Eleggere il presidente degli Stati Uniti. Intervista a Gianluca Passarelli
- 12 Novembre 2024

Eleggere il presidente degli Stati Uniti. Intervista a Gianluca Passarelli

Scritto da Giulio Pignatti

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In un anno di molteplici elezioni chiave a livello globale, quella forse più attesa si è svolta martedì 5 novembre e ha visto chiamati alle urne circa 250 milioni di americani. Le elezioni negli Stati Uniti sono un procedimento complesso, talvolta di difficile comprensione, che comporta una ritualità con due secoli e mezzo di storia. Gianluca Passarelli e Francesco Clementi hanno ripercorso la storia e le caratteristiche del sistema elettorale americano, nonché i contorni della funzione al vertice della democrazia statunitense, nel loro libro Eleggere il Presidente. Gli Stati Uniti da Roosevelt a oggi (Marsilio), alla terza edizione nel 2024. Per approfondire il voto che ha portato alla nomina di Donald Trump come 47º presidente degli Stati Uniti d’America, abbiamo intervistato Gianluca Passarelli, professore ordinario di Scienza politica presso “Sapienza” Università di Roma. Passarelli si occupa di sistemi elettorali, presidenti della Repubblica, comportamento di voto e partiti; collabora con alcune testate italiane e i suoi ultimi libri sono Stati Uniti d’Europa. Un’epopea a dodici stelle (Egea 2024) e Il Presidente della Repubblica in Italia (Giappichelli 2022).


Nell’immaginario collettivo il presidente degli Stati Uniti d’America è raffigurato come l’uomo più potente al mondo, con in mano – nel bene e nel male – i destini collettivi. La realtà è che si tratta di un’istituzione inserita in una fitta rete di “checks and balances”, di contrappesi e limitazioni. Come nasce questa istituzione e quali sono i suoi effettivi poteri?

Gianluca Passarelli: All’origine della funzione della presidenza degli Stati Uniti ci sono un aspetto culturale e uno istituzionale che si intrecciano. I padri fondatori degli Stati Uniti d’America scappavano dalla tirannia del monarca britannico Giorgio III, e quindi la loro ossessione era quella di evitare una nuova concentrazione di potere. Infatti, in origine la figura del presidente non è presente nei lavori costituzionali – si parla piuttosto di un chairman –, ma compare più avanti. È qui che si intreccia la dimensione culturale, ben rappresentata da quanto scrisse James Madison, l’idea cioè di «contrapporre a un’ambizione un’altra ambizione». I padri fondatori sono protestanti, sono meno ipocriti dei cattolici europei: sanno che l’essere umano è corruttibile e ambizioso. Per tutelare le istituzioni dall’eccesso di un’ambizione, quella del presidente, bisogna bilanciarla con un’altra ambizione; non è sufficiente la soluzione europea, che consiste nel moltiplicare le regole e le procedure. Ecco, dunque, l’origine culturale del sistema istituzionale di controbilanciamenti, in cui le varie funzioni e personalità apicali si limitano vicendevolmente. Si pensi all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021: Donald Trump, che ha di fatto avallato un tentativo di colpo di Stato, viene bloccato da altre istituzioni, addirittura dal suo vicepresidente Mike Pence. C’è dunque l’elemento istituzionale che interviene a bilanciare il potere politico: ad esempio i giudici sono nominati a vita, il che consente loro di avere indipendenza da chi li nomina, poiché la loro permanenza in carica non dipende dalla politica. C’è un sistematico ribilanciamento anche per quanto riguarda le elezioni al Congresso: tra due anni si rinnova un terzo del Senato e tutta la Camera; quindi, il presidente eletto potrebbe perdere la maggioranza già tra due anni. Dall’altra parte, chiaramente, il presidente degli Stati Uniti rimane il presidente degli Stati Uniti, a capo della maggiore potenza economica e militare al mondo. Abraham Lincoln diceva: «Io sono presidente e ho dei poteri tremendi». Però pensare che il presidente sia onnipotente, che abbia sulla scrivania il “tasto rosso” hollywoodiano, questa è appunto una costruzione cinematografica. A proposito di guerra, ad esempio, il presidente non può dichiararla, questo potere è attribuito dalla Costituzione al Congresso.

 

Come diceva, il presidente degli Stati Uniti è una figura costituzionalmente non ben definita, che emerge dai dibattiti all’origine della Repubblica federale in maniera progressiva. Quali esigenze hanno prevalso in questi dibattiti e come si è delineato progressivamente il ruolo del presidente? Storicamente, poi, quali sono stati i principali punti di svolta nell’interpretazione di questa funzione?

