’impiego militare e alla “guerra cognitiva”, un concetto che le riviste militari cinesi trattano da anni, da quando l’intelligenza artificiale offre la possibilità di inserirsi nei discorsi pubblici di altre nazioni. Nel libro parlo del caso della love jihad, un esempio clamoroso di teoria del complotto contro i musulmani in India, che ha implicazioni anche nelle relazioni internazionali. Inoltre, in Occidente il dibattito sull’intelligenza artificiale è spesso sensazionalistico, mentre in Asia si ragiona su come questa tecnologia possa trasformare i processi industriali e produttivi in un’epoca in cui le filiere globali si accorciano. In Asia c’è una minore rigidità ideologica che permette un approccio più spregiudicato, ma i problemi sono comuni anche a noi e riguardano la trasparenza dei processi decisionali e l’uso della tecnologia, con la differenza che spesso quando ci riferiamo alle nostre società parliamo di un uso della tecnologia per la sicurezza con una certa ipocrisia, perché per l’Asia parliamo invece di sorveglianza di massa. In Asia spesso è lo Stato a gestire i processi decisionali e a stabilire le linee guida per la ricerca e lo sviluppo, a differenza dell’Occidente dove gli attori principali sono i privati. Il caso cinese, ad esempio, è interessante per l’uso dell’intelligenza artificiale nella governance, nella telemedicina e per le diagnosi a distanza utilizzate anche durante la pandemia di Covid-19 per evitare l’affollamento degli ospedali. Ci sono anche casi interessanti in termini di regolamentazione come la legge anti fake news di Singapore, frutto di un’epoca dove la distinzione tra reale e artificiale è sempre più labile. È un esempio di come uno Stato cerca di disciplinare questo fenomeno che al tempo stesso ci mette di fronte a un rischio: quando un governo decide cosa è vero e cosa è falso, è evidente che lo userà anche a fini politici. In un mondo senza intermediazione ogni cosa sembra possibile e questo crea il dilemma relativo a come regolare un mondo che si muove più velocemente delle regole stesse. In Paesi come la Malaysia, poi, il problema emerge quando la tecnologia con capacità predittive e di controllo viene utilizzata per regolare non solo il traffico urbano ma anche altri aspetti della società.

 

Osservando sistemi politici come quello tecnocratico di Singapore, caratterizzato da severità ed efficienza, e la situazione indiana con un deterioramento democratico, sembra emergere una tendenza verso una verticalizzazione del potere, rafforzata anche dal peso delle dinastie politiche. Tuttavia, in Paesi come Corea del Sud e Cina, il dinamismo delle società civili, con richieste su temi specifici come la fecondazione assistita, suggerisce un possibile movimento verso maggiore apertura e partecipazione. Stiamo assistendo a una globalizzazione del potere verticale o ci sono segnali di apertura e rispetto dei diritti nelle società civili che contrastano questa tendenza?

Simone Pieranni: Attraverso gli esempi dei diritti delle famiglie ho voluto illustrare come anche in società che consideriamo autoritarie o verticali esista una dialettica tra società civile e potere, dove le istanze provenienti dal basso vengono recepite con dinamismo, seppure a volte in modo paternalistico. Queste società, apparentemente più chiuse stanno vivendo dei cambiamenti significativi e, così come in Italia dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin è cambiata la percezione riguardo la violenza di genere, anche in società storicamente maschiliste o ossessionate dalla bellezza e dalla chirurgia estetica, come quella della Corea del Sud, stanno emergendo movimenti di critica forti e radicali che dichiarano apertamente che «c’è una guerra in corso, una guerra di genere». Sono affermazioni che possono sembrare estreme ma rappresentano un passo necessario per portare l’attenzione su queste questioni, perché i cambiamenti hanno bisogno di massimalismo in alcuni casi, purché poi siano supportati e regolamentati all’interno di perimetri legislativi. Il movimento #MeToo è un esempio di come la radicalità possa portare a un cambiamento sostanziale perché è giusto che si inizi ad ascoltare chi ha subito una violenza. Dunque, i diritti di genere e i diritti LGBTQ+ sono sempre più discussi anche in Asia, sebbene in modi e tempi diversi. In Malaysia un premier è stato condannato due volte per sodomia, eppure ora è al potere e anzi ci è arrivato proprio con una serie di promesse politiche legate anche a questi temi, anche se poi non le ha mantenute. Abbiamo impiegato anni per capire che anche la Cina era cambiata e quando ce ne siamo accorti era già ulteriormente evoluta, e lo stesso vale per altri Paesi asiatici. Gli esempi che ho citato, come quello di una donna ossessionata dalla chirurgia estetica che successivamente ha deciso di combattere contro questa industria e le sue norme, servono a illustrare come anche in contesti che possono sembrare rigidi vi sia una crescente apertura verso nuovi diritti e nuove libertà.

