L’economia sociale come modello di sviluppo: ripensare la cooperazione per il futuro del Paese. Intervista a Simone Gamberini
- 20 Gennaio 2025

L’economia sociale come modello di sviluppo: ripensare la cooperazione per il futuro del Paese. Intervista a Simone Gamberini

Scritto da Giacomo Bottos

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Il 24 e 25 ottobre 2024 si è tenuta a Bologna la Biennale dell’Economia Cooperativa, dal titolo “Futuro Plurale”. L’evento ha riunito voci autorevoli del mondo della cooperazione, delle istituzioni, della politica e dei sindacati per due giorni di dibattito e riflessione con lo scopo di affrontare le grandi sfide globali attraverso il prisma della cooperazione, dell’inclusione, della solidarietà e dell’innovazione sociale. 

In questa intervista, Simone Gamberini – Presidente di Legacoop – riflette sul ruolo della cooperazione come strumento strategico per lo sviluppo del Paese, evidenziando la necessità di ricostruire un patto con le comunità, garantire la dignità del lavoro e promuovere un’economia più equa e sostenibile. La cooperazione, secondo Gamberini, può diventare protagonista di una nuova fase di crescita attraverso la partecipazione attiva alla definizione delle politiche industriali, il rafforzamento delle alleanze con diversi attori economici e sociali, e una più stretta collaborazione a livello europeo e internazionale.

A questo link una pagina del nostro sito che approfondisce i temi trattati nella Biennale dell’Economia Cooperativa, che verrà progressivamente aggiornata con i link ai contributi e alle interviste che dedicheremo all’evento.


Quali erano gli obiettivi alla base della Biennale dell’Economia Cooperativa e quale il messaggio fondamentale che volevate lanciare?

Simone Gamberini: Innanzitutto, volevamo riportare il pensiero cooperativo al centro della discussione a livello nazionale, e la Biennale è stata il palcoscenico ideale per restituire centralità alla cooperazione come modello di sviluppo per il Paese. Abbiamo scelto di parlare di economia sociale per sottolineare l’urgenza degli investimenti in modelli che pongano le persone al centro, in alternativa all’attuale paradigma dominato dall’estrazione di valore aggiunto. Questa riflessione, che è il risultato di un anno e mezzo di lavoro, non rappresenta solo un momento di riposizionamento per il mondo cooperativo nel contesto dei corpi intermedi, ma una visione che guarda all’Italia e al continente europeo nel quadro di un dibattito presente in molti Paesi. In Europa, le discussioni tendono spesso a concentrarsi su temi specifici, come il rafforzamento delle politiche industriali citato nel rapporto Draghi e nel rapporto Letta, ma il modello di sviluppo europeo negli ultimi decenni ha cercato di competere a livello globale spesso accettando compromessi significativi come la compressione dei salari, utilizzata come leva competitiva in aggiunta agli investimenti tecnologici. In Italia questa tendenza ha portato a trent’anni di stagnazione salariale, crescita economica quasi nulla e aumento drastico delle disuguaglianze. Partendo da questa consapevolezza, l’Unione Europea ha riconosciuto la necessità di promuovere un’economia che integri principi di coesione sociale e distribuzione equa degli utili, in un tentativo di riportare al centro delle politiche economiche le persone, tramite l’Action Plan sull’economia sociale e alcune raccomandazioni della Commissione Europea. La cooperazione, che rappresenta l’80% dell’economia sociale in Europa, è oggi considerata una risorsa trasversale applicabile a tutti i settori economici. Un caso interessante è quello della Spagna, che è riuscita a coniugare il recupero della competitività con un forte sostegno all’economia sociale. Anche la cooperazione italiana ha un grande potenziale perché opera in tutti i settori dell’economia seguendo principi che favoriscono, insieme alla sostenibilità economica, la valorizzazione delle comunità, dei lavoratori e dei soci.

 

Il termine economia sociale, dunque, è anche legato a una strategia europea impostata negli ultimi anni. Perché questo termine è più adatto di altri a esprimere questo tentativo, rispetto a terzo settore o simili?

