“Il casco di sughero. Gli italiani alla conquista dell’Africa” di Alfredo Venturi
- 10 Gennaio 2021

“Il casco di sughero. Gli italiani alla conquista dell’Africa” di Alfredo Venturi

Recensione a: Alfredo Venturi, Il casco di sughero. Gli italiani alla conquista dell’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino 2020, pp. 216, 15 euro (scheda libro)

Scritto da Federico Perini

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Raccontare cosa è stato il colonialismo italiano è un compito arduo, nonché una indispensabile esigenza del nostro tempo, specialmente dopo la rinnovata attenzione che l’opinione pubblica ha riservato al tema negli scorsi mesi di giugno e luglio. Quando si rievocano le esperienze belliche coloniali, con le loro conquiste e la loro retorica imperialista, il rischio è quello di suscitare nel lettore un ingenuo senso di nostalgia e di patriottismo verso quella che doveva essere «una più grande Italia»[1]. Alfredo Venturi, esperto giornalista e divulgatore storico, ne è pienamente consapevole e, in Il casco di sughero, presenta a chi vuole introdursi alla vicenda una “storia dell’espansione italiana in Africa” che mette in luce gli aspetti più controversi della nostra parabola coloniale.

Se si osservano gli studi sul colonialismo italiano dei due decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, si può notare come prevalga un atteggiamento apologetico. L’espansione oltremare, infatti, venne considerata come un tramite necessario per promuovere lo sviluppo economico e politico del Paese. Un simile approccio lasciò ai margini un’analisi delle conseguenze della presenza italiana in Africa, mostrando come la disciplina storica non avesse ancora affrontato un processo di “decolonizzazione degli studi” avvenuto invece in altri Paesi europei. Per questo motivo, nello scrivere il volume, Venturi attinge principalmente alla storiografia critica che si sviluppò a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, proponendo una lettura dell’espansione oltremare articolata in quattro fasi, ciascuna delle quali caratterizzata tanto da approcci contingenti, quanto dalla presenza di tendenze di lungo periodo.

La narrazione inizia osservando come il primo attore italiano a muoversi nel continente africano sia stato di carattere privato e non pubblico. Un aspetto ricorrente nella nostra retorica coloniale, incentrata non soltanto sulla “missione civilizzatrice” nei confronti delle popolazioni africane, ma anche su una missione nazionale volta a creare nuove opportunità lavorative. Risale infatti al 1869, in concomitanza con l’apertura del Canale di Suez, l’interesse dell’esploratore e missionario Giovanni Sapeto per la Baia di Assab, la quale venne acquistata per conto della compagnia di navigazione Rubattino di Genova, in stretti rapporti col potere sabaudo, con l’intento di creare un approdo capace di intercettare parte dei flussi commerciali passanti per il Mar Rosso. Lo Stato italiano subentrò ufficialmente all’iniziativa privata solamente nel 1882, rilevando la baia e creando le prime forme di controllo militare ed amministrativo di quella “colonia primogenita” che nel 1890 venne denominata Eritrea. Notando come il toponimo della colonia sia frutto di un’invenzione tipicamente italiana, così come la concezione geopolitica del Corno d’Africa[2], l’autore evidenzia quella prassi, tipicamente coloniale, di rinominare con termini occidentali i luoghi oggetto dell’espansione. In tal senso, si può osservare come la toponomastica divenne un dispositivo del colonialismo atto a ridisegnare i confini a danno delle popolazioni africane, che spesso si trovarono sottoposte a dominazioni che non tenevano conto della loro storicità geografica, culturale e politica.

Nel presentare al lettore l’acquisizione dell’Eritrea, che ha come tappe fondamentali l’occupazione di Massaua (1885), la sconfitta di Dogali (1887) ed il controverso[3] Trattato di Uccialli (1889), il colonialismo italiano viene inteso come una componente fondamentale del più ampio processo risorgimentale, nella misura in cui esso ebbe il compito di far coagulare attorno al proprio ideale le diverse sensibilità degli italiani, allo scopo di costruire la nazione definendola in rapporto ad un “altro”. A tale visione del colonialismo come elemento costitutivo della nazione[4], si associa la retorica della “missione civilizzatrice” come “banco di prova” della civiltà italiana in creazione, poiché, nello spirito proprio del colonialismo, solo una cultura forte può essere esportata con successo.

