Gino Giugni teorico della democrazia industriale
- 20 Gennaio 2020

Gino Giugni teorico della democrazia industriale

Scritto da Mattia Gambilonghi

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Questo contributo che verte su Gino Giugni come teorico della democrazia industriale, rielabora e riprende l’articolo “La partecipazione conflittuale” pubblicato sul numero cartaceo di Mondoperaio del novembre/dicembre 2019, nel quadro di un monografico dedicato alla figura di Giugni nel decennale della scomparsa.


La democrazia industriale nella tradizione italiana: conflittualità, negoziazione e gestione esterna

Se si volesse individuare la figura che, nel contesto dei turbolenti anni Settanta, più di tutti e nella maniera più organica e sistematica si è spesa per un lavoro intellettuale di lungo periodo, finalizzato a dotare l’area del socialismo italiano di una propria autonoma elaborazione in materia di democrazia industriale e di partecipazione operaia ai meccanismi decisionali delle imprese, è senza alcun dubbio a Gino Giugni che bisognerebbe guardare. Nell’ambito di quella è che stata definita la ricomposizione libertaria del Psi, promossa dal nuovo corso di Bettino Craxi e finalizzata ad affermare l’indipendenza e l’originalità culturale del socialismo italiano, il “padre dello Statuto dei lavoratori” coprirà sul versante delle politiche sindacali e del lavoro l’azione di rinnovamento e di differenziazione promossa dal neo-segretario socialista.

I dibattiti che a partire dal ‘74 esprimono la volontà della rivista Mondoperaio di interrogare l’area socialista circa gli effetti di un’eventuale omologazione – sollecitata a livello CEE, del sistema italiano di democrazia industriale e sindacale al modello tedesco della Mitbestimmung –, vedono non a caso la direzione e il coordinamento dello stesso Giugni, giuslavorista di punta del Psi.

I suoi interventi lasciano trasparire sin da subito la preferenza che egli accorda – sia per ragioni politico-ideologiche di fondo, che per il rifiuto di una modellistica astratta e avulsa dalle condizioni e dalle specificità delle tradizioni sindacali nazionali – a quello che definisce il “modello italiano di democrazia industriale”, i cui elementi distintivi potrebbero essere individuati, in primis, nella centralità occupata al suo interno dalla dimensione della contrattazione, qualificando così quello italiano come un modello imperniato sul single channel, ossia su un canale di natura sindacale che agisce esternamente agli organi del governo societario dell’impresa; secondariamente, nell’autonomia delle parti sociali, non prevedendo forme di limitazione del diritto di sciopero, pur nel quadro di un esercizio responsabile della conflittualità sociale; e in terzo luogo, nella connessione e nella dialettica che, rifuggendo da chiusure aziendalistiche, dovrebbe instaurarsi tra il livello aziendale della contrattazione e le principali sedi del governo dell’economia e di determinazione degli investimenti. La specificità di questo modello potrebbe insomma essere rinvenuta, da un lato, nel rifiuto operato nei confronti dell’ipotesi cogestionaria di stampo tedesco, volta all’inclusione dei lavoratori e dei loro rappresentanti nelle “stanze dei bottoni” interne all’impresa, e dall’altro nella prospettiva di una partecipazione conflittuale che punti all’estensione della contrattazione collettiva alla «area delle prerogative manageriali». Giugni risulta mosso in questa fase dalla convinzione per cui il ruolo centrale che la classe operaia è venuta ad assumere ponga in maniera ineludibile il problema del suo «ruolo egemonico nel sistema di potere che gestisce il processo produttivo»: la «domanda di potere economico» che è venuta emergendo attraverso l’esperienza dei consigli di fabbrica non solo ne è la conferma, ma spinge a superare positivamente quel ruolo di mero «contropotere aziendale»[1] esercitato fino ad allora dal sindacato e dalle rappresentanze operaie. L’esperienza tedesca e la prospettiva cogestionaria che di questa è diretta emanazione non possono a suo parere rispondere pienamente a questa esigenza di controllo globale, in quanto la Mitbestimmung risulterebbe «permeata di concezioni collaborative»[2], finalizzata ad una «lottizzazione tra sfera economica e sfera sociale […] tra borghesia produttiva e classe operaia»[3], e proprio per questo incapace di produrre un reale mutamento di egemonia sociale.