Simone Gamberini: La scelta di questo termine rappresenta chiaramente la volontà di veicolare l’idea della promozione di tutte le forme di economia sociale da una nicchia settoriale a una visione più generale, che includa le politiche industriali europee da un punto di vista strategico. In molte regioni italiane sta avvenendo questo passaggio culturale che coinvolge vere e proprie strategie di sviluppo. La Biennale, in questo senso, ha avuto l’obiettivo di rimettere al centro il ruolo costituzionale della cooperazione, che può svolgere una funzione di ricostruzione del Paese, forte della capacità di unire la dimensione economica con la dimensione sociale, come sottolineato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo intervento.

 

Proprio la presenza del Presidente Mattarella di per sé è stata un fatto importante. Nel suo intervento, quali sono stati gli elementi più rilevanti?

Simone Gamberini: A mio avviso, partendo dalle origini della cooperazione nel dopoguerra, il Presidente Mattarella è riuscito a collegare il contenuto più autentico del dettato costituzionale alla realtà del presente. Ha citato e valorizzato alcuni articoli della Costituzione, ricordandoci che non è un caso se i padri costituenti, pur provenendo da tradizioni politiche e culturali diverse, hanno individuato nella cooperazione un modello capace di integrare la dimensione economica e quella sociale per una maggiore coesione sociale. Un messaggio particolarmente forte, soprattutto perché, se rapportato all’attualità, ci porta a riflettere sulla centralità della cooperazione e dell’economia sociale per una politica industriale strategica per il Paese. Questa riflessione è molto vicina al percorso che abbiamo intrapreso negli ultimi anni, partito dalla percezione del rischio di vedere il modello cooperativo omologarsi a quello dominante degli ultimi vent’anni: talvolta le cooperative hanno smarrito la loro identità, avvicinandosi ai valori e alle modalità del capitalismo tradizionale. Tuttavia, oggi questo modello è sempre più messo in discussione, e il richiamo è quello di tornare ai principi originari della cooperazione e alle sue funzioni fondamentali. Questo discorso coinvolge tutti: cooperative, Stato, Unione Europea. L’obiettivo più alto deve essere quello di favorire la coesione sociale, una redistribuzione più equa e una maggiore valorizzazione del lavoro. È quindi necessario affrontare il tema dei salari, che anche nel mondo cooperativo sono stati spesso compressi nel riflesso di una tendenza generale che deve essere superata.

 

La cooperazione ha sempre risposto ai bisogni emergenti della società adattandosi a ogni fase storica. Tuttavia, nella fase più recente, sembra che una nuova ondata cooperativa non si sia ancora verificata. Quali sono i fattori principali che l’hanno impedito e su cosa bisognerebbe agire per dare lo slancio necessario?

Simone Gamberini: In realtà chi vive la cooperazione ogni giorno sta notando sempre di più un grande interesse tra i giovani, che potrebbe proprio essere l’avvio di questa nuova ondata, però è vero che oggi viviamo un momento storico diverso rispetto alle crisi precedenti. La cooperazione è passata attraverso diverse fasi storiche. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i bisogni erano tanti e lo Stato non era in grado di intervenire efficacemente. In quella prima fase, la cooperazione è nata come pura auto-organizzazione, trovando una risposta ai bisogni più elementari: il lavoro, la casa, la tutela sanitaria e previdenziale. Nel dopoguerra, grazie a scelte strategiche, la cooperazione è stata uno degli strumenti fondamentali per permettere al Paese di ripartire e ricostruirsi. La cooperazione ha risposto ai bisogni di una nazione in crescita, che stava diventando una grande economia industriale, ma che necessitava di strumenti per riequilibrare le disuguaglianze. In quel periodo è emerso, inoltre, il modello della cooperazione sociale, nato da un patto con le comunità per garantire servizi essenziali a individui e famiglie. Oggi ci troviamo in una fase completamente diversa, dentro un modello economico dominato da un’interconnessione globale fortissima, con grandi attori capaci di superare i confini nazionali e agire in modo estremamente flessibile e mirato. Quello che manca è un ruolo attivo e strategico da parte dello Stato per favorire lo sviluppo della cooperazione con una politica industriale chiara, così come è avvenuto nel Dopoguerra. Non parlo di fornire risorse economiche, ma di delineare un quadro strategico che permetta di affrontare le sfide globali senza subire passivamente delle decisioni prese altrove. Per questo motivo abbiamo rivisto il nostro approccio, cercando un livello di interlocuzione con le istituzioni sia qualitativamente che quantitativamente più elevato. È necessario ricostruire un patto con la comunità, ma questa comunità non è più solo locale: è nazionale e, soprattutto, europea.