Simili aspirazioni vennero drasticamente ridimensionate all’indomani della Battaglia di Adua (1896), avvenuta nel contesto della Prima guerra italo-etiopica (1895-1896). Nello scontro, per la prima volta nella storia, una potenza occidentale venne sconfitta da uno Stato africano. Il valore simbolico che tale disfatta assunse per tutta la durata del colonialismo viene efficacemente descritto presentando le conseguenze che essa generò tanto sul versante italiano, con il ridimensionamento delle mire espansionistiche crispine, quanto su quello etiopico, con il consolidamento del potere imperiale di Menelik II.

Dopo aver presentato il processo di creazione della Somalia italiana (1889-1908), per certi versi analogo al caso eritreo, dato l’importante ruolo delle compagnie commerciali, l’autore identifica la seconda fase del colonialismo italiano con la politica espansionistica giolittiana, diretta verso la Tripolitania e la Cirenaica. Particolare attenzione viene posta sia verso la modernità delle operazioni militari che caratterizzarono la Guerra italo-turca (1911-1912) sia verso il profondo dibattito occorso nell’intelligentsia italiana riguardo l’utilità della conquista, sottolineando come l’ethos coloniale si fosse stabilmente affermato nell’Italia di inizio Novecento non solo negli ambienti di governo, ma anche fra l’opinione pubblica. Infatti, se da un lato la Libia venne definita uno «scatolone di sabbia»[5], dall’altro, Tripoli divenne il «suol d’amore»[6] che avrebbe rivitalizzato la società italiana, permettendo ai flussi migratori verso le Americhe di essere reindirizzati verso una nuova sponda Mediterranea. Tale retorica tipicamente nostrana del “colonialismo demografico”, espressa all’epoca da Giovanni Pascoli[7] e ripresa anche durante il periodo fascista, viene proposta al lettore analizzando come a livello letterario, cinematografico e propagandistico vennero rappresentate la conquista e la “pacificazione” – portata avanti in modo particolarmente brutale – della Libia, nonché l’avvento dell’imperialismo mussoliniano.

La complessità e la varietà della questione è ravvisabile nella ricchezza dei riferimenti analizzati da Venturi, il quale individua i fili rossi della retorica civilizzatrice e bellicistica tra epoca liberale e fascista in autori quali Zuccoli, Camerini, Marinetti, Vergani, Bacchelli, Cipolla; mettendoli a confronto con il cambio di rotta impresso dalla decolonizzazione alla concezione letteraria dell’Africa, la quale, da luogo esotico, primitivo e privo di una storia propria, recupera la propria dignità anche grazie al contributo di autori come Pasolini, Moravia o Tobino.

Prima di arrivare ad analizzare come il fascismo concepì l’espansione coloniale, Venturi si sofferma brevemente, ma in maniera apprezzabile, sulla modernizzazione etiopica di inizio Novecento, introducendo l’ascesa di Hayla-Sellase con particolare attenzione alle questioni politiche e religiose del suo impero, destinate a perdurare anche dopo la fine dell’occupazione italiana dell’Etiopia[8].

Con lo stesso approccio con cui viene presentata la conquista della Libia, Venturi ripercorre le tappe che portarono alla creazione dell’Africa Orientale Italiana. A partire da una attenta analisi linguistica di Faccetta Nera, la «canzone che accompagna la nuova spedizione coloniale» (p. p. 95), l’autore si sofferma su alcune peculiarità dell’imperialismo fascista. Una su tutte, la questione del “madamato”, ovvero quella pratica diffusa nelle colonie italiane, ed in particolare in territorio abissino durante la campagna d’Etiopia, per cui uomini italiani instauravano con giovani ragazze locali «contratti di concubinaggio a tempo» (p. 97). Riportando a riguardo la nota vicenda di Indro Montanelli, Venturi osserva come l’ambiente coloniale fosse concepito da chi lo viveva come un luogo “altro” in cui sfogare quelle pulsioni, sessuali e non, proibite dal diritto della madrepatria. Allo scopo di frenarle, l’autore fa risalire la necessità da parte del Duce di istituire la legislazione razziale del 1937, la quale avrebbe tutelato la presunta purezza biologica dell’italiano in colonia.

