Scritto da Francesca Coin
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Pubblichiamo questo contributo di Francesca Coin, rielaborato a partire dall’intervento tenuto al convegno “Economia e politica dopo la catastrofe. L’eredità di Claudio Napoleoni” organizzato il 10 dicembre 2020 dalla Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci. Il convegno ha preso le mosse dall’interesse per la figura complessa e sfaccettata di Claudio Napoleoni, confermata dalla recente riedizione del “Discorso sull’economia politica” a cura di Massimo Amato e Stefano Lucarelli e da articoli e saggi di numerosi altri autori. Ringraziamo Francesca Coin e la Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci per la possibilità di ospitare il contributo.
A questo link Massimo Amato e Gianni Cuperlo in dialogo su Napoleoni; qui il contributo di Massimo Cacciari e sulla lezione di Napoleoni, qui il contributo di Stefano Lucarelli su Napoleoni e “Produzione di merci a mezzo di merci” di Sraffa, qui il contributo di Dominique Saatdjian su Napoleoni e Pasolini: la sinistra di fronte alla tecnica e qui il contributo di Massimo Amato su Napoleoni e Heidegger: un incontro non fortuito.
Vorrei ripartire dal Discorso sull’economia politica per chiedermi che cosa significa tornare all’origine del sovrappiù come suggerisce di fare Napoleoni alla luce delle sue conclusioni all’analisi di Sraffa. Per farlo vorrei riprendere il testo di Carla Ravaioli Tempo da vendere tempo da usare. I perché della riduzione dell’orario di lavoro (1994) che in appendice conteneva un dialogo del 1987 con Claudio Napoleoni. Per farlo vorrei riflettere anche sulla portata teorica di quelli che all’epoca erano, in alcuni casi, mancati incontri, l’incontro con il femminismo marxista e l’incontro con il capitalismo razziale, quella scuola di pensiero che da “marxismo nero” fa capo a Cedric Robinson (1983). Per farlo ho bisogno di partire dalle conclusioni delle relazioni che mi hanno preceduta, in particolare dalla lettura che Napoleoni fa di Sraffa nel Discorso sull’economia Politica. Permettetemi dunque di tornare a Produzione di merci a mezzo di merci di Sraffa, a quella operazione anatomica, come ha scritto Stefano Lucarelli, dalla quale «il corpus teorico marxiano esce dalla sala operatoria privo di un organo vitale: la spiegazione del saggio del profitto come saggio di plusvalore». Come ricordava Stefano Lucarelli, Sraffa si serve di tre successive determinazioni del sistema economico nel suo ragionamento.
«La prima si riferisce a un’economia di sussistenza, senza sovrappiù (S1), la seconda determinazione si riferisce a un’economia con sovrappiù, in cui il lavoro ancora appare soltanto attraverso i mezzi di sussistenza inclusi nell’insieme dei mezzi di produzione (S2); la terza determinazione è un’economia di sovrappiù nella quale il lavoro appare in modo esplicito (S3)» (Lucarelli, 2020: 5).
Se proviamo a guardare l’economia di sussistenza attraverso la lente del femminismo marxista, il ragionamento si complica e per altre strade ci porta alle stesse conclusioni di Napoleoni. Supponiamo che nell’economia di sussistenza prevista da Sraffa ci sia un nucleo famigliare di due persone formato da un uomo e una donna, tra i quali vige la divisione sessuale del lavoro. In questo caso abbiamo un pluslavoro finalizzato alla riproduzione sociale che rimane invisibile. Nella sua analisi di Sraffa, Antonella Picchio in un testo del 2002 titolato emblematicamente Fieno, carote, pane e rose: salario netto e di sussistenza nelle carte dell’archivio di Sraffa, ci aiuta a mettere in relazione il tema del salario con il tema della riproduzione sociale. Come ricorda Picchio, infatti:
«Il salario è l’unico prezzo che è anche un reddito. Esso è costo di riproduzione della merce lavoro, e come tale non rientra nel sovrappiù, ma può essere anche “netto”, vale a dire superare il livello del costo di riproduzione normale, considerato convenzionalmente necessario per mettere chi lavora in grado di farlo e di riprodursi […]. I due paradigmi teorici trattano la duplicità del salario come prezzo e come reddito, come costo di riproduzione e come salario netto o di sovrappiù, in modo molto diverso, tanto diverso da contribuire alla definizione di due metodi analitici diversi. La sussistenza della popolazione lavoratrice è intesa, nelle teorie del sovrappiù classiche, come capitale, in quanto consumo necessario per il sistema di produzione di merci. Come Sraffa ci insegna, il problema è quello di cogliere la differenza tra una carota mangiata dall’asino per poter andare avanti ed una carota mostrata per incentivare a farlo, e quindi tra: ciò che mette in grado (enables) effettivamente i lavoratori di lavorare, costituendo una condizione necessaria, senza la quale la capacità produttiva diminuisce e ciò che costituisce una scelta possibile, per definizione non necessaria» (Picchio, 2002: 3).
