Scritto da Luca Picotti
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Non è possibile inquadrare le dinamiche proprie della globalizzazione e dell’allungamento delle catene del valore, specie nell’ultimo quarantennio, senza porre lo sguardo sul commercio marittimo. L’80% delle merci in termini di valore e il 90% in volume naviga via mare, attraversando i chokepoint geopolitici di maggiore rilevanza per gli equilibri commerciali: gli stretti di Malacca e Bab el-Mandeb, dove alle tensioni politiche interstatali si accompagna anche il fenomeno della pirateria, gli stretti di Hormuz, Gibilterra e Turchi, nonché i canali di Suez e Panama[1]. Merci, materie prime e risorse energetiche – la cui catena produttiva coinvolge più paesi, secondo una logica ricardiana di abbattimento dei costi – giungono dunque nei mercati di sbocco finale dopo essere state caricate in navi portacontainer, cargo, bulk carrier, petroliere ecc. Il trasporto aereo, invece, movimenta perlopiù merci ad alto valore aggiunto o a rapida deperibilità, mentre il trasporto ferroviario e su gomma opera nelle brevi tratte, spesso a seguito di trasbordo dai porti in un’ottica multimodale.
Chiarita la strategicità – o, meglio, l’essenzialità – del commercio marittimo, in questa sede ci si dedicherà all’analisi delle fasi patologiche dettate dalle crisi, in particolare agli impatti che queste hanno sulla regolarità del trasporto merci via mare, nonché sulle decisioni delle maggiori compagnie di navigazione e sulla salute delle catene logistiche. Più nello specifico, si proverà a tratteggiare un raffronto tra l’impatto della crisi finanziaria del 2008 e quello della crisi pandemica del 2020.
La crisi del 2008: uno strappo nel cielo di carta del gigantismo navale
Per comprendere l’impatto della crisi finanziaria sul commercio marittimo occorre, innanzitutto, evidenziare alcune delle principali trasformazioni avvenute nel trasporto merci via mare nell’ultimo quarantennio. In questo senso, di particolare rilevanza è lo shock tecnologico realizzatosi tra la metà degli anni Novanta e la metà degli anni Duemila, che ha visto quadruplicare la capacità massima delle container ship ( da circa 4.500 TEU a 16.000 TEU nel 2006), grazie alla costruzione delle navi di grande dimensione cosiddette Post-Panamax – per comprendere lo shock è utile ricordare che dall’adozione dei primi container negli anni Sessanta ci sono voluti circa trent’anni per raggiungere una capacità di 1.500 TEU. Questo fenomeno, oltre ad avere svantaggiato alcune realtà (si pensi ai porti sudamericani) non in grado di accogliere, per la loro struttura morfologica, navi di dimensioni così grandi, ha portato più in generale a una corsa al gigantismo navale, con conseguenze sull’intero sistema dei trasporti marittimi: in primo luogo, i maggiori armatori hanno stretto delle alleanze (2M, Ocean Alliance, THE Alliance) volte a controllare, in regime di oligopolio, l’intero mercato, arrivando a detenere una quota del 90% del traffico container sulla principale rotta East-West; in secondo luogo, questi armatori hanno iniziato anche a perseguire una strategia di verticalizzazione del proprio business, trasformandosi in terminalisti e operatori logistici, con diverse operazioni di acquisizione nei maggiori scali, costringendo peraltro i porti a una accesa competizione tra di loro per aggiudicarsi l’ingresso delle principali portacontainer; in terzo luogo, questa tendenza è stata avallata dalle banche, che hanno concesso credito facile alle maggiori compagnie di navigazione, contribuendo così, con qualche azzardo, alla crescita dirompente dei primi anni Duemila.
Nel 2008 scoppia però la crisi finanziaria, che assesta un duro colpo alla “bolla”[2] del gigantismo navale. Il radicale crollo della domanda mondiale di merci produce un’improvvisa situazione di eccesso di stiva, con i principali armatori – che avevano negli anni investito, avallati dalle banche, in flotte sempre più grandi – che si ritrovano ad avere navi semi-vuote. Di conseguenza, l’eccesso di offerta porta a un calo drastico dei noli, in una spirale deflattiva che presto condurrà tutte le maggiori compagnie di navigazione in perdita; a titolo d’esempio, si era giunti alla paradossale situazione per cui un nolo per il trasporto da Cina a Europa costava 100 euro, quando invece portare la merce via camion da Trieste a Udine costava 400 euro[3].