Gianluca Passarelli: Nel dibattito costituente, come anticipato, la figura del presidente è assente; si parla semplicemente di una figura che coordini i lavori delle assemblee. Nelle discussioni della Convenzione di Filadelfia (1787), ci si vuole infatti tenere il più possibile a distanza dalla figura del monarca. Tuttavia, ci si rende presto conto della necessità di avere una gestione del potere esecutivo. Il primo cambiamento, in realtà, si ha già con il fatto che viene eletto a presiedere la Convenzione George Washington, un personaggio carismatico, generale ed eroe dell’Indipendenza. Queste sue caratteristiche personali imprimono una torsione verso un assetto che vede una presidenza più protagonista. Sempre Washington compie un gesto importante: viene eletto (indirettamente e all’unanimità: ciascun elettore poteva votare per il presidente e per il vice e Washington ottenne il voto di tutti gli elettori) due volte ma non corre per il terzo mandato. Si tratta di una convenzione che verrà seguita da tutti i presidenti, fino al 1932 con Franklin Delano Roosevelt. Roosevelt viene eletto quattro volte, decidendo quindi di non seguire la consuetudine cominciata con Washington; solo allora, quindi, interviene una revisione costituzionale a introdurre il limite assoluto dei due mandati (col XXII emendamento, approvato nel 1947 e ratificato nel 1951, in tempo per le presidenziali dell’anno successivo). Sono anche altri gli aspetti della presidenza che si delineano progressivamente. Alcuni passaggi storici derivano da elementi politici ed elettorali, ad esempio dalla presenza di “governo diviso”, cioè di maggioranze politiche non coerenti tra presidenza e Congresso. Questo fa allontanare da una concentrazione di poteri nelle mani del presidente, da quella che Arthur Schlesinger definì, in riferimento a Richard Nixon, “presidenza imperiale”. In generale, soprattutto negli ultimi decenni, la tendenza è quella di un allontanamento dalla presidenza più equilibrata prevista dai padri fondatori. Questo mutamento è evidente, ad esempio, in merito ai poteri relativi alla guerra. Come dicevamo, formalmente è il Congresso che ha il potere di dichiarare lo stato di guerra; però, in seguito all’attacco a Pearl Harbor e con la dichiarazione di guerra al Giappone vediamo una spinta molto forte da parte del presidente Roosevelt. Questa tendenza prosegue durante la Guerra Fredda, con un’immagine del presidente come “commander-in-chief” che emerge sempre più. Addirittura, Dwight Eisenhower, generale durante la Seconda guerra mondiale, arrivò a raccomandarsi di prestare attenzione al rischio del prevalere del complesso industriale militare, cioè – diremmo oggi – all’influenza della lobby delle armi. Ci sono dunque vari passaggi, formali e informali, che vanno nella direzione di una figura del presidente più forte e accentrata, fino all’esito trumpiano. Rimane il fatto che negli Stati Uniti il presidente è l’esecutivo, non è un primum inter pares, è al di sopra dei suoi ministri (i segretari), che può nominare e rimuovere, a differenza di quanto accade ad esempio in Italia. Tuttavia – altro bilanciamento – il presidente deve avere l’approvazione del Senato per la nomina di un segretario.

 

Qual è lo stato attuale delle istituzioni deputate ai checks and balances, al culmine di un tale processo di accentramento e rafforzamento del potere del presidente degli Stati Uniti?

Gianluca Passarelli: Il rischio è che la rete di controbilanciamenti si stia progressivamente usurando, per una serie di ragioni: innanzitutto a causa della polarizzazione costante, della crescente presenza di episodi di violenza politica fino a una vera e propria criminalizzazione dell’avversario politico. Da questo punto di vista, la campagna elettorale di Kamala Harris e Donald Trump ha dato dei segnali inquietanti, provenienti da entrambe le parti, ovviamente in misura diversa in intensità. Trump è arrivato a dire che qualora avesse dovuto perdere non avrebbe accettato il verdetto («ci sarà un bagno di sangue», ha affermato): non si tratta solo di un’uscita di un personaggio sopra le righe, bensì dell’epifenomeno di una polarizzazione che dalla fine degli anni Ottanta è cresciuta molto. Si può arrivare a parlare di “segregazione politica”: ci sono quartieri in cui vivono solo democratici e altri di soli repubblicani. Le contee dove la distanza elettorale tra democratici e repubblicani è superiore al 20% sono la maggioranza. Se non si incontra mai un altro da sé, lo si demonizza. Si discute tanto di “swing states”, ma in realtà si dovrebbe parlare di “swing counties”: sono una ventina le contee dove il risultato può variare (e di poco); il resto è già deciso. Senza cambiamenti demografici e politici rilevanti, la California sarà sempre democratica, il Texas sempre repubblicano.

