La Cina ha vinto. Intervista ad Alessandro Aresu
- 11 Settembre 2025

La Cina ha vinto. Intervista ad Alessandro Aresu

Scritto da Luca Picotti

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Alessandro Aresu è saggista, consigliere scientifico di «Limes» ed esperto di affari internazionali. Tra le sue numerose pubblicazioni: La Cina ha vinto (Feltrinelli 2025), Geopolitica dell’intelligenza artificiale (Feltrinelli 2024), Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia (Feltrinelli 2022), I cancelli del cielo. Economia e politica della grande corsa allo spazio. 1950-2050 (con Raffaele Mauro, Luiss University Press 2022) e Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina (La nave di Teseo 2020).

Questa intervista approfondisce alcuni temi del suo ultimo libro – La Cina ha vinto – a partire dal ruolo degli intellettuali e del pensiero strategico negli Stati Uniti e in Cina, dalla centralità manifatturiera e tecnologica cinese e dall’importanza che nella sfida cinese giocano il capitale umano e i talenti scientifici.


Figura centrale di La Cina ha vinto è il professor Wang Huning, autore del saggio America Against America. Inizierei dunque dal ruolo degli intellettuali in rapporto al potere. Quanto conta in Cina l’elaborazione teorica nella prassi politica? Quali differenze vi sono, ad esempio, rispetto al ruolo degli intellettuali nella democrazia statunitense, anche alla luce delle nuove correnti di pensiero interpretate, o comunque in parte richiamate, da questa seconda amministrazione Trump?

Alessandro Aresu: Ho deciso di concentrarmi su Wang Huning perché si tratta di una figura a dir poco affascinante per chiunque consideri interessante il rapporto tra intellettuali e potere. La storia del nostro pensiero è piