Scritto da Giacomo Bottos
21 minuti di lettura
Attivo nel settore marittimo dal 1977, Mario Sommariva è Segretario generale dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale (Porti di Trieste e Monfalcone), mandato che ricopre dall’aprile del 2015 (dal dicembre 2020 è Sommariva è Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Orientale, N. d. R). Sempre con il ruolo di Segretario generale ha seguito l’Autorità Portuale di Bari per otto anni (2007-2014). A ciò si assommano diversi incarichi di rilievo nell’ambito delle politiche del lavoro nel settore marittimo e portuale, con un’esperienza importante presso la Camera dei Deputati (1994-1995), che lo ha portato a diventare Segretario Nazionale per il Dipartimento Mari, Porti e Logistica del maggior sindacato italiano (1996-2003). Sommariva è stato vice direttore della rivista «Porto Nuovo» nonché Componente del Comitato di Sorveglianza del Piano Operativo Nazionale Trasporti presso il Ministero Italiano dell’Economia e delle Finanze.
Questa intervista – tratta da uno dei numeri cartacei di Pandora Rivista – a partire dalla realtà del Porto di Trieste prova a gettare uno sguardo complessivo e articolato sulla portualità nel nostro Paese, sull’evoluzione globale della logistica e sulle sfide aperte nella blue economy.
L’Italia, in virtù della sua peculiare posizione geografica, si presenta come un hub naturale nel cuore del Mediterraneo e come uno snodo cruciale lungo le rotte che collegano l’Europa all’Asia e all’Africa. Una vocazione geografica che si lega a quella manifatturiera e alla presenza di un sistema industriale fortemente interdipendente con l’estero. Qual è la situazione della blue economy nazionale e quanto pesa la presenza di un sistema portuale efficiente nel determinare la crescita e la competitività del Paese?
Mario Sommariva: L’economia marittimo-portuale italiana è sicuramente un segmento dell’economia che, anche in una fase di crisi, ha dimostrato una maggior tenuta rispetto ad altri settori, come ad esempio quello dell’autotrasporto, che ha subito in questi anni una grandissima perdita di competitività. I livelli di crescita dell’economia marittima, per quanto non esaltanti come quelli che si ebbero a cavallo tra la metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo, sono stati comunque elevati: dal punto di vista dei traffici marittimi gli incrementi sono stati tendenzialmente superiori alla crescita del PIL. Esiste, insomma, una vocazione marittimo-portuale italiana che mantiene una sua forza. Se astraiamo per ora da Trieste, in generale i porti italiani sono al servizio dell’economia locale: i bacini di traffico per i porti maggiori non vanno generalmente oltre i 150 km, per i porti minori si aggirano attorno ai 50 km – questi sono i dati delle cosiddette catchment area, ovvero delle aree di influenza dei porti. È comunque indubbio che la portualità italiana abbia rappresentato un fattore di competitività e di efficienza in senso generale, per quanto non esente da problemi e contraddizioni. L’Italia resta la terza potenza marittima del continente, dopo l’Olanda e la Gran Bretagna. Nelle classifiche degli altri settori la situazione è diversa. Questo non vuol dire che il settore brilli in tutto per tutto: il settore portuale brilla molto di più di quello armatoriale, che sta vivendo una fase complessa e di tendenziale ridimensionamento. Limitandosi però ai porti, questi stanno vivendo una fase positiva, hanno anche superato gli anni più bui della crisi finanziaria, che ha colpito duramente l’economia del Paese.
Riprendendo un tema che lei ha accennato, cioè il confronto con l’estero e le controparti europee, la portualità rappresenta chiaramente un settore chiave nel quadro di una logistica globale in rapido mutamento. I traffici marittimi sono destinati ad assumere un ruolo sempre più cruciale per lo sviluppo del nostro continente e i maggiori porti europei ne saranno gli snodi più decisivi. Quali porti riusciranno a rispondere alle nuove sfide? Qual è la situazione dei principali scali nazionali rispetto alle concorrenti europee?
Mario Sommariva: Come ho già detto prima, per quanto riguarda i porti italiani ci troviamo di fronte a scali destinati prevalentemente all’economia locale e nazionale. Escludendo Trieste, che ha caratteristiche diverse, per la restante portualità nazionale, con la sola eccezione di Genova, non si pone quasi nemmeno il tema della competizione con gli scali europei. Questo avviene per una serie di ragioni, tra cui in primo luogo la presenza di fattori geografici naturali difficilmente superabili: il nostro territorio è delimitato dalle Alpi – e, per quanto riguarda il mar Tirreno, va considerata anche la presenza degli Appennini –. Le merci devono dunque superare due catene montuose importanti con infrastrutture ancora carenti: penso ad esempio alla discussione sul Terzo valico per quanto riguarda il porto di Genova. Da questo punto di vista i porti del Nord sono favoriti, perché il territorio è pianeggiante, sono presenti grandi fiumi che favoriscono la movimentazione anche attraverso le chiatte fluviali – e non soltanto tramite strade –, c’è una maggiore dotazione infrastrutturale. Peraltro, siamo di fronte a “porti-nazione”: Rotterdam rappresenta una parte determinante della ricchezza dei Paesi Bassi, c’è una nazione a servizio del porto; la stessa cosa si può dire per Anversa in Belgio; fortemente sostenuto dal Land della città di Amburgo è il porto omonimo – anche se sta vivendo una fase di forte crisi, a differenza invece di Rotterdam e Anversa che rappresentano tuttora realtà molto forti.