 

Quindi non si tratta solo di fare un’azione di rappresentanza o di lobbying nei confronti delle istituzioni pubbliche, ma di legare questo aspetto a un’azione culturale.

Simone Gamberini: Sì, esattamente. E un’azione culturale di questo tipo non può essere portata avanti in solitudine. Questo è uno degli aspetti che abbiamo cercato di valorizzare proprio durante la Biennale: se penso alla società italiana o ai modelli di impresa e associazioni di rappresentanza, il tema centrale oggi è come costruire alleanze che rafforzino il modello cooperativo e ne consolidino la pratica culturale e strategica. Nel mondo dell’economia sociale, per esempio, i soggetti rappresentati nel Forum del Terzo Settore sono spesso strettamente connessi al mondo cooperativo, perché molte delle cooperative nate negli ultimi quarant’anni derivano da un’evoluzione di modelli associativi. Ma anche le imprese non cooperative trovano spesso un’opportunità nella cooperazione: aderendo a consorzi cooperativi o aggregazioni, riescono a essere più competitive e a distribuire meglio il valore aggiunto all’interno delle filiere produttive, che sono una caratteristica peculiare dell’economia italiana. Pensiamo ai piccoli produttori agricoli: quando si associano in cooperative riescono a essere molto più tutelati nell’accesso al mercato e nella protezione dai rischi. Questo perché l’organizzazione cooperativa garantisce maggiore coesione e una distribuzione più equa del valore aggiunto. Serve una strategia chiara che investa nell’economia sociale e nella cooperazione, riportando al centro la dignità del lavoro e delle persone in una alleanza con diversi mondi, come l’artigianato e l’agricoltura, dove i consorzi artigiani e cooperativi continuano a rappresentare un modello efficace per agire in modo diverso sul mercato.

Queste alleanze devono però andare oltre il semplice utilizzo tecnico degli strumenti cooperativi per creare un modello di sviluppo sostenibile che generi valore aggiunto per la società e le imprese in un’ottica collaborativa, non competitiva come purtroppo è accaduto negli ultimi anni. Un esempio evidente, in questo senso, è il settore dei servizi sociosanitari, dove il patto originario con le comunità – che vedeva nella cooperazione sociale lo strumento per rispondere a molti bisogni – si è affievolito. Oggi prevalgono logiche di gara d’appalto al massimo ribasso, che puntano esclusivamente a ridurre i costi senza valorizzare il contributo qualitativo che la cooperazione può offrire alle comunità. In questo scenario, spesso i competitor nella riduzione dei costi sono le associazioni del Terzo Settore che si trasformano in datori di lavoro per praticare dumping sul mercato. Ma c’è una differenza tra fare impresa e fare associazionismo: non si può sostituire un lavoro vero con un volontariato pagato simbolicamente, altrimenti si distrugge il valore economico e si alimenta un sistema insostenibile. Un altro tema è quello dell’innovazione e dei nuovi bisogni che richiedono risposte cooperative. Da anni discutiamo della proprietà cooperativa dei dati, una possibile strada per agire in un settore dove assistiamo alla presenza di colossi che operano in un sistema globale senza regole adeguate. Dovremmo capire come far scattare un movimento capace di affrontare queste sfide, ma da soli è impossibile farlo. Anche qui la strategia deve prevedere strumenti che favoriscano l’organizzazione e il coordinamento, senza lasciare tutto nelle mani dello Stato. È necessario regolare il sistema definendo quali attori possano agire sul mercato e come.

 

In alcuni ambiti l’immagine della cooperazione è stata danneggiata dal ricorso a bassi salari o da situazioni al limite della legalità. Come si può migliorare l’immagine della cooperazione, diffondere una visione positiva e proporre un modello che valorizzi coesione sociale, lavoro buono e innovazione?

Simone Gamberini: La prima cosa da fare è essere coerenti, perché non si può predicare un modello di sviluppo equo e sostenibile senza praticarlo. Negli ultimi dieci anni abbiamo lavorato proprio su questo, affrontando il rischio di omologazione e cercando di mantenere saldi i nostri principi. In collaborazione con le istituzioni abbiamo escluso dal sistema cooperativo quelle che abbiamo identificato come false cooperative, con un intervento che ha reso il nostro sistema più coerente con i suoi valori. Oggi, in settori chiave come la logistica e in parte della cooperazione sociale il lavoro da fare è ricostruire un patto di fiducia con gli interlocutori, ristabilire il legame con le istituzioni e le comunità e instaurare relazioni solide con partner produttivi che riconoscano il valore di una cooperativa sana. Nel settore della logistica abbiamo intrapreso un percorso di cambiamento profondo allontanandoci da un modello basato sull’intermediazione di manodopera e sull’esternalizzazione dei processi produttivi per posizionarci su una logistica integrata. Questo tipo di logistica non si limita a fornire manodopera, ma diventa parte integrante del processo produttivo. I soci delle cooperative che operano in questo modo rispettano i contratti nazionali agendo su un mercato che li valorizza. Il tema cruciale, però, è quale tipo di mercato vogliamo costruire, sia come Stato che come privati. Se l’obiettivo è un mercato basato sui bassi salari e sullo sfruttamento, noi non ci sentiamo parte di questa visione. Uscire da queste dinamiche richiede cambiamenti profondi nell’organizzazione delle cooperative, ma è necessario per ritrovare coerenza sia con i nostri soci sia con i lavoratori. Il problema sorge, dunque, quando vengono costituite cooperative al di fuori di una centrale organizzata e attenta a questi temi. Dobbiamo comunicare chiaramente che il valore aggiunto di crescere in modo diverso insieme alle istituzioni e al mercato va a beneficio della comunità, della società e dell’economia nel suo complesso. Non si tratta solo di rispettare le regole, ma di proporre un modello che generi valore per tutti. Molte aziende private oggi redigono bilanci sociali o di sostenibilità, poi esternalizzano gran parte del lavoro a soggetti che non rispettano contratti nazionali o standard etici. Questo approccio non è né sostenibile né competitivo. Se vogliamo competere con altri continenti o sistemi economici – asiatici, nordamericani o sudamericani – dobbiamo scegliere un modello di sviluppo basato su lavoro dignitoso e salari equi, riaffermando la centralità del valore cooperativo.

 

È possibile pensare a una crescita del mondo cooperativo anche in quei territori che non hanno una storia consolidata di cooperazione, oppure sarebbe preferibile partire dal rafforzamento delle aree in cui la cooperazione ha un’importante presenza storica?

Simone Gamberini: Nel 2024 mi è capito di recarmi a Sciacca, in Sicilia, per un’assemblea per gli ottant’anni di una cooperativa fondata nel 1944, subito dopo la liberazione della regione. Proprio nell’ottobre del 1944, con i decreti Gullo, i lavoratori agricoli iniziarono a coltivare i terreni incolti delle grandi proprietà terriere e questa cooperativa non si limitò a fornire una risposta economica, ma cominciò a rispondere anche a bisogni culturali e sociali, rompendo gli schemi consolidati. Il percorso non è stato privo di difficoltà perché il Presidente della cooperativa fu ucciso dalla mafia nel 1947. Ma, nonostante ciò, la cooperativa esiste ancora e continua a svolgere una funzione fondamentale, dimostrando come la cooperazione possa essere uno strumento per promuovere un modello economico basato sulla legalità e sulla risposta ai bisogni anche in territori complessi. Oggi in molte parti della Sicilia, nonostante istituzioni e tradizioni culturali spesso distanti dal mondo cooperativo, la cooperazione è riconosciuta e promossa; non solo come alternativa positiva all’illegalità e come risposta al bisogno di lavoro, ma anche come parte di un modello di sviluppo diverso, che riguarda tanto l’agricoltura quanto i servizi sociali. In province come quelle di Agrigento e di Trapani si stanno sviluppando cooperative innovative che rafforzano questa visione. Poi abbiamo l’esempio della gestione dei siti culturali in Sicilia, che per la maggior parte sono valorizzati dalle cooperative che spesso hanno iniziato a operare ancor prima dello Stato, preservando il territorio e costruendo attorno ai luoghi un sistema turistico integrato e connesso al sociale. È lo stesso modello che ha caratterizzato territori storicamente densi di cooperazione, come l’Emilia-Romagna o la Lombardia, dove il tessuto cooperativo si è diffuso capillarmente nella società. Nel Sud gli spazi di crescita sono oggi enormi. La chiave è sempre il riconoscimento politico del valore delle cooperative, sia come strumento economico che come soggetto capace di assolvere una funzione sociale, di promozione della legalità e di un modello di sviluppo sostenibile. Quando il riconoscimento avviene i risultati si vedono.