Con sullo sfondo una dettagliata ricostruzione degli eventi bellici della Seconda guerra italo-etiopica (1935-1936), comprendente una decisa condanna all’utilizzo dei gas a scopi militari, viene presentata la mitizzazione della guerra coloniale a livello propagandistico e popolare. In tal senso viene analizzato l’eco che ebbero nell’opinione pubblica figure come Amedeo Guillet (l’invincibile “comandante Diavolo”) e Maria Uva: la “ragazza del canale” salutata presso Suez dagli uomini diretti al fronte agitando il loro casco di sughero. Inoltre, viene concesso ampio spazio all’analisi delle conseguenze sul piano politico internazionale della guerra coloniale fascista, la quale, condannata e punita dalla Società delle Nazioni, viene inquadrata come una tappa di quel complesso iter di eventi che avrebbe portato allo scoppio della Seconda guerra mondiale.

L’ultima fase del colonialismo italiano presentata da Venturi è quella caratterizzata dalla perdita delle colonie e dalla rimozione del passato coloniale durante i primi anni della Repubblica. In tal senso, viene notato come l’Italia sia stata, insieme alla Germania, l’unico Paese europeo a non aver vissuto il processo di decolonizzazione dei propri possedimenti oltremare negli anni Cinquanta e Sessanta[9]. Un contesto così complesso viene messo a fuoco dall’autore presentando le contraddizioni insite nell’esperienza dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (1950-1960) e analizzando come, in modo trasversale, la politica italiana di età repubblicana si sia rifugiata dietro il mito del “bravo italiano”[10] per non dover affrontare un dibattito interno sull’eredità e sui bilanci del colonialismo tanto di epoca liberale quanto fascista.

Dunque, il volume di Alfredo Venturi fornisce, a chi volesse approcciarsi per la prima volta al tema del colonialismo italiano, una chiave di lettura del fenomeno lontana da ingiustificati sentimenti nostalgici, che rende per quello che effettivamente fu la cruenta parabola espansionistica italiana in Africa, rimossa nel nostro passato recente per paura di un confronto diretto e spinoso. Grazie ad un efficace stile divulgativo, il volume stimola il lettore ad un approfondimento ulteriore di tali tematiche, richiamandolo ad una bibliografia scientifica di riferimento.

Al termine della lettura, si intuisce inoltre come il sughero di cui sono fatti i caschi delle truppe coloniali possa essere inteso come una metafora della nostra parabola militare in Africa e della memoria coloniale attuale. Quest’ultima risulta infatti più fragile di quanto appare, poiché, se la si indaga attentamente a livello di senso comune, essa si rivela spesso fondata su miti ed apologie, rendendo necessario un confronto critico con la Storia.


[1] N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002, p. 57.

[2] Cfr. G. P. Calchi Novati, P. Valsechi, Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche agli Stati Nazionali, Carocci, Roma 2016, p. 242.

[3] Il trattato di Uccialli fu siglato il 2 maggio 1889 in due versioni: una in lingua amarica ed una in italiano. Nella prima si affermò che il Negus avrebbe potuto servirsi del nostro governo per intrattenere rapporti economici e diplomatici con le altre potenze. Nella traduzione italiana, invece, tale “facoltà” si trasformò in un “obbligo”, considerando de facto l’Etiopia un protettorato italiano conformemente ai dettami stabiliti nella conferenza di Berlino (1884-1885).

[4] Cfr. C. Giorgi, LAfrica come carriera. Funzioni e funzionari del colonialismo italiano, Carocci, Roma 2012, pp. 23-29.

[5] Ci si riferisce alla proverbiale espressione con cui il meridionalista Gaetano Salvemini sostenne l’inutilità della conquista della Libia.

[6] Ci si riferisce al testo della canzone propagandistica A Tripoli, scritta da Giovanni Corvetto e musicata da Colombino Arona nel 1911.

[7] Cfr. G. Pascoli, La grande proletaria si è mossa, in «La Tribuna», Roma, 27 novembre 1911.

[8] Cfr. B. Zewde, A History of Modern Ethiopia, James Currey, Oxford 2001.

[9] Cfr. A. M. Morone (a cura di), La fine del colonialismo italiano. Politica, società e memorie, Mondadori, Milano 2018.

[10] Cfr. F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013.

Scritto da
Federico Perini

Dottorando in Studi umanistici, curriculum Storia contemporanea, presso l’Università Cattolica di Milano. Ha conseguito la laurea magistrale in Scienze storiche all’Università “La Sapienza” di Roma. Studia le interconnessioni tra europeismo e decolonizzazione nella seconda metà del Novecento. Tra i suoi interessi, la filosofia politica e le trasformazioni socioeconomiche del presente.

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