Per quanto riguarda le tendenze di fondo assistiamo ad una difficoltà per quelli che nella prima metà degli anni Duemila erano stati i punti di forza della portualità nazionale, che puntava molto sui grandi hub di transhipment – ovvero lo scambio tra nave madre e nave feeder più piccola atto a sviluppare una rete di trasporti inframediterranei –. Ci sono state inoltre due principali novità: da un lato lo sviluppo del porto del Pireo da parte della società cinese COSCO, dall’altro quello del porto Tanger Med di Tangeri da parte della Contship. Lo sviluppo di questi scali ha bloccato quello del porto di Taranto, che pure aveva vissuto una fase di crescita importante negli anni precedenti, arrivando a movimentare 800.000 TEU. Anche il porto di Gioia Tauro aveva conosciuto una fase di crescita, trovandosi sulla direttrice del Canale di Suez. Lo sviluppo del Pireo e di Tanger Med, ma anche di altri porti – soprattutto nell’area dello stesso canale, quale ad esempio Port Said in Egitto – ha compromesso fortemente le potenzialità della nostra portualità, condizionata anche, come dicevo, dalla modalità del transhipment. Qui entrano in gioco le potenzialità dell’Alto Adriatico. A Trieste il 90% del traffico è internazionale, con un range di collegamenti ferroviari che arriva anche a coprire 800-1000 km: alcune linee arrivano al Nord della Germania, a Kiel o a Rostock; è anche presente una rete di collegamento con la Mitteleuropa. Ad esempio dal porto di Trieste partono 14 treni a settimana per Budapest. C’è una forte ripresa dell’area dell’Alto Adriatico che coinvolge – anzi è stato l’apripista – il porto di Koper, a 4 miglia marittime da Trieste; dal punto di vista logistico si tratta di un’unica area. Trieste è arrivata quest’anno a 700.000 TEU, Koper è già a 900.000 quindi siamo complessivamente a 1.600.000. Se poi consideriamo tutti i collegamenti ro-ro, arriviamo a sfiorare complessivamente i due milioni, calcolati in unità di carico: siamo, cioè, di fronte ad una realtà che comincia a sottrarre qualcosa ai porti del Nord Europa, che peraltro devono fare i conti con gli effetti del gigantismo navale – navi sempre più grandi che, in qualche modo, ribaltano le economie di scala del traffico marittimo sul segmento di trasporto terrestre, creando fenomeni anche di congestione molto importanti. Siamo quindi in una fase particolarmente interessante. C’è poi, sull’altro versante, il porto di Genova che rappresenta tradizionalmente il cuore del sistema marittimo e portuale nazionale, ma non riesce, per problemi prevalentemente geografici e infrastrutturali, a trovare uno sbocco adeguato oltre i propri confini.
Le sfide aperte per il sistema portuale italiano
La rilevanza dell’economia portuale è legata anche all’evoluzione della nozione stessa di ‘porto’ e quindi al superamento di un luogo dedicato esclusivamente al trasbordo sostituito da quella di porto come perno fondamentale di un più complesso sistema logistico in cui risultano fondamentali anche la qualità dei servizi e l’innovazione tecnologica. Come si deve agire per muoversi nella direzione di servizi di trasporto a più alto valore aggiunto? Quanto è importante poter disporre di lavoratori qualificati che garantiscano efficienza, competitività e sicurezza? Come far coordinare operatori pubblici e iniziativa privata?