 

In merito a questi temi, quali sono le prospettive rilevanti emerse all’interno della discussione svolta alla Biennale?

Simone Gamberini: Partendo dal messaggio che abbiamo lanciato, il nostro obiettivo dichiarato è stato quello di aprire un “cantiere” di elaborazione culturale e strategica che si muova su due direttrici principali: il dialogo con la società e il lavoro al nostro interno. Legacoop non si è mai limitata a essere un’associazione d’impresa: per 140 anni ci siamo definiti un movimento. Essere un movimento significa creare le condizioni per cambiare le regole del gioco e, in ultima analisi, il modello di sviluppo; nei prossimi mesi vorremmo dare forma concreta a questa ambizione per presentare i risultati alla Biennale del 2026. Uno dei primi cantieri su cui vogliamo concentrarci riguarda il welfare, con l’obiettivo di costruire gli Stati Generali del Welfare in Italia, connettendoci con tutti i soggetti coinvolti: i decisori politici, le istituzioni e coloro che contribuiscono alla costruzione del sistema di welfare italiano. Proprio il welfare è stato il grande assente sia nell’ultima manovra finanziaria sia nelle politiche strategiche del governo; dunque, è un tema piuttosto urgente. Parallelamente, vogliamo lavorare con le altre associazioni d’impresa per creare un luogo di confronto dedicato alla politica industriale del Paese, perché crediamo che le associazioni economiche debbano giocare un ruolo chiave nel richiamare le istituzioni e la politica a un confronto serio e costruttivo. La politica industriale è un tema centrale che deve essere affrontato in modo strutturale, recuperando il ruolo dei corpi intermedi e ricostruendo spazi di pensiero ed elaborazione di politiche strategiche. La Biennale si è chiusa proprio con questa ambizione, che non riguarda però solo il contesto italiano. Per questo motivo abbiamo coinvolto la cooperazione spagnola, in particolare la cooperativa Mondragón, che ha lavorato a partire dall’esperienza dei Paesi Baschi per costruire un’alleanza su tutto il territorio spagnolo promuovendo un modello di sviluppo innovativo e inclusivo. Il dialogo tra Italia e Spagna è sempre più forte su questi temi e non è un caso che nel 2024 Confindustria abbia sottoscritto il suo primo accordo la Confederazione Spagnola delle Organizzazioni Imprenditoriali (CEOE) sul modello di sviluppo e sulle politiche industriali europee, ovvero su ciò che l’Europa deve fare per diventare più competitiva a livello globale.

 

Venendo all’Unione Europea, abbiamo visto come abbia avuto un ruolo propulsivo nel promuovere la riflessione sull’economia sociale. C’è la possibilità che la nuova Commissione prosegua questo lavoro?