 

A proposito della polarizzazione, uno dei fattori di tensione in relazione alle elezioni presidenziali è rappresentato da una legge elettorale abbastanza complicata, che fa sì che possa vincere anche chi ha preso la parte minore di voti popolari (come fu il caso di Donald Trump nel 2016 contro Hillary Clinton). Come funziona il sistema elettorale e qual è la sua ratio?

Gianluca Passarelli: Il sistema elettorale perfetto non esiste, dipende sempre dalle esigenze a cui si va incontro nel disegnarlo. I padri costituenti costruiscono il particolare sistema elettorale statunitense avendo come principio il motto degli Stati Uniti, “ex pluribus unum”, il cui senso è quello dello stare insieme ma essendo in tanti e diversi, ognuno con la propria autonomia. Così, anche nel sistema elettorale si vuole assicurare che nessuno prevalga sull’altro. La California ha quasi 40 milioni di abitanti sui 330 milioni totali: in assenza di bilanciamenti, il voto dei californiani – che in grande maggioranza votano democratico – varrebbe più di quello degli altri Stati più piccoli. Bisognava quindi trovare il modo di attribuire un valore a ciascun territorio. Nel Congresso, il numero di deputati viene stabilito sulla base del censimento, purché nessuno abbia meno di tre deputati. Al Senato invece ciascuno Stato ha lo stesso numero di senatori, cioè due. La California ha dunque tanti senatori quanti quelli dell’Alaska, che conta solo 700.000 abitanti. Ecco, insomma, perché si congegna il collegio dei “Grandi elettori”, composto da delegati dei partiti, in un numero pari alla somma di senatori e deputati per quello Stato (per un totale di 538). Ne discende che per vincere non si deve ottenere un numero di voti popolari maggiore, ma si fa riferimento al numero di Grandi elettori ottenuti. Per questo motivo, stravincere nelle zone in cui si è forti non basta. Questo aiuta chi è più forte a livello nazionale, in maniera diffusa, e non chi è forte solo in determinate zone. Effettivamente Clinton nel 2016 vinse in termini di voti popolari, e con più di 3 milioni di elettori di distacco, rispetto a Trump. Prese molti voti ad esempio in California, ma perdette di pochi voti in Pennsylvania, uno dei cosiddetti “swing states”. L’importante non è vincere il voto popolare, ma arrivare al “numero magico” dei 270 Grandi elettori. Lo stesso accadde nel 2000, quando George W. Bush perdette in termini di voti popolari ma vinse in termini di Grandi elettori contro Al Gore, vicepresidente uscente di Bill Clinton. Ci sono stati dibattiti su un’eventuale riforma del collegio elettorale negli Stati Uniti, ma comunque la ratio dietro a questo sistema apparentemente bizzarro c’è, ed è chiaro l’obiettivo.

 

Il ruolo dei finanziamenti è fondamentale nella campagna elettorale negli Stati Uniti ed è del tutto diverso dal sistema europeo, perché si basa interamente sul coinvolgimento di soggetti privati. Come funziona? A quali rischi espone?

Gianluca Passarelli: I meccanismi di finanziamento sono regolati nella loro sregolatezza. Negli Stati Uniti c’è una legge sul finanziamento pubblico, che però fissa un tetto massimo. Se il candidato sceglie di ricevere il finanziamento pubblico, deve accettare di limitare le spese entro un confine stabilito dalla legge. Se decide invece di non accettare il finanziamento pubblico, può avere un numero di finanziatori privati sostanzialmente senza limite. Il primo a rinunciare al finanziamento pubblico per poter continuare la propria campagna senza limiti finanziari è stato Barack Obama nel 2008. È stato un passaggio storico, che gli ha permesso di imbastire una campagna senza precedenti. Nel 2020 la campagna elettorale nel complesso, tra Democratici e Repubblicani, ha visto una spesa di 2,4 miliardi di dollari. Il 2024 si attesta sulla stessa grandezza. C’è chiaramente un problema. In primo luogo, in un sistema così concepito c’è un restringimento del campo di chi può effettivamente permettersi di partecipare a una campagna elettorale – una scrematura basata sul censo. In secondo luogo, ciò vuol dire esporsi a finanziatori privati, seppur dichiarati, a cui a un certo punto si dovrà rendere conto. Legato a questo, c’è inoltre il problema dell’accesso alle fonti di informazione, situazione che in Europa è ben più regolamentata. Il pericolo per la democrazia oggi non è tanto Trump, ma Elon Musk, che è il possessore di un canale d’informazione entro il quale decide cosa pubblicare e al tempo stesso è uno dei principali finanziatori e supporter di Trump. Altro che complesso industriale militare di cui parlava Eisenhower: qui siamo di fronte a una deriva legata al finanziamento delle campagne elettorali, e non solo quelle per correre come presidente, ma anche quelle ai livelli inferiori.