Mario Sommariva: La domanda mette insieme le vere questioni strategiche che riguardano lo sviluppo della portualità: quindi il tema dei servizi, della logistica, della qualificazione e professionalità delle risorse umane, in ultima analisi la centralità del tema del lavoro umano. Sono tutti temi di straordinaria importanza che quasi mai – lo dico con rammarico – vengono assunti dai governi come temi centrali. L’approccio alla politica dei trasporti e della portualità guarda molto spesso unicamente alle infrastrutture – tema certo molto importante – ma la questione va vista nel suo insieme. In primo luogo i porti devono creare ricchezza nei territori: questa è una funzione che hanno sempre avuto. La ricchezza storicamente si è prodotta nelle aree vicine al mare, che ha sempre creato ricchezza, prosperità, progressi tecnologici. Questo è vero ancora oggi, in una realtà dominata da catene logistiche più lunghe, dalla delocalizzazione produttiva, dal container come modalità prevalente di trasporto, almeno nei segmenti più direttamente collegati alla distribuzione delle merci. Oggi la ricchezza prodotta dai porti è trainata dalla crescita di servizi a maggior valore aggiunto. Ottenere questo obiettivo è possibile soprattutto attraverso una forte integrazione tra lo sviluppo dei porti e quello del tessuto produttivo: la vera alleanza deve essere quella fra porti e industria. I porti devono diventare un elemento di competitività territoriale, che favorisca lo sviluppo di attività produttive e di servizi che stanno a cavallo tra le attività strettamente industriali e quella portuali. L’altro aspetto rilevante e strategico è l’innovazione, che sta sviluppandosi anche a livello nazionale, dopo una fase in cui ha proceduto molto lentamente. La portualità è arrivata un po’ in ritardo ad una più avanzata gestione dei dati e dei flussi materiali e immateriali attraverso procedimenti digitali e lo sviluppo di sistemi telematici. Oggi, però, si sta facendo molto nei porti per recuperare questa distanza e vantiamo punti di eccellenza, come Livorno o Bari. Anche Trieste sta sviluppando sistemi avanzati. Devo dire che in alcune situazioni di collegamento tra la movimentazione portuale e i procedimenti doganali i porti italiani spesso si trovano in situazione più avanzata rispetto a quelli tedeschi. Ci sono anche società di eccellenza che operano in questo ambito.
L’altro aspetto, quello relativo al lavoro, alle risorse umane e allo sviluppo delle professionalità e competenze, è sempre stato un elemento trascurato nelle politiche nazionali del trasporto marittimo e della logistica. Una serie di fenomeni assolutamente negativi hanno abbassato la competitività del nostro sistema: la politica sul lavoro marittimo è stata assolutamente trascurata negli anni, la deregolamentazione della gestione dei magazzini della logistica ha spesso creato, come a Piacenza, situazioni di vero e proprio degrado sociale, la totale deregolamentazione del lavoro ha favorito come reazione fenomeni di sindacalizzazione anche abbastanza ‘selvaggia’. Non c’è la volontà di costruire un dialogo sociale civile: nella logistica c’è stata una forte degenerazione, come nell’ambito dell’autotrasporto. Quello dei porti è un settore felice da questo punto di vista, perché la regolazione del lavoro è stata più stretta. Questo ha consentito di mantenere, di contenere e non vedere quei fenomeni di degrado che hanno colpito la competitività stessa del sistema logistico nazionale. Come convivono in questo pubblico e privato? Personalmente credo a un forte ruolo del pubblico. Sono Segretario Generale di un’Autorità di Sistema Portuale: noi interpretiamo il nostro ruolo nel senso di un forte “interventismo”; vogliamo sostenere il mercato con un sostegno incisivo alle attività operative svolte dai privati ricoprendo un ruolo di regolamentazione, vigilanza e attuando politiche attive del lavoro che favoriscono la formazione professionale. La mia teoria è che dove c’è un pubblico forte, un pubblico che regolamenta, un pubblico che può sostenere e che interviene, il mercato cresce, le persone stanno meglio, il lavoro ha più dignità e la competitività viene meglio difesa. Laddove invece prevale il degrado sociale, l’assenza di dialogo, l’assenza di regole, la competitività scende e non sale. L’esperienza mi dice questo.
Quali sono state le principali ricadute della nuova governance del sistema portuale italiano introdotta dalla riforma Delrio? Come si presenta ad oggi l’articolazione degli scali nazionali e delle autorità del sistema portuale? Sono stati compiuti passi importanti nella direzione di sfruttare meglio le potenzialità del Paese?
Mario Sommariva: Sarebbe un po’ presto per rispondere a questa domanda rispetto allo sviluppo dei processi che sono indotti dalla nuova legge e che certamente si dispiegano su tempi più lunghi, anche perché la gestazione delle leggi in Italia richiede appunto tempi lunghi. Tuttavia ci sono alcuni elementi, secondo me positivi, che stanno dispiegandosi o che probabilmente lo faranno nel tempo. Il primo è un maggiore coordinamento delle politiche infrastrutturali dal punto di vista della pianificazione: una pianificazione nazionale che indichi alcune priorità e temi a cui le Autorità portuali devono uniformarsi. Tengo moltissimo all’autonomia delle Autorità portuali, penso che sia una delle chiavi dello sviluppo. Le Autorità sono state un fattore dinamico di crescita, tuttavia in una fase più recente il sistema si è disarticolato e le spinte locali hanno prevalso indebolendolo. Di fronte all’Europa, che deve interfacciarsi sul piano delle infrastrutture con tutti gli stati, e di fronte alla necessità di sviluppare una pianificazione infrastrutturale su base europea, questa dispersione si è rivelata un limite e vi è stata la necessità di ridisegnare la governance e le priorità. Questo è stato fatto dalla Riforma. Per quanto gli effetti non si siano ancora manifestati completamente, molte cose sono state ridefinite e chiarite. Vi sono tutte le premesse per un sistema più razionale, che non duplica proposte infrastrutturali, che evita la competizione tra infrastrutture e investimenti. Quindi da questo punto di vista la riforma ha quantomeno posto dinanzi a noi un impianto positivo; dopodiché la scelta importante riguarda elementi soggettivi: ci vogliono uomini e donne capaci di portare avanti delle proposte efficaci. Mi auguro che anche il nuovo Governo continui nella direzione positiva indicata dalla Riforma, perché su alcune cose c’è bisogno di continuità. Questo è un altro elemento che rende l’Italia complicata, questa sorta di tela di Penelope continua. La politica delle infrastrutture e quella dei trasporti hanno bisogno di tempi lunghi per dispiegarsi. Occorrerebbe che il Paese fosse unito su alcune questioni di fondo per un arco di tempo di 15-20 anni, a prescindere dagli equilibri politici.