Gino Giugni

Al tempo stesso, Giugni si mostra scettico circa l’efficacia e l’adattabilità al contesto italiano tanto dei progetti delle socialdemocrazie scandinave, ruotanti intorno al progressivo trasferimento del titolo di proprietà nelle mani di un soggetto collettivo di natura sindacale, quanto delle forme di autogestione organizzativa, anche dette shop floor democracy. Rispetto ai primi, da un lato contesta l’equazione proprietà=controllo, negando che una mera trasformazione della proprietà (si pensi alle nazionalizzazioni) possa automaticamente coincidere con l’immissione o l’influenza nei processi decisionali dell’apparato produttivo e delle imprese che lo compongono. Dall’altro, pur ritenendo sensato il rilievo di Federico Mancini circa le ricadute positive che una scansione programmata del processo di trasformazione degli assetti proprietari (uno degli elementi chiave del progetto dei “Fondi dei salariati” elaborato da Meidner e dalla LO svedese) potrebbe produrre nei riguardi delle aspettative degli attori economici e del governo delle variabili indipendenti[4], il giuslavorista socialista è portato a chiedersi se si è davvero esaurito storicamente il ruolo dell’imprenditore-innovatore, o se non si tratti, piuttosto, di rideclinarne in senso sociale la funzione, limitandola e influenzandola?[5] Per quanto riguarda invece le forme di shop floor democracy, la criticità di Giugni circa lo schiacciamento su di esse del concetto di democrazia industriale è dovuto alla constatazione che il loro fine risiederebbe più nella rottura dei sistemi tayloristici di organizzazione del lavoro, che non nella socializzazione della funzione imprenditoriale, non intaccando dunque le finalità e gli obiettivi del processo produttivo[6]. A parere di Giugni infatti, per non risolversi in una mera «ricomposizione tutta a favore del management»[7], l’aspirazione ad una progressiva “umanizzazione del lavoro”, sottesa a queste forme di autogestione organizzativa, dovrebbe saldarsi con la piena coscienza della necessità di sviluppare i concetti di autogestione e controllo operaio fino alle loro estreme conseguenze, andando cioè oltre il solo nodo della divisione tecnica del lavoro e superando, perciò, i limiti angusti della dimensione della catena di montaggio.

 

Globalità o aziendalismo? La partecipazione conflittuale e il governo dell’economia

Al contrario, la “partecipazione conflittuale” propugnata dalla tradizione sindacale italiana, oltre a rifiutare logiche compromissorie tra lavoratori e proprietà – passibili di derive integrazioniste e corporative – avrebbe dalla sua il fatto di non limitare il movimento operaio alla ristretta prospettiva di azienda, ma di indicargli una prospettiva più larga e in grado di considerare unitariamente gli interessi e le esigenze della classe, esercitando così un vero e proprio «controllo sulla congruenza della condotta dell’imprenditore rispetto agli obiettivi» definiti nell’ambito della programmazione economica[8]. Localizzazione e qualificazione degli investimenti vengono considerati nella concezione di Giugni come i soli strumenti attraverso cui raggiungere i reali centri decisionali dell’economia e pervenire così ad un’azione tale da incidere sulle caratteristiche principali del modello di sviluppo, imponendo una programmazione «dal basso» in grado di supplire alle mancanze del sistema politico e di prevenire degenerazioni in senso burocratico e tecnocratico.

L’accento che in tal modo viene posto su un angolo visuale tale da inquadrare lo sviluppo in maniera complessiva e globale, portando il movimento sindacale ed i consigli di fabbrica a piegare la propria strategia ed il proprio lavoro quotidiano ad una prospettiva conoscitiva e di elaborazione sui nodi del processo produttivo integralmente inteso, fa sì che ad essere perseguita sia la mutazione antropologica già adombrata da Gramsci, per cui l’operaio, da semplice operatore di mercato e venditore di forza-lavoro, si fa produttore[9]. All’interno di questa prospettiva – la cui filiazione rispetto ai progetti di Rodolfo Morandi sui Consigli di gestione è lampante, in virtù del collegamento e della connessione che in essa viene a stabilirsi tra il momento aziendale ed il momento generale e programmatorio – il sindacato e la classe operaia massimizzano, nei fatti, la propria «forza conflittuale»[10] e la propria «autonomia», mettendo in essere concretamente una linea alternativa di politica economica, finalizzata al superamento degli squilibri di natura settoriale e regionale.

Va poi sottolineato come il rifiuto che in quella fase viene opposto da Giugni alla prospettiva di una partecipazione interna all’impresa e alle sue strutture di governo, non sia da confondere con una visione del controllo operaio meramente rivendicativa e contestatrice, secondo la logica del contro-potere aziendale. Al contrario, sia negli scritti individuali che nelle famose Tesi redatte a quattro mani con Cafagna, egli ribadisce a più riprese come la crisi di legittimazione che investe l’impresa, e soprattutto la natura monista della sua struttura di potere, ponga al sindacato e alle forme di rappresentanza operaia il problema di far proprio un approccio che, senza disperdere la sua natura conflittuale e di classe, sappia però ripensarsi in termini progressivamente gestionali[11]. Solo in un secondo momento, quando cioè alla fine del decennio la via meramente contrattuale alla democrazia industriale comincerà a mostrare la corda, Giugni – sulla scorta di un intervento di Amato in cui si caldeggia un adattamento alla realtà italiana del modello tedesco e dell’internità della sua dinamica partecipativa – riconoscerà l’opportunità di una legislazione promozionale e di sostegno che dia vita ad una nuova «articolazione interna del potere sindacale in azienda», posta «in un rapporto triangolare tra la direzione e le sedi esterne di programmazione»[12]. E ciò, al fine di conferire una maggiore stabilità e istituzionalizzazione – aldilà, dunque, della natura rivendicativa dei consigli di fabbrica – agli organi di rappresentanza operaia deputati alla «trattazione dell’informazione» e alla «discussione intorno alle strategie d’impresa»[13].

L’indisponibilità alla logica tedesca della partecipazione interna e alla stessa “quinta direttiva” (nel frattempo ripresa nel suo nucleo centrale dal socialista olandese Vredeling, commissario europeo), verrà meno in maniera definitiva nel corso degli anni Ottanta, contestualmente alla svolta neocoporatista e in favore della economia concertata compiuta dal Psi negli anni del Pentapartito. Interventi legislativi volti ad istituzionalizzare l’intervento sindacale nella gestione delle imprese vengono infatti considerati il «logico complemento di un’ampia articolazione della concertazione, che non può esaurirsi nel momento dei grandi accordi di vertice». Non sarebbe infatti pensabile governare le grandi variabili macroeconomiche senza portare nell’impresa il consenso sociale concertato attraverso una «politica di consultazione e codecisione»[14].

 

Controllo operaio, controllo sociale e autogestione nel Progetto socialista: quale rapporto?

All’interno di questo disegno, è infine possibile scorgere un’ispirazione autogestionaria, che segna una grande distanza rispetto all’approccio adottato dal Pci con la sua proposta delle “conferenze di produzione”. Se infatti Giugni individua in quest’ultimo la tendenza a concepire il controllo operaio come “controllo politico del partito-principe”, il Psi a suo parere dovrebbe al contrario farsi «garante» e promotore della diffusione di «forme di controllo sociale, che costituiscono un’area di potere laterale, e in rapporto dialettico, rispetto ai partiti di classe»[15]. L’esigenza di declinare il controllo operaio “socialmente”, stabilendo cioè la primazia dei consigli di fabbrica e delle altre forme di rappresentanza sulle forme partitiche di mediazione dei conflitti, discende inoltre dalla scelta pluralistica compiuta dai socialisti italiani e che li rende antitetici al monismo organicista che ritengono proprio della teoria gramsciana dell’egemonia: «l’idea della società autogestionale corre parallela alla democrazia conflittuale», affermerà, non a caso, Giugni intervenendo sul tema dell’autogestione[16]. Solo attraverso un «controllo sociale diffuso» sarebbe infatti possibile dare piena espressione alle «diversità» esistenti in seno alla società civile e portarle a sintesi, in un’autentica «concordia discors»[17], fuori dalla logica impositiva sottesa al “moderno principe” comunista ed esaltando, al contrario, la loro capacità di autoregolazione, «la piena autonomia del momento dell’autogoverno sociale»[18]. È in questo senso che è possibile parlare del controllo sociale come «forma […] del pluralismo», come piena «conseguenza di una scelta in senso conseguentemente pluralistico»[19]. Nonostante ciò però, Giugni – che si pone in linea con l’invito di Amato a declinare questa idea-forza compiendo una «lunga marcia fuori dall’utopia»[20] – sembra approcciarsi all’ipotesi autogestionaria in maniera estremamente laica, ritenendola più un principio ispiratore che non un autonomo e autosufficiente progetto politico. Il suo scetticismo è rivolto sia nei confronti delle visioni globali e sistematiche dell’autogestione, portate a vedere in essa «lo stadio finale dell’evoluzione sociale», quanto nei confronti del cosiddetto “sperimentalismo pragmatico”, il quale, passo dopo passo e tentativo dopo tentativo, dovrebbe condurre le forme autogestionarie ad estendersi all’insieme del corpo sociale[21]. Anche le esperienze di «autogestione esemplare»[22] – si pensi alla Lip – si sarebbero mostrate incapaci di generalizzazione, mancando in un’ultima istanza di quella caratteristica essenziale per qualsiasi progetto politico autonomo: la capacità di porsi, cioè, «come progetto globale, anche se e realizzazione differita nel tempo»[23].