La crisi nello shipping fu particolarmente pesante: le banche iniziarono ad abbandonare il business, i noli rimanevano estremamente bassi bruciando i profitti, il contenzioso con cantieri e fornitori si rendeva inevitabile. Su quest’ultimo punto, è interessante l’esempio delle controversie tra armatori – che negli anni precedenti avevano investito in ingenti ordinativi di nuove navi di grandi dimensioni – e i cantieri commissionati:
«La crisi economica e finanziaria che ha colpito il mondo dello shipping a partire dall’agosto del 2008, determinando una drastica perdita di valore delle navi, ha generato un aumento delle controversie e un corrispondente aumento degli arbitrati, con particolare riferimento al fenomeno della risoluzione dei contratti da parte degli armatori committenti. Sotto la spinta di impellenti preoccupazioni finanziare ed economiche, i committenti hanno invocato ragioni e talvolta pretesti per tentare di risolvere il contratto di costruzione e per rifiutare la consegna della nave ben sapendo che in quelle specifiche condizioni di mercato la consegna della nave (pagata ai prezzi ante crisi) avrebbe avuto un impatto negativo o addirittura disastroso sui conti dell’azienda armatoriale. Si tratta di un fenomeno ben noto, che si verifica ciclicamente nei momenti di mercato calante, ma che a partire dal 2008 ha assunto proporzioni particolarmente significative a causa della gravità, forse senza precedenti, della crisi del mercato dei noli e della deflazione dei valori delle navi di ogni tipo, con grave impatto: — sui finanziamenti conclusi prima della crisi; e — sulle possibilità di reperire contratti di utilizzazione delle navi»[4].
Tra i motivi di controversia, spesso anche pretestuosi stante la necessità di risolvere le commesse, vi erano, a titolo d’esempio, la lamentela da parte dell’armatore-committente circa il mancato rispetto dei termini di consegna, o del raggiungimento di una determinata fase dei lavori, oppure della presenza di gravi difetti di costruzione o, ancora, di vizi occulti dopo la consegna[5].
In definitiva, la crisi del 2008 ha pesato notevolmente sullo shipping, settore che già stava vivendo alcune contraddizioni interne. Sicché, una ripartenza del mercato marittimo – e dei profitti delle compagnie di navigazione – è stata resa possibile solo dalla crescita della domanda mondiale di merci a partire, di fatto, dalla seconda metà degli anni Dieci.
La crisi pandemica: la discrasia tra domanda e offerta
La crisi del Covid-19 ha avuto un decorso diverso da quella finanziaria: se inizialmente, a causa delle rigorose chiusure in tutto il mondo, vi è stata una drastica interruzione dei trasporti – con plurimi fenomeni, nel caso di traffico marittimo, di blank sailing[6], nonché diverse controversie inerenti alle clausole contrattuali dei contratti tipici del campo, ovvero time e voyage charter – poi una (sorprendente) ripresa della domanda ha cambiato le carte in tavola.
Infatti, gli stimoli monetari e fiscali attuati dai diversi paesi, in primis dagli Stati Uniti, hanno guidato la ripresa della domanda mondiale di merci prima del previsto. A questo va aggiunto il boom dell’e-commerce di prodotti elettronici, dettato dai lockdown, dallo smartworking e dalla didattica a distanza. Infine, si pensi al caso italiano con il “bonus 110”: diverse agevolazioni hanno alimentato alcune bolle nel settore edilizio e delle ristrutturazioni, appesantendo la domanda di materie prime (legname, alluminio, acciaio, rame ecc.). Di fronte a questi, perlopiù inaspettati, fenomeni, il lato dell’offerta non era adeguatamente preparato: la scarsità di chip e semiconduttori non permetteva di soddisfare l’intera domanda degli operatori digitali e delle case automobilistiche; le tensioni geopolitiche aggravavano la situazione; infine, lo stop ad alcune produzioni durante i primi mesi di lockdown – si pensi ai forni per l’acciaio – ha reso poco reattivi i diversi produttori di fronte al repentino rialzo della domanda, con la conseguenza che la riattivazione dei processi aziendali non è stata immediata.
A questa già di per sé gravosa situazione – dettata dalla discrasia tra domanda e offerta – vanno aggiunte le criticità sul lato dei trasporti. La repentina ripresa ha causato una congestione nei porti – specie nordamericani – con un conseguente rallentamento delle operazioni di loading e unloading e, dunque, un ritardo nelle consegne finali. Per di più, alcune quarantene nei porti cinesi (si pensi alla paralisi del terminal di Yantian) hanno costretto diverse navi a rimanere ancorate al largo per settimane. Da ultimo, la contagiosità del Covid-19 ha colpito anche la forza lavoro portuale, causando così un ulteriore rallentamento delle operazioni logistiche.