Fondamentale in questa chiave di lettura, al pari degli investimenti portuali, sono gli sforzi legati ai temi della retro-portualità e dell’intermodalità. Come si è intervenuti sul cosiddetto ‘ultimo miglio’ e sull’accessibilità ‘lato terra’? Quanto si è fatto per l’integrazione della rete ferroviaria e quali sono le potenzialità ancora inespresse?
Mario Sommariva: Se dovessi parlare della mia esperienza diretta e della realtà di Trieste dovrei dire che siamo campioni su questi temi: siamo passati in due anni da un traffico di 4.800 a 10.000 treni. Si è lavorato moltissimo proprio sull’ultimo miglio e sulla manutenzione dei collegamenti ferroviari, su una progettualità di più lungo termine di raccordo tra rete portuale e rete nazionale, con un accordo con RFI e con un fortissimo investimento dell’Autorità portuale. Abbiamo mantenuto una forte componente pubblica: anziché privatizzare la nostra impresa di manovra l’abbiamo trasformata in un’impresa che lavora non solo sulla rete portuale e sulla parte iniziale di presa in consegna della rete RFI, ma anche in un’impresa ferroviaria di corto raggio, che valorizza attraverso un sistema di treni-navetta il sistema retroportuale del Friuli Venezia Giulia, che è ricco ma sottoutilizzato. È un’esperienza pilota, anche a livello europeo perché la crescita del traffico del trasporto ferroviario intermodale è stata unica in Europa. Un dato: se noi consideriamo assieme il traffico di treni intermodali che ogni settimana viene generato dai due porti di Trieste e Capodistria, questi superano il traffico ferroviario di Rotterdam. Sono dati di uno studio realizzato da una società di consulenza olandese, quindi insospettabile. Trieste è stata favorita da questa propensione internazionale. A livello nazionale lo sviluppo dell’intermodalità è fortemente bloccato, in parte da fattori infrastrutturali, ma soprattutto, a mio avviso, da fattori organizzativi: la polverizzazione della domanda di trasporto da parte dell’industria o della grande distribuzione e la polverizzazione dell’offerta da parte del sistema di autotrasporto nazionale – che, pur con delle evoluzioni importanti negli ultimi anni, resta un settore frammentato, – impedisce lo sviluppo dell’intermodalità. Servirebbe quindi un ruolo di organizzazione del traffico da parte del pubblico più incisivo. Ci sono dei fenomeni che non possono essere semplicemente lasciati al mercato. Occorrono interventi regolatori dello Stato per quanto riguarda, per esempio, la riduzione della possibilità di circolazione dei camion su determinate arterie, l’imposizione di politiche di razionalizzazione di carichi: insomma, un’alleanza con l’autotrasporto. Occorre creare delle reti, anche telematiche, per generare le condizioni per un’organizzazione diversa dei viaggi, in modo tale che si crei una riduzione dell’impatto dell’autotrasporto sulle strade nazionali, Detto questo, vi sono porti che comunque hanno ottenuto buoni risultati, come La Spezia, che ha un’incidenza ferroviaria molto forte. Livorno potrebbe fare ancora meglio. Poi va affrontato il tema del Mezzogiorno. Gioia Tauro, per esempio, è un porto che, per i volumi che tutt’ora presenta, nonostante la crisi a cui prima abbiamo accennato rispetto alla competizione dei porti nordafricani e del Pireo, potrebbe fare di più se venissero messi in opera dei collegamenti ferroviari che creassero un’alternativa al transhipment. Sul transhipment si crea pochissimo valore aggiunto: il mercato dei noli marittimi, per effetto del gigantismo, è in forte difficoltà. Pertanto un porto che si basa solo sul transhipment farà fatica a crescere e creare ricchezza. Lavorare sulle ferrovie sarebbe vitale, soprattutto per i nostri porti del Mezzogiorno, che sono favoriti nel trovarsi direttamente sulle linee marittime prospicienti a Suez, ma sfavoriti sul piano dei collegamenti ferroviari.