Simone Gamberini: Sembra che la nuova Commissione sia stata costruita con una visione che riporta l’Europa indietro di vent’anni. Prima delle elezioni europee i rapporti Draghi e Letta avevano indicato una direzione che puntava a rafforzare l’unità europea, ma nel contesto dei cambiamenti negli equilibri internazionali a prevalere è l’idea di agire come singoli Stati. Nelle ultime elezioni europee questo si è tradotto negli ottimi risultati ottenuti dai promotori di nuove forme di sovranismo. Tuttavia, i problemi che affrontiamo – dalla difesa comune alle politiche industriali – richiedono risposte europee, poiché le nostre economie sono profondamente interconnesse: un’Europa unita è l’unica possibilità per costruire politiche comuni e ritrovare la competitività globale. Le politiche commerciali non possono essere lasciate ai soli rapporti bilaterali, pena la marginalizzazione dell’Europa come attore economico globale. Qui emerge il limite della politica che guarda esclusivamente al breve termine e al consenso elettorale, ignorando il medio-lungo termine, e si crea un paradosso: da un lato, si invoca il ritorno dello Stato nazionale; dall’altro, per sostenere i modelli di sviluppo è necessario rafforzare le istituzioni europee. Rimane da vedere se questa Commissione, caratterizzata da un orientamento di centrodestra, riuscirà a portare avanti questo processo. Il sentimento popolare sembra spingere verso un arretramento dell’integrazione europea, mentre i bisogni reali del continente – crescita economica sostenibile e miglioramento delle condizioni di vita – richiedono più Europa. Questo è particolarmente evidente per il mondo delle imprese, che ha una visione più globale e comprende la necessità di competere su scala internazionale. Anche noi, come dicevo, in quanto associazione di rappresentanza, stiamo lavorando per promuovere un’azione politica che metta l’Europa al centro, superando le singole politiche nazionali. Ritengo che si arriverà inevitabilmente a un rafforzamento delle istituzioni comuni, perché è indispensabile per garantire stabilità e crescita. È su questo che si giocherà il futuro del nostro continente.

 

Qual è, invece, la dimensione internazionale della cooperazione?

Simone Gamberini: All’International Cooperative Alliance a New Delhi, a fine 2024, ho assistito una partecipazione straordinaria. Una chiara fotografia del panorama globale della cooperazione, dove sono state evidenziate sfide e opportunità. I cooperatori dei Paesi BRICS hanno mostrato una visione chiara sia per i loro territori sia in una prospettiva internazionale e così anche il movimento cooperativo americano. L’Europa, invece, purtroppo era presente in modo frammentato, con rappresentanze che riflettevano interessi nazionali diversi. Questa spaccatura ci mostra quanto sia urgente sviluppare una maggiore consapevolezza del nostro ruolo. Viviamo una fase geopolitica diversa rispetto a quella che ha accompagnato la globalizzazione e, se l’Europa non sarà in grado di proporre un modello di sviluppo originale e competitivo, rischiamo di perdere le condizioni che finora hanno sostenuto il benessere e la coesione sociale. Altri sistemi-paese si muovono con una visione più coesa e strategica, come l’India: la cooperazione indiana, con i suoi 290 milioni di soci e un ministero dedicato, è vista come uno strumento chiave di politica sociale e industriale. In Europa, invece, nonostante la cooperazione e l’economia sociale rappresentino quasi il 15% del PIL, siamo ancora bloccati da discussioni frammentarie e da politiche basate su interessi nazionali.

L’Action Plan sull’economia sociale proposto dalla Commissione Europea e i tentativi di garantire la competitività del nostro sistema soffrono ancora la mancanza di una visione unitaria. La lentezza decisionale è preoccupante, perché il resto del mondo avanza a una velocità che rischiamo di non comprendere a pieno. La politica e le istituzioni europee devono assumersi la responsabilità di interpretare questa fase, superando l’approccio di breve termine per adottare politiche strutturali di lungo respiro. Il tema non è legato al colore politico, ma a un’assenza di pensiero strategico sul ruolo dell’Europa nel mondo. La demografia e la tenuta dei sistemi previdenziali e sociali sono due delle sfide imminenti e senza un cambio di rotta il nostro continente rischia di scivolare verso un lento declino. È il momento di agire, a partire dalle capacità di ciascun attore, grande o piccolo, che può contribuire al cambiamento. La cooperazione e l’economia sociale possono e devono essere tra i protagonisti di questo processo. Servono decisioni immediate e una visione chiara per evitare di trovarci fra vent’anni a constatare amaramente ciò che avremmo potuto fare. Il 2025 è stato dichiarato dell’Assemblea delle Nazioni Unite l’Anno internazionale della cooperazione e questo rappresenta un’opportunità che dovremmo valorizzare, anche in Italia.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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