Antonella Picchio giustamente riflette sul concetto di salario, osservando come questo, in quanto non rientra nel sovrappiù, sia sia pezzo che reddito, ma sia anche costo di riproduzione sociale, ciò che consente a chi lavora di essere in grado di farlo e di riprodursi. Ma Picchio osserva anche come, «per quanto riguarda gli aspetti reali del processo di riproduzione sociale, i teorici del sovrappiù ne siano per lo più “fuggiti”». Scrive Picchio:
«In questa sede, si cerca di scavare più a fondo nel concetto di sussistenza, dalla precisazione del quale anche i teorici del sovrappiù sono per lo più fuggiti, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti reali del processo di riproduzione sociale, pur avendo collocato questo concetto tra i fondamenti della loro analisi del sistema produttivo, dello scambio e della distribuzione. Riteniamo, infatti, che da questo terreno generalmente si sfugga più per la sua complessità e dinamica che per la sua banalità e costanza. Si tratta di una forma di riluttanza, probabilmente condivisa da Sraffa, di fronte alla difficoltà del problema di definire le condizioni di vita e di riproduzione della popolazione lavoratrice e la loro dinamica. Infatti, tutto ciò che riguarda questo processo è complesso ed intricato. Nelle condizioni materiali e nelle norme convenzionali del vivere agisce un coacervo di spinte dinamiche quali: l’istinto di sopravvivenza e quello di procreazione, le passioni dell’orgoglio e dell’amore di se, i mutamenti dei linguaggi sociali che passano attraverso i consumi e l’uso del tempo quotidiano» (Picchio, 2002: 6).
Picchio osserva come, quando si parla di riproduzione, si chiamino in causa aspetti che vanno ben oltre lo scambio e la distribuzione, aspetti che impongono di riflettere sulla storia e l’antropologia, la cultura e tutti quegli aspetti che, in generale, vanno oltre il primato dell’economico, come ricordava nella sua relazione Roberto Marchionatti. Non è un caso che, ai tempi di Sraffa, il salario “adeguato” in un sistema definito fordista presupponesse «per i lavoratori sindacalizzati delle produzioni di massa, stabilità del posto di lavoro, ed una moglie casalinga». In questo contesto, «la questione della sussistenza dell’intera popolazione lavoratrice si nasconde a livelli più profondi», scrive emblematicamente Picchio, «per quanto riguarda il salario dei lavoratori forti, operai, maschi adulti e capofamiglia», e si sposta in una negoziazione domestica e con lo stato, separata e non sempre istituzionalmente rappresentata, per altre sezioni della popolazione lavoratrice, composta da uomini e donne, con diversi diritti di cittadinanza, che nel mercato del lavoro hanno posizioni e forza contrattuale diversa» (Picchio, 2002: 12). Picchio osserva come il “lavoro domestico”, o lavoro riproduttivo, resti invisibile nell’economia di sussistenza qui ipotizzata, e relegato a una sfera di negoziazione domestica. E infine aggiunge che:
«L’assunzione teorica che la sussistenza è un costo di produzione, rinvia ad altre questioni che richiedono d’essere concettualizzate e specificate nei loro effetti sui costi fisici di riproduzione, ad esempio: come determinare il livello e la composizione del pacchetto di beni? Sussistenza di chi? quale processo di produzione, dei beni e della popolazione? Quale relazione tra individuo/a e società? Quale ruolo dello stato?» (Picchio, 2002: 18).
Per molto tempo il nascondimento del lavoro riproduttivo è stato giustificato dall’idea che fosse improduttivo. Impossibile qui non ricordare le parole di Rosa Luxemburg, che come al solito:
«Fino a quando il capitalismo e il sistema salariale domineranno, il solo tipo di lavoro considerato produttivo sarà quello che produce plusvalore, che crea profitto. Da questo punto di vista, la ballerina di varietà le cui gambe portano profitto nelle tasche dell’impresario è un lavoratore produttivo, mentre tutta la fatica delle donne e madri proletarie fra le quattro mura domestiche è considerata improduttiva. Ciò suona brutale e folle, ma corrisponde esattamente alla brutalità e alla insensatezza della nostra attuale economia capitalistica. E cogliere chiaramente e nettamente questa brutale realtà è il primo compito della donna proletaria» (Luxemburg, 2015: 102).
Il femminismo marxista, da Selma James e Maria Rosa Dalla Costa a Silvia Federici, a sua volta criticava la definizione di “improduttivo” che veniva data al lavoro riproduttivo. Potremmo dire che esiste qui a tutti gli effetti un lavoro produttivo – un pluslavoro – che non diventa plusvalore se non in modo indiretto, attraverso la (ri)produzione di un lavoratore, che poi “direttamente” diventerà il tramite unico attraverso il quale la domanda di lei – della donna che lo riproduce – potrà accedere al mercato. Qui abbiamo una forma di produzione pre-capitalistica che si fonda sulla dipendenza personale che è stata ignorata per secoli e che sussiste ancora oggi a lato di forme di servitù moderna. L’esistenza di queste sacche di lavoro riproduttivo non remunerato dentro l’economia attuale non rimandano, per tornare al nostro tema, necessariamente a una produzione di merci a mezzo di merci. In una situazione di tipo fordista, tuttavia, se pensiamo il lavoro come una merce prodotta dal lavoro domestico, come suggeriva di fare il femminismo marxista, ci troviamo di fronte a un problema teorico di difficile soluzione. Se, infatti, il lavoro serve alla (ri)produzione della forza lavoro e siamo colti, ricardianamente, dalla necessità di determinare il “valore del lavoro contenuto in questa merce che è il lavoro”, ci troviamo di fronte a una specie di arcano. Scrive Napoleoni nel commento al capitolo sesto inedito del Capitale di Marx:
«nella teoria di Ricardo c’è un punto debole che la compromette gravemente. il punto è questo, poiché nelle condizioni capitalistiche anche il lavoro è una merce, e quindi anche il lavoro possiede un valore, occorrerà determinare cosa sia il valore del lavoro, alla stregua della teoria ricardiana bisognerà rispondere che il valore del lavoro è il lavoro contenuto nel lavoro, ma, in questo modo, ci si chiude in un evidente circolo vizioso» (Napoleoni, 1972: 17).
Questo circolo vizioso, dietro il quale si cela l’inestricabile interdipendenza dell’attività umana, dice precisamente che il lavoro riproduttivo e domestico delle donne è contenuto nella merce lavoro venduta per un salario e che attraverso quella (indirettamente) viene remunerato. Ora, se noi prendessimo sul serio questo “indirettamente”, ci troveremmo in una situazione tale per cui quantificare il valore del lavoro domestico contenuto nella merce lavoro (i 2,5 miliardi di ore di lavoro non retribuito il cui valore Oxfam stima essere di 10,8 mila miliardi di dollari l’anno[1]) rimanda alle stesse difficoltà che incontriamo quando tentiamo di quantificare il valore del lavoro contenuto nei mezzi di produzione, perché il lavoro domestico nell’accezione del femminismo marxista è ciò che produce la “forza lavoro” come mezzo di produzione. Siamo dunque di fronte sì a un circolo vizioso ma questo circolo vizioso ci ammonisce sul metodo, perché se noi inseriamo la variabile riproduttiva nell’analisi dell’economia di sussistenza tutto diventa complicato al limite dell’insensatezza. Potremmo infatti parafrasare Napoleoni quando dice che se «in ogni merce la quantità di lavoro in esse contenuta si divide in tre parti: quella diretta dei mezzi di produzione (capitale costante, per Marx) quella diretta contenuta nei beni salario (capitale variabile) e quella diretta contenuta nel plusvalore (profitto)» (Napoleoni, 1972: 17). Se dovessimo, cioè, inserire qui il lavoro domestico per determinare la quantità di lavoro domestico contenuta nei beni salario e nel plusvalore, ci troveremmo in una situazione di regressus ad ìnfinitum, un processo che, nel ricercare la causa prima dell’addizione di sovrappiù che il lavoro domestico consente, impone una regressione all’infinito che rende indefinita l’operazione e con essa problematico il metodo. Il che è precisamente ciò che Napoleoni osserva quando, nel Discorso sull’economia politica, torna a porsi il problema dell’alienazione, e cioè quando dice che il modello di Sraffa, e cioè la
«assunzione di una configurazione produttiva includente il sovrappiù […] non implica niente circa l’origine, il modello di formazione di sovrappiù rimane – dopo Sraffa – appunto la questione dell’origine: la questione cioè del perché un sistema economico non è in ‘puro stato reintegrativo’ ma contiene un’eccedenza rispetto a quello stato» (Napoleoni, 2019: 81).
Per tornare a Napoleoni, il problema non è esclusivamente la giustizia redistribuiva sulla base del lavoro erogato, bensì la sua origine, la ragione per cui esistono forme di violenza estrattiva, nella società contemporanea, sacche di gratuità legittime e invisibili agli occhi perché normalizzate e ovvie. Per certi versi, il problema è anche qui che i rapporti di forza che vivono nel nucleo domestico non possono essere risolti a livello redistributivo, ma richiedono di riconoscere quei fattori storico culturali e antropologici, oltre che economici, che stanno all’origine della gerarchia sociale che storicamente ha segnato il primato dell’uomo sulla donna, del bianco sul nero e sulle minoranze razziali. E qui vorrei venire al dialogo tra Napoleoni e Ravaioli che citavo all’inizio, il dialogo che fa da post-fazione al testo di Carla Ravaioli Tempo da vendere tempo da usare. I perché della riduzione dell’orario di lavoro, perché la lettura di quel dialogo oggi fa emergere una serie di questioni e sentimenti contrastanti. Da un lato, la lungimiranza di chi vedeva un mondo cambiare in alcune direzioni fondamentali e dall’altra per dei problemi che la stessa visione pone. Torniamo al testo di Ravaioli, dunque, perché in quel testo Napoleoni sollecitato da Ravaioli osservava la portata della seconda rivoluzione industriale e come le innovazioni introdotte negli ultimi due secoli avessero dato luogo ad aumenti della produttività senza precedenti e contemporaneamente a una riduzione della domanda di lavoro. Ravaioli poneva il problema se vogliamo della “disoccupazione tecnologica” e della “redistribuzione del lavoro non automatizzabile tra i cittadini in età attiva”, lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti”. Era un ragionamento interessante perché rivelava un orizzonte politico ampiamente condiviso oggi, caratterizzato da tre elementi fondamentali: la necessità di utilizzare il progresso tecnologico per la riduzione dell’orario di lavoro: la finalità che all’epoca veniva riassunta dallo slogan “lavorare meno, lavorare tutti”, utilizzando la liberazione dal lavoro come prospettiva per l’uscita dal capitalismo; 2. la necessità di ripensare il rapporto con l’ambiente all’esterno di una relazione di dominio come quella che ha caratterizzato il colonialismo e il capitalismo industriale; 3. il tema del femminismo, ovvero la necessità di ripensare il rapporto con la tecnica anche per ripensare il rapporto tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, assicurando la redistribuzione del lavoro riproduttivo lungo la linea di genere.