 

Rimanendo sul ruolo dell’istituzione famigliare, in Asia sappiamo essere forse ancora di più rispetto ad altri contesti un tassello fondamentale non solo per lo svolgersi delle dinamiche personali ma anche per la struttura dalla cosa pubblica. In molti contesti nazionali asiatici troviamo ad esempio, in forme leggermente diverse, il registro famigliare (koseki giapponese, l’hukou cinese, hojeok sudcoreano, ecc.) che amministrano tantissimi aspetti della vita pubblica e privata. In che modo, a dispetto di elementi che indicano l’adozione di strumenti e dinamiche moderne, la famiglia, le dinastie, ancora detengono un’importanza strategica?

Simone Pieranni: Quest’estate la Thailandia ha cambiato premier ed è salita al potere Paetongtarn Shinawatra, figlia dell’ex premier Thaksin. In Giappone molti pensano che il favorito per succedere a Fumio Kishida sia Shinjiro Koizumi, anch’egli figlio di un ex premier. Il fenomeno delle dinastie politiche e del nepotismo però non è presente solo in Asia ma è diffuso anche nei Paesi occidentali, dove troviamo molti esempi sia politici che economici, a partire dai Kennedy. La famiglia è sia una forza destabilizzante che un argine al cambiamento: da un lato quelle potenti cercano di perpetuarsi ma cambiano nel tempo, come nel caso dei generi che in Giappone prendono le redini delle aziende dei suoceri come conseguenza dei problemi demografici. In Asia l’istituzione famigliare ha un’importanza che è radicata in tradizioni millenarie e nel libro ho voluto sottolineare questi aspetti della società, meno politici ma essenziali per comprendere come, nonostante siano proiettati verso il futuro, il passato abbia ancora un peso significativo per molti Paesi. Ci sono molti altri aspetti legati alla famiglia che si intrecciano con la politica e che riguardano, ad esempio, la Yakuza in Giappone, colpita anch’essa dalla crisi demografica che ha determinato un drastico calo di nuovi membri.

 

Leggendo il libro, torna alla mente un reel su Instagram dell’anno scorso: mostrava un’auto acclamata dalla folla in Corea del Nord con una gigantesca foto di Kim Jong-Il. La frase diceva, dall’inglese: “Quando fai un selfie da urlo, ma hai bannato Internet nel tuo Paese”. Oltre all’ironia, quel reel evidenziava tre verità: il culto della personalità in Asia; il ruolo degli strumenti digitali nel rafforzarlo; e come questa visione, un po’ anacronistica, si confronta con l’attenzione posta nel libro sull’uso crescente della tecnologia diffusasi in Corea del Nord.

Simone Pieranni: Quando si parla della Corea del Nord il rischio è quello di dare l’impressione che si stia giustificando qualcosa, quando chiaramente non è così perché è chiaro quanto sia un regime autoritario. Tuttavia, viene spesso definito “regno eremita” in una visione anacronistica che non aiuta a comprendere la sua importanza nel contesto internazionale. Fortunatamente, sono già stati pubblicati molti libri di specialisti che parlano dei mercati informali e di come ci sia perfino una classe media nel Paese, mentre io ho dedicato una puntata di Altri Orienti a cercare di spiegare che, nonostante il controllo autoritario, esistono mercati e commerci, anche se con Paesi che non sono noti per il rispetto dei diritti umani. La Corea del Nord, nonostante le sanzioni, non è completamente isolata e ci sono persone che possiedono cellulari e usano Internet, con l’élite nordcoreana che è perfettamente consapevole di ciò che accade nel resto del mondo perché utilizza le VPN, così come fanno anche i cinesi. Esiste una pesante sorveglianza, che però avviene attraverso gli stessi strumenti che utilizziamo anche noi, perché le principali metropoli e i centri di potere asiatici non sono inferiori per capacità tecnologiche ed economiche. Anche il culto della personalità non è una peculiarità solamente asiatica ma rappresenta un problema diffuso, quello della personalizzazione estrema della politica, che riguarda la disintermediazione e la crisi della rappresentatività. In Italia abbiamo avuto al potere Andreotti per decenni, in Germania Merkel ha avuto una carriera politica lunghissima, e quando Berlusconi diceva che il Parlamento era un ostacolo esprimeva un pensiero che molti leader condividono, anche senza ammetterlo apertamente. La nostra attuale Presidente del Consiglio ha smesso di fare conferenze stampa e i media spesso riportano notizie semplificate ed entusiastiche che la riguardano, senza un’analisi approfondita. Spesso i nostri leader criticano quelli autoritari asiatici con un senso di invidia per la loro capacità di agire senza rispondere a una società civile libera di protestare. Considerare la personalizzazione come un fenomeno esclusivo delle società asiatiche – perché le riteniamo culturalmente inclini al culto della personalità e meno mature democraticamente – è tipico di un modello interpretativo orientalista. Quello del culto della personalità può essere letto come un fenomeno conseguente all’evoluzione del sistema dove il capitalismo finanziario è molto rilevante e non necessita di rappresentatività e parlamenti, ma richiede decisioni rapide e porta a risultati politici simili in tutto il mondo, con dinamiche comuni. Le contraddizioni poi ci raccontano che in un Paese che tutti davano su una via autoritaria come l’India, il voto ha dimostrato che ci sono ancora istanze democratiche, che derivano dalla sua identità di società pluralistica dove la volontà nazionalista hindu fatica ad attecchire completamente. Se la rappresentanza popolare attualmente è debole, quando si esprime in modo efficace i risultati possono essere importanti.