Malgrado le riforme e gli investimenti infrastrutturali effettuati, restano ancora numerose sfide aperte per il sistema portuale nazionale. Dal ‘gigantismo navale’ all’aggancio ai principali corridoi europei. Quali sono a suo giudizio gli aspetti su cui è urgente intervenire?
Mario Sommariva: Il tema del gigantismo navale andrebbe affrontato – anche rapidamente – a livello sovranazionale, perché vi è un duplice problema. In primo luogo la questione è quella dell’assetto oligopolistico del mercato, in particolare sotto il profilo del trasporto container, che rischia, sul piano internazionale, di creare per alcuni paesi una totale dipendenza: alcuni paesi africani, ad esempio, che non hanno flotte, dipendono totalmente da alcuni grandi liner del trasporto container per tutto quello di cui hanno bisogno. Una volta, quando funzionava meglio l’ONU, non era così e un ruolo importante era svolto da organismo internazionale, l’UNCTAD – la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo –, c’erano delle convenzioni internazionali che sancivano degli accordi che, pur non avendo funzionato molto, almeno affermavano un principio: il 40% allo Stato che importa, 40% a quello che esporta e 20% ai terzi. È una regola che è stata ovviamente travolta dalla globalizzazione verso la seconda metà degli anni Settanta. Non mettere nessuna regola però pone dei seri problemi e questo aggrava quei fenomeni di accentramento in poche mani delle redini del potere economico, sia nell’ambito del trasporto marittimo che in quello della circolazione delle risorse finanziarie. La seconda questione è di carattere puramente economico: il gigantismo ha creato una sovraccapacità di stiva che ha effetti distruttivi, che sembra quasi finalizzata ad una sorta di lotta per la sopravvivenza in cui si lavora per distruggere il proprio concorrente. È una lotta che farà molte vittime ed ha già portato a fallimenti. Sostanzialmente l’80% del mercato è in mano a cinque operatori, c’è una forte concentrazione e la cosa paradossale è che questa sta comunque portando ad una depressione dei noli: eravamo arrivati a meno di 100 euro per un nolo tra la Cina e l’Europa, quando portare una merce con un camion da Trieste a Udine costa 400 euro. Sono situazioni paradossali relative alle economie di scala. Le economie di scala hanno in parte salvato la situazione finché il costo del carburante era basso, ma ora che il prezzo del carburante si è rialzato le società sono in sofferenza, lo sono tutte le grandi compagnie di navigazione: non ce n’è una che guadagni, il settore bancario sta abbandonando lo shipping. Per anni il settore è stato pompato con il credito facile, soprattutto legato all’industria cantieristica: è una sorta di bolla alla cui creazione hanno contribuito molto, ad esempio, i coreani. Tutto ciò è accompagnato oggi dall’avvento di una forma di neoprotezionismo: la guerra commerciale fra USA e Cina ha già prodotto una contrazione del traffico marittimo mondiale nel primo semestre del 2018. In questa situazione la mia opinione è che non si debba inseguire il gigantismo. Servono organismi sovranazionali, servirebbe un’azione europea, dovrebbe essere una situazione da regolare e a cui metterne fine. In caso contrario il rischio di difficoltà del sistema è forte, anche se spero che non avvenga, perché sarebbe molto grave. Per inseguire il gigantismo occorre moltiplicare le infrastrutture, anche se è difficile, alcuni costi sono straordinariamente alti. Per cui occorre prudenza su questo tema. I corridoi europei sono, per molti versi, più delle idee che delle reali opzioni. Intanto perché l’Europa sui corridoi non ha realmente adottato degli investimenti decisivi. Certamente rappresentano un sistema di circolazione venosa e arteriosa dal punto di vista economica, che va certamente sviluppato. Tuttavia si tratta di una visione che si lega all’idea positiva di un’Europa dove tutto circola si integra, mentre invece oggi ci troviamo nel quadro generale di un’Europa che chiude confini e dove non avanzano processi di integrazione, mentre i corridoi li presuppongono. I corridoi europei rappresentano soprattutto dei riferimenti per la programmazione e pianificazione degli stati, su cui costruire delle priorità. Ovviamente gli stati non debbono dimenticare le periferie, bisogna avvicinarle al centro, essendo questo un tema che ha favorito il degrado dell’Europa. Quindi il ragionamento andrebbe posto nel quadro di una politica europea diversa da quella che si sta prefigurando.