[1] G. Giugni, L. Cafagna, Democrazia industriale: tesi per un dibattito, in AA.VV., Democrazia industriale e sindacato in Italia, nuova serie dei quaderni di Mondoperaio, n.5, 1977, p. 83.

[2] G. Giugni, Appunti per un dibattito sulla democrazia industriale, in Democrazia industriale, cit., p. 9.

[3] G. Giugni, L. Cafagna, Democrazia industriale: tesi cit., p. 84.

[4] F. Mancini, L’esempio viene dalla Svezia, in Democrazia industriale e sindacato cit.,

[5] G. Giugni, Appunti per un dibattito cit., p. 9.

[6] Ivi, p. 8.

[7] N. Cacace, Il coraggio di rischiare, in Democrazia industriale e sindacato cit., p. 65.

[8] Ivi, p. 85.

[9] G. Giugni, Impresa e sindacato, in G. La Ganga (a cura di), Socialismo e democrazia economica. Il ruolo dell’impresa e del sindacato, Franco Angeli, 1977, p. 24.

[10] G. Giugni, Appunti per un dibattito, cit., p. 9.

[11] G. Giugni, Impresa e sindacato cit., pp. 22-25

[12]  G. Giugni, Controllo nell’impresa e controllo sulle imprese, Mondoperaio, 1978, n. 7/8., p. 102.

[13]  Ibid., p. 101

[14]  G. Giugni, Strategie economiche e Comunità europea, in AA. VV., Democrazia economica, sindacato, eurosocialismo, quaderni de “Il compagno”, 1983, n. 14, p. 82.

[15]  G. Giugni, L. Cafagna, Democrazia industriale: tesi cit., p. 86.

[16]  G. Giugni, Autogestione e progetto socialista, Mondoperaio, 1979, n. 6, p. 105

[17]  G. Giugni, Democrazia industriale e controllo operaio, in Democrazia industriale e sindacato in Italia cit., pp. 198-199.

[18]  G. Giugni, Autogestione e progetto socialista cit., p. 105

[19]  G. Giugni, Democrazia industriale e controllo operaio cit., pp. 198-199.

[20]  G. Amato, La lunga marcia fuori dall’utopia, Mondoperaio, 1979, n. 10

[21]  G. Giugni, Autogestione e progetto socialista cit., p. 107

[22]  G. Giugni, L. Cafagna, Democrazia industriale: tesi cit., p. 84.

[23]  G. Giugni, Autogestione e progetto socialista cit., p. 107

Scritto da
Mattia Gambilonghi

Mattia Gambilonghi (Catania, 1987). Laureato in Scienze storiche presso l’Università di Bologna, attualmente conduce un dottorato di ricerca presso il Dispo dell’Università di Genova e il Cevipol dell’Université libre de Bruxelles. Ha pubblicato una monografia intitolata “Controllo operaio e transizione al socialismo. Le sinistre italiane e la democrazia industriale tra anni Settanta e Ottanta” (Aracne, 2017. Interessato alla storia del movimento operaio europeo e alle teorie dello Stato e della democrazia, ha affrontato queste tematiche collaborando con le riviste «Democrazia e diritto», «Cahiers d’histoire. Revue d’histore critique», «La revue du projet», «Materialismo storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane», «Annali di Ca’ Foscari. Serie occidentale», «Critica marxista» e «PoloSud».

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