 

Lei ha scritto anche un libro sull’Unione Europea, Stati Uniti d’Europa (Egea 2024). L’UE dovrebbe guardare oltreoceano, all’impalcatura costituzionale e concettuale delle istituzioni statunitensi, per procedere nel progetto comunitario?

Gianluca Passarelli: “Stati Uniti d’Europa” non significa che sia necessario copiare gli USA. L’Europa ha una storia diversa, innanzitutto perché gli Stati sono degli Stati veri, con una propria tradizione, una propria lingua, un proprio esercito. Ci sono però degli elementi di similitudine, da cui l’Unione Europea può apprendere. Ad esempio, l’elezione popolare diretta dell’esecutivo potrebbe rafforzare le istituzioni europee. O ancora, l’istituzione di una seconda camera potrebbe rappresentare una spinta di rappresentanza dei territori, ispirandosi al Senato statunitense. Si avrebbe una camera bassa più politica e una alta a rappresentare in maniera uguale tutti i Paesi (o magari anche con rappresentanti delle grandi città, viste le peculiarità dell’Europa).

 

Quale scenario apre l’elezione di Donald Trump come 47º presidente degli Stati Uniti? In che modo verrà interpretata la funzione di presidente da Trump?

Gianluca Passarelli: Donald Trump ha vinto in termini di voti popolari – e non succedeva ai Repubblicani dal 2004 – e nel collegio dei Grandi elettori. È giunto in testa negli swing states e ha incrinato la cinta del cosiddetto blue wall, delle aree a maggiore insediamento democratico. I Repubblicani controllano il Senato e la Camera e questo ha fatto aumentare le preoccupazioni circa il possibile operato di Trump. Ma, al netto di timori basati sul pregresso dell’azione trumpiana, credo che ci voglia maggiore calma e freddezza nell’analizzare le possibili linee di azione del 47° presidente, almeno quelle istituzionali e costituzionali. Intanto, anche Trump dovrà negoziare con il “suo” partito in entrambi i rami del parlamento, posto che il presidente non ha un potere di iniziativa legislativa. Inoltre, i deputati alla Camera espressione di collegi “in bilico” tenderanno a evitare norme eccessivamente di parte, per non rischiare di alienarsi una parte di elettori “centrali” che tra due anni dovranno rinnovargli la fiducia. Qualcosa di analogo, anche se in misura minore, avverrà per un terzo dei senatori che tra due anni saranno in scadenza del loro mandato. Anche la Corte Suprema federale, per quanto orientata politicamente sul versante conservatore (sei giudici contro tre) difficilmente sarà soltanto il megafono giuridico della Casa Bianca. Sulla politica estera, poi, per quanto Trump sia in effetti “libero” di dettare l’agenda diplomatica, dovrà tenere, nei fatti, conto degli alleati, della NATO in primis. Sono molti i fronti in cui gli Stati Uniti sono impegnati e devono evitare di esporsi da soli troppo. Inoltre, il presidente non potrà più essere rieletto e avrà quasi ottant’anni; è perciò plausibile (o forse auspicabile) che tenterà di “entrare nella storia” evitando di passare alla cronaca solo per azioni deprecabili. Potrebbe cioè mostrare un lato cooperativo, unificante e dialogante. Molto dipenderà dalla postura che i Democratici e la loro leadership (quale?) metteranno in campo per preparare la sfida del 2028. La vera risposta a Trump dovrebbe però arrivare dall’Unione Europea, in cui silenzio della troppo tattica Ursula von der Leyen rischia di depotenziare il progetto federalista. Ancora una volta sono i singoli Stati a intervenire, come ha confermato il presidente Emmanuel Macron dichiarando che se l’Europa non reagisce verrà mangiata da Cina e Stati Uniti. La risposta sono gli Stati Uniti d’Europa.

Scritto da
Giulio Pignatti

Dottorando di ricerca in Filosofia politica all’Università di Padova, dove si è laureato, e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Collabora con una testata giornalistica locale ed è stato alunno del corso 2023 della Scuola di Politiche. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia dei concetti politici moderni e la tradizione sociologica francese. È autore di “L’opinione dei moderni. Scienza sociale, critica e politica in Durkheim” edito nel 2024 nella collana “Critica Sociologica” di Castelvecchi Editore.

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