Uno sguardo da Trieste sull’evoluzione globale della logistica
Il porto di Trieste, che è una realtà che vanta una lunga storia e fama internazionale raggiunta già nel primo decennio del XIX secolo quando il primo scalo marittimo dell’Impero Austro-Ungarico rappresentava il settimo porto del mondo, il secondo del Mediterraneo per movimentazione di merci. Oggi il porto di Trieste occupa il primo posto tra i porti italiani, con un traffico merci che nel 2017 ha superato i 62 milioni di tonnellate e con una posizione chiave nelle principali partite marittime che riguardano l’Italia. Il caso di Trieste fornisce un prezioso contributo all’analisi dei fenomeni che stanno caratterizzando il complesso e articolato mondo dell’economia marittima. Quali sono i principali elementi che contraddistinguono il porto triestino? Su quali rotte e catene logistiche si concentra la sua attività?
Mario Sommariva: Il porto di Trieste intanto ha avuto sicuramente un grande passato in un contesto economico, politico e istituzionale molto diverso da quello attuale. Come Amministrazione del Porto stiamo tentando anche un’operazione culturale, quella di declinare una tradizione tutta al futuro. Trieste è una città che ama molto guardarsi alle spalle, al suo grande passato, ma noi vorremmo uscire dalla nostalgia e, pur guardando anche al passato, perché senza le radici non si va da nessuna parte, cercare di costruire un futuro possibile partendo da alcuni elementi: la ferrovia, il rilancio del porto franco anche in un contesto neo-manifatturiero, una forte attenzione all’aspetto sociale, alla tutela del lavoro e alla crescita professionale delle maestranze come politica pubblica, il massimo utilizzo possibile dell’accessibilità marittima di Trieste che, con i suoi alti fondali può accogliere le grandi navi che ormai rappresentano il riferimento dei traffici internazionali. Per quanto riguarda gli aspetti statistici credo senz’altro che anche quest’anno confermeremo il primo posto a livello nazionale, saremo sicuramente arrivati a superare i 62 milioni di tonnellate, per quanto un incendio in una raffineria di Ingolstadt abbia rallentato negli ultimi mesi i volumi del traffico petrolifero. C’è una crescita imponente, per taluni aspetti strabiliante, sui container, supereremo i 700.000 TEU partendo dai 480-500.000 TEU del 2015: una crescita eccezionale avvenuta in pochi anni, favorita appunto dalla crescita del traffico ferroviario, grazie a questo intreccio fortissimo col traffico, che permette a Trieste di essere il porto della Mitteleuropa, dell’Ungheria, dell’Austria, della Baviera, della Repubblica Ceca, con un aggancio tra passato glorioso e presente. Credo che la ricetta stia in queste linee di tendenza: ferrovie, porto franco e lavoro. Sono questi i tre elementi su cui fondiamo una strategia che in questa fase ci sta dando sicuramente soddisfazioni importanti e soprattutto ha accresciuto l’interesse per il porto di Trieste a livello internazionale, grazie a un lavoro straordinario del Presidente Zeno D’Agostino nelle relazioni, soprattutto per quanto riguarda i mercati asiatici e del mondo arabo e caucasico. Stiamo riportando Trieste nel contesto globale.
Considerando tali peculiarità – il ruolo dei collegamenti ferroviari intermodali, principale porto ferroviario dell’Europa meridionale e lo status di porto franco con il regime di zone franche le cui agevolazioni riguardano non solo il traffico delle merci ma anche la manifattura, che rappresentano un elemento di fortissima attrattività per la nascita di trasformazione industriale ad alto valore aggiunto. Ci troviamo di fronte all’applicazione dell’economia portuale di un nuovo paradigma economico: quali sono le prospettive che nascono dall’integrazione tra questi due asset?
Mario Sommariva: Non voglio essere così presuntuoso da pensare che siamo di fronte a un nuovo paradigma, perché tutto sommato questo tentativo tra intreccio di attività industriale e portuale è uno degli elementi costanti dello sviluppo della portualità del Nord Europa. Da un certo punto di vista non stiamo inventando niente, stiamo pensando delle soluzioni cucite sulla nostra realtà territoriale e, come diceva mia madre, ‘facendo fuoco con la legna che si ha’. Un esempio: la riconversione di un’area importante dello stabilimento della Wartsila – ex grandi motori – e l’attività manifatturiera collegate al porto sotto la gestione dell’Interporto, che è una nostra partecipata, utilizzando il tutto in regime del tutto franco. Qui si è ottenuto un successo importante nel luglio 2017, il decreto che disciplina la gestione amministrativa del punto franco. che si attendeva da venticinque anni. Il decreto conferisce poteri amministrativi molto importanti alle Autorità di Sistema. Questo permette l’ottimizzazione di tutte le aree retroportuali esistenti, degli interporti esistenti a livello regionale, la gestione di una compagnia ferroviaria che collega il tutto in modo ottimizzato, l’attrazione di investimenti in aree retroportuali con il regime franco, una serie di soluzioni amministrative nuove, come l’acquisizione del consorzio industriale del vecchio ente di sviluppo industriale del porto di Trieste sotto la responsabilità dell’Autorità portuale. Tutto questo ha fatto sì che l’Autorità di Sistema faccia veramente sistema, mettendo insieme tutti gli asset possibili con una strategia unitaria, con la missione dello sviluppo e della creazione di lavoro possibilmente di qualità, regolamentato e retribuito dignitosamente, cercando di usare tutte le reti che ci sono. Non credo si tratti di un paradigma, ma si un esperimento di buona amministrazione.