Ma precisamente la redistribuzione del lavoro produttivo lungo la linea di genere rappresenta la forza e il limite di quel testo, perché la speranza di risolvere in un orizzonte re-distributivo l’asimmetria di lavoro erogata lungo la linea di genere dentro il contesto domestico ci riporta per altre vie al problema di prima, salvo che ciò che viene redistribuito non è più il valore del lavoro ma il tempo di lavoro, cosa difficile nei limiti in cui non comprendiamo prima per quali ragioni l’asimmetria nella divisione del lavoro domestico sia mai esistita. E questo ci porta ancora una volta al problema principale e cioè al problema dell’alienazione. Se volessimo cogliere l’invito di Napoleoni di tornare all’alienazione, e cioè a ciò che consente di essere agiti da priorità altre che si estrinsecano attraverso la nostra esistenza, bisognerebbe cercare di capire come il lavoro viene anzitutto estratto dal corpo del lavoratore, violentemente e legittimamente a un tempo. E qui tornano utili più che mai il dibattito femminista e il dibattito sul capitalismo razziale, perché c’è da dire che in quegli anni, mentre la teoria marxiana faceva i conti con la teoria ortodossa, dagli abissi della storia gli ultimi facevano i conti con Marx. E qui le femministe hanno molto da dire:
Per Silvia Federici:
«Il salario dà l’impressione di uno scambio equo: tu lavori e vieni pagato, quindi tu e il tuo padrone siete uguali. Mentre in realtà il salario, invece di pagare per il lavoro che fai, nasconde tutto il lavoro non pagato che si traduce in profitto per il padrone. Ma il salario almeno riconosce che sei un lavoratore, e puoi contrattare e lottare contro i termini e la quantità di quel salario e di quel lavoro» (Federici, 76: 6).
E poi:
«Ma nel caso del lavoro domestico la situazione è qualitativamente diversa. La differenza sta nel fatto che non solo i lavori domestici sono stati imposti alle donne, ma sono stati trasformati in un attributo naturale del nostro corpo e della nostra personalità femminile, un bisogno interiore, un’aspirazione, che si suppone provenga dalla profondità del nostro carattere. Il lavoro domestico doveva essere trasformato in un attributo naturale piuttosto che essere riconosciuto come un contratto sociale, perché fin dall’inizio del progetto del capitale per le donne questo lavoro era destinato ad essere non retribuito. Il capitale ha dovuto convincerci che è un’attività naturale, inevitabile e persino appagante, per farci accettare il nostro lavoro non retribuito» (Federici, 76: 6).
Per Federici, il lavoro domestico doveva essere trasformato in un attributo naturale della donna per essere non pagato, in altre parole doveva essere presentato come non-lavoro. Ecco quindi il lavoro divenire amore, femminilità, caratteristica inscindibile della soggettività della donna al punto che l’esistenza di quest’ultima diveniva illegittima laddove non fosse docile, subalterna, dipendente e pronta a sacrificare se stessa con piacere. Il femminismo marxista e il marxismo nero hanno criticato aspramente Marx per aver tirato una linea divisoria tra le forme di sfruttamento precapitalistiche e quelle odierne, come se vigesse tra le due una differenza qualitativa e come se il capitalismo potesse portare con sé l’emancipazione delle forze produttive. Questo è un abbaglio che è stato a lungo aspramente, e comprensibilmente, criticato. Ma se prendiamo sul serio il suggerimento di Napoleoni di spiegare ciò che l’economia politica presuppone, e quindi, per riprendere ciò che scriveva Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, la necessità di tornare al fondamento di quella “divisione di capitale e lavoro, di capitale e terra”, ecco che spiegare la divisione del lavoro lungo la linea del genere e del colore diventa indispensabile.
Non è un caso che, in questi anni, il femminismo marxista e il marxismo nero, abbiano portato a galla precisamente quelle forme di svalorizzazione ontologica che sono precondizioni di sfruttamento, e solo grazie alle quali l’estrazione violenta di lavoro gratuito diventa un’operazione a un tempo legittima e invisibile. Renderle manifeste è tanto più importante oggi, quanto più proliferano quelle forme di esistenza del lavoro gratuito che ha citato Stefano Lucarelli, dal lavoro cosiddetto “utile” dei rifugiati al lavoro sessuale, domestico e razzializzato, in cui la svalorizzazione del lavoro si nasconde nella svalorizzazione ontologica del soggetto che lo eroga, in una naturalizzione della gratuità da cui, come diceva Antonella Picchio, l’analisi economica fugge.
In questo senso il suggerimento di Napoleoni di tornare all’origine è prezioso e può essere inteso come un invito a rendere manifeste le condizioni sociali culturali e antropologiche su cui poggia l’estrazione di sovrappiù, disvelando una violenza estrattiva sistematicamente celata dall’illusione di una gerarchia “naturale” che abbiamo omesso di mettere in discussione per troppo tempo.
[1] P. Espinoza Revollo, Avere Cura Di Noi: Nota metodologica, Oxfam, 2020.
Bibliografia