L’effetto principale di questa crisi è stato il rincaro dei noli, con lo spettro di spirali inflazionistiche per gli utenti finali. Tra aprile 2020 e aprile 2021 l’indice SCFI[7] è aumentato del 264%, toccando il massimo storico di 3.101 punti; l’indice Shanghai – Med a maggio 2021 ha superato i 5.300 dollari per TEU – che significa 10.600 dollari per un container da 40’[8]. A contribuire al rialzo, vi è stato anche il controllo della capacità di stiva da parte delle “grandi alleanze” – che stanno vivendo un periodo di enormi profitti – tant’è che si parla di un possibile intervento dell’antitrust.
Dall’altro lato della bilancia, vi sono i distributori che cercano di mantenere le proprie linee regolari senza incorrere in ingenti ritardi nelle consegne, e gli utenti finali, che – specie per alcune materie prime come il legname o l’alluminio – stanno già subendo dei rincari. Per quanto concerne i primi, sembra si stia sviluppando un interessante, seppur probabilmente temporaneo, fenomeno di disintermediazione: per evitare l’alto costo dei noli applicato dalle imprese di trasporto, nonché la possibilità di ritardi e blank sailing, alcuni tra i maggiori distributori (Walmart, Ikea, Coca-Cola) hanno deciso di noleggiare direttamente delle navi per il trasporto delle proprie merci, così da garantire i tempi di consegna ed evitare scali in altri porti o impennate nei costi. In attesa che l’offerta si riassesti rispetto alla domanda, queste sono, in sintesi, le sfide principali che la pandemia ha portato nell’ultimo anno e mezzo.
Conclusioni
Sono evidenti, dunque, le differenze tra le due crisi. Se da un lato avevamo le difficoltà della bolla del gigantismo navale nel far fronte al calo della domanda, dall’altro l’anomala interruzione delle catene logistiche, cui è seguita poi la repentina richiesta di merci, ha causato una situazione di crisi decisamente più complessa, arricchendo tra l’altro notevolmente le maggiori compagnie di navigazione[9].
Per quanto nelle ultime settimane sembra si stia assistendo a una prima inversione nella tendenza dei noli – con un calo pure abbastanza consistente del loro costo, probabilmente dovuto in parte anche all’energy crunch cinese – la crisi non pare ancora alle spalle. Tensioni geopolitiche, ancora prima che sul lato della logistica, indicano la strada del reshoring e della rimodulazione delle catene del valore come auspicabile, specie per i settori strategici, dall’elettronica al farmaceutico. In generale, si discute sempre di più della crisi di un modello, quello delle value chain dilatate e del just in time (ovvero: riduzione al massimo dei costi di magazzino e produzione legata alla domanda, in un flusso continuo della catena distributiva), che ha guidato la globalizzazione degli ultimi quarant’anni. Se certamente non assisteremo a una vera e propria ritrazione del commercio globale, anche solo per le dimensioni che ha raggiunto e per l’importanza dei traffici East-West per i consumatori occidentali, questo non significa che alcuni paradigmi non verranno messi in discussione. Dalle due crisi che abbiamo analizzato sono emerse diverse criticità nel settore dello shipping: dal gigantismo navale ai colli di bottiglia di catene logistiche estremamente estese, passando per il controllo oligopolistico del mercato e le tensioni geopolitiche. Su questi punti sarà necessario riflettere, in vista della ripresa post-Covid e della conseguente riscrittura degli equilibri globali.
[1] Cfr. Francesco Zampieri, Considerazioni di strategia marittima, in Autori Vari, Geopolitica del mare. Dieci interventi sugli interessi nazionali e il futuro marittimo, Ugo Mursia Editore, 2018, pp. 136-137.
[2] Si è deciso di utilizzare il termine “bolla” in quanto il fenomeno della corsa al gigantismo navale è stato caratterizzato dai tratti tipici – ottimismo iniziale, credito facile, investimenti azzardati – delle diverse bolle scoppiate negli ultimi decenni.
[3] Mario Sommariva, Porti: integrazione, lavoro, innovazione. Uno sguardo da Trieste. Intervista a Mario Sommariva, a cura di Caterina Conti, Giacomo Bottos e Francesco Rustichelli, «Pandora Rivista», 7.
[4] Maurizio Dardani, Arbitrato e costruzione di navi, «Rivista dell’Arbitrato», 2014.
[5] Ibidem.
[6] Fenomeno che indica la cancellazione da parte di una nave di uno scalo in un determinato porto o area marittima.
[7] The Shanghai Containerized Freight Index: è l’indice maggiormente utilizzato per calcolare il costo dei noli per il trasporto container dai porti cinesi verso il resto del mondo.
[8] Arianna Buonfanti, Vulnerabilità della logistica e volatilità dei noli, «Ship2Shore», Supplemento speciale n. 34 del 17 giugno 2021.
[9] In particolare, le compagnie di navigazione hanno reagito alla crisi in parte riducendo la capacità di stiva delle proprie flotte, così da aumentare i costi di trasporto e, conseguentemente, i propri profitti.