Il porto di Trieste opera pienamente inserito nel contesto regionale del corridoio marittimo dell’Alto Adriatico, un contesto dalla vocazione europea caratterizzato dalla necessità di lavorare in chiave transfrontaliera. Quali sono le potenzialità e criticità di questo assetto? Quali i rapporti di competizione e cooperazione sono in essere con i porti italiani di Ravenna e Venezia e con quello sloveno di Koper e con quello croato di Rijeka? Come opera la North Adriatic Port Association?
Mario Sommariva: Sicuramente c’è una fase di stasi della NAPA (North Adriatic Port Association) che a mio avviso può e deve essere rilanciata, perché il mar Adriatico è di per sé un corridoio, ha la forma di un grande canale. I porti sono tutti in competizione tra di loro, ma ci sono situazioni e ruoli diversi. In realtà la vera competizione è tra Trieste e Koper, che fanno sostanzialmente lo stesso mestiere pur intervenendo su traffici diversi. La competizione è sul segmento contenitori, settore su cui abbiamo fatto dei progressi importanti, stimolati dalla competizione con Koper, che un porto che è stato amministrato molto bene e che ha fatto cose importanti in questi anni straordinari. Grazie a questo positivo stimolo competitivo, insieme abbiamo la possibilità di sviluppare dei volumi che possono, in qualche modo, erodere qualche spazio competitivo rispetto ad Amburgo (che credo già ne risenta), Rotterdam o Anversa: se facciamo bene le cose secondo me ce ne è per tutti. Per gli altri porti sul segmento container non c’è competizione per via dell’accessibilità marittima: Venezia ha dei problemi ad andare sopra le 8.000 TEU come stazza di navi, Ravenna è in situazione di difficoltà ancora maggiore, Rijeka è molto periferico dal punto di vista dei collegamenti, perché la parte ferroviaria e stradale croata sono molto deboli. Sono porti, però, che hanno dei loro entroterra, sia Ravenna che Venezia che Rijeka, entroterra che non vengono scalfiti da Trieste. Venezia, ad esempio, ha alle spalle un retroterra industriale che è enormemente più forte di quello di Trieste e non verrà mai da questo scalfito: l’area padovana, l’area industriale attorno a Venezia stessa, quella di Verona, lo stesso pordenonese, sono aree che sono servite naturalmente da Venezia. Torno a quel discorso dei 100-150 km che facevo prima: questa è la vocazione diretta di questi porti. Per Ravenna è la stessa cosa: è un porto che ha per sua natura, intorno al suo essere porto-canale, una serie di attività industriali che sviluppano traffico e poi c’è una parte di territorio dell’Emilia Romagna, dove è presente un tessuto produttivo importante. Trieste fa un altro mestiere. La sinergia del NAPA può essere importante per sviluppare una politica di corridoio perché, come dicevo prima, naturalmente l’Adriatico è un grande canale, in cui si possono sviluppare servizi comuni, procedure che aumentino la competitività per tutti, creare standard comuni per le professionalità, il lavoro, la formazione: ci sono molte cose che si possono fare dove la collaborazione può essere estremamente fruttuosa.
Parlavamo poco prima dell’importanza di innovazione e digitalizzazione. Nello specifico su questo punto cosa sta attuando Trieste come realtà portuale?
Mario Sommariva: Trieste sta sviluppando un Port Community System, un sistema integrato di digitalizzazione per la gestione dei dati per tutti gli operatori e le istituzioni anche pubbliche che operano nei porti. Questo progetto è arrivato ad uno stadio molto avanzato, sviluppa tutta una serie di linee di processo che riguardano procedimenti amministrativi, la gestione dei flussi del traffico pesante, le funzioni di controllo della dogana, attività meramente di informazione, la gestione delle statistiche del porto; abbiamo un sistema che rileva le statistiche in tempo reale. Tutto questo dal punto di vista gestionale rappresenta un elemento straordinario di controllo di quanto succede nel porto; il tema degli accessi della security è un tema molto sensibile. C’è un’attività molto intensa che si giova anche dell’acquisizione di linee di finanziamento comunitario. Segnalo che stiamo gestendo oggi venti progetti finanziati da fondi comunitari, tre anni fa era solo uno insomma: anche qui abbiamo dato vita ad una certa dinamicità e, infatti, la gran parte dei progetti che stiamo sviluppando è di tipo tecnologico.