  

Come proposta per superare la storica contrapposizione tra il noi e il loro, che è ancora presente con il rischio di un ritorno a uno scontro di civiltà, ha sottolineata come i giovani della generazione definita “MZ” (millennials e generazione Z) siano molto più simili tra loro dal punto di vista globale rispetto alle generazioni passate. Se questo è davvero il secolo asiatico, con l’Occidente in crisi e l’Oriente in ascesa, come è possibile immaginare un futuro punto di incontro basato sui tratti comuni di queste generazioni e non su un ritorno allo “scontro di civiltà”?

Simone Pieranni: Il problema principale riguarda un discorso pubblico in cui è difficile cambiare la narrazione, soprattutto nell’ambito di un sistema informativo che rappresenta il confronto come uno “scontro di civiltà”. Adesso i nemici sono la Cina e in parte l’Asia, in passato lo è stato il Giappone e magari tra cinquant’anni sarà l’Africa. Se ne sapessimo di più, probabilmente adotteremmo lo stesso approccio anche con l’India o con il Vietnam. Ancora non è emerso nel discorso pubblico che la maggior parte dei musulmani al mondo vive in Asia – Indonesia, Pakistan, India, Malaysia e Cina – e spesso si pensa che il Medio Oriente sia una parte del mondo totalmente araba, ma ci vivono anche turchi, ebrei, iraniani. Per cambiare queste narrazioni distorte è necessario uno sforzo politico che sottolinei come non siamo “noi” contro la Cina o l’India, ma lo sono alcuni governi e alcune grandi corporation, che vivono una competizione nel quadro dei processi industriali con la globalizzazione e le sue filiere in fase di mutamento. Lo scopo di questo libro è di dimostrare che siamo nel momento di maggiore vicinanza tra le nuove generazioni in Oriente e Occidente, che stanno attraversando le stesse trasformazioni relative al lavoro, alla vivibilità delle città, all’alimentazione, all’informazione e alla tecnologia. L’invito è quello di costruire ponti facendo entrare questi temi all’interno del discorso pubblico, con uno sforzo divulgativo che porti le persone a scardinare una contrapposizione che nonostante sembri reale, soprattutto quando si parla di democrazia e autoritarismo, riguarda più chi ha il potere che non la società civile. Se adottiamo un approccio che già abbiamo con Paesi come gli Stati Uniti e osserviamo quello che accade all’interno dei vari Paesi, sotto questa patina che fa combaciare i governi con le popolazioni – costruita dalla lente geopolitica – troviamo un mondo che è molto diverso da quello che viene descritto. In Asia sembra che la società non esista e che esistano solo il potere e l’economia, ma non è così. Questa visione può essere superata solo dall’empatia che vede oltre le differenze culturali, per mettersi intellettualmente e politicamente nei panni degli altri fino a percepirne anche il dolore e le speranze. Auspico che il libro rifletta la sensazione che provo quando sono in Asia: ogni volta che capisco qualcosa si apre un nuovo abisso di incertezza che mi spinge a continuare a esplorare.

Scritto da
Giulia Dugar

Assegnista di ricerca e docente a contratto presso l’Università di Bologna. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’ateneo bolognese, incentrando i suoi studi sui fenomeni migratori, con una lente nel dettaglio al contesto asiatico. È stata ricercatrice ospite all’Università di Tokyo ed al momento, parallelamente all’attività accademica, collabora con la Fondazione Leone Moressa di Venezia, think tank dedicato allo studio e divulgazione della dimensione economica dell’immigrazione italiana.

Scritto da
Daniele Molteni

Laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano, lavora come editor e collabora con diverse realtà giornalistiche. È interessato a tematiche riguardanti la filosofia politica, la politica estera, la geoeconomia, i mutamenti sociali e politici e gli effetti della tecnologia sulla società. Ha partecipato al corso 2023 di “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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