Per quanto riguarda l’iniziativa cinese della Belt Road Initiative (o ‘Via della Seta’) è noto l’interesse di Pechino per potenziare le tratte marittime che fanno perno sull’Europa del Sud – per esempio dall’acquisizione del Porto del Pireo. In questo quadro quale può essere il ruolo del porto di Trieste?
Mario Sommariva: Della Via della Seta se ne parla molto, ma anche a sproposito. La BRI è un progetto geopolitico complesso che non riguarda solo i traffici, non è un progetto soltanto infrastrutturale e va guardato anche nella sua complessità: da questo punto di vista credo che i dirigenti cinesi siano abbastanza animati da una volontà in qualche modo ‘neocoloniale’, ma anche da una lungimiranza verso i destini del mondo: credo che sia un progetto da osservare nel complesso ma con rispetto. Detto questo, Trieste vuole essere parte del gioco, non teme di essere fagocitata, perché le normative italiane – qui ritorna il ruolo del pubblico –, nel caso in cui gli investitori cinesi si ritagliassero una possibilità, come si dice oggi in modo elegante, di costruire una strategia ‘win-win’, non consentirebbero la vendita dei porti. I porti non si vendono, perché il demanio non si vende: c’è un regime pubblicistico che consente allo Stato, al pubblico e alle autorità portuali di determinare le regole di utilizzo dei porti. Quindi ci si confronterà, come già sta avvenendo perché l’interesse è reale, ma con un confronto da pari a pari, perché il porto è nostro. Se non si metteranno a disposizione i gruppi cinesi le infrastrutture si realizzeranno sulla base delle regole vigenti. Peraltro, i cinesi sono profondamente convinti che l’Italia in generale abbia molto da dare loro dal punto di vista del profilo culturale e oltre; non c’è secondo me in questa situazione, stanti le regole a nostra disposizione, il pericolo di essere fagocitati. Certo, ci sono modi diversi con cui affrontare questi dialoghi: se lo si fa con uno spirito di subalternità, con la mano tesa e chiedendo la carità, ovviamente si parte da una posizione di debolezza, se lo si fa con il giusto orgoglio di rappresentare un grande Paese e di avere, come nel nostro caso, un’infrastruttura che può essere sviluppata, ma che comunque è un asset logistico e di collegamento dei traffici marittimi e ferroviari importante, si gioca da pari a pari. Quindi sotto questo punto di vista è un bene: vengono, sono già venuti e verranno. Spero si concludano presto degli accordi che porteranno ad investimenti importanti da parte cinese su Trieste e contribuiranno allo sviluppo del porto e del territorio. Questo è lo spirito con il quale guardare a questa vicenda.
Per concludere, viste le caratteristiche emerse in quest’intervista riguardo al Porto di Trieste e alla sua vocazione particolare rispetto al resto della portualità italiana, quale può essere nel suo complesso il contributo che il porto può dare al sistema-Italia?
Mario Sommariva: Lo dico con grande circospezione e prudenza, e anche in modo sommesso: può dare un contributo di innovazione: la visione strategica che il porto di Trieste ha dispiegato ha prodotto su tutta una serie di fenomeni che riguardano la portualità, dai collegamenti ferroviari e di gestione ferroviaria alla gestione del lavoro, dal rapporto fra porto e manifattura all’utilizzo delle zone franche, alla questione del ruolo pubblico/privato, e quindi anche di un’innovazione sotto il profilo della governance. Credo che si tratti nel complesso di un contributo di innovazione, di elaborazione, di visione, che può essere condivisa o meno, ma deve essere principio di confronto. Da un certo punto di vista non è un caso se Zeno d’Agostino è presidente di AssoPorti, dell’Associazione dei Porti italiani. Probabilmente questo è avvenuto perché è stata riconosciuto a Trieste un ruolo innovativo e propulsivo. Aggiungo l’attenzione per la questione delle tecnologie, che può essere riconosciuta a Trieste. Questo lo dico senza nessuna arroganza e senza pensare che i nostri modelli siano vincenti rispetto ad altri o debbano essere imposti a qualcuno. Però credo che abbiamo proposto qualcosa di nuovo, come la conclusione del piano dell’organico del porto, che è una pianificazione in materia di lavoro che abbiamo impostato in un modo, credo, particolarmente efficace. C’è un’elaborazione, anche sui modelli organizzativi e sull’intreccio tra traffici e organizzazione del lavoro, fabbisogni di formazione e disciplina del lavoro portuale, che mi pare possa essere utile anche sul piano nazionale. Questo è il contributo che possiamo fornire, molto serenamente e senza pensare di costituire un modello. Stiamo provando a dare soluzione innovative a problemi che tutti i porti vivono, e che debbono però essere affrontati. Se c’è un potenziale contributo crediamo ad un’Autorità Portuale che si sporchi le mani e che entri nel vivo dei problemi, cercando di districarsi e non nascondendosi di fronte ai problemi: questo è il nostro approccio e questo può essere il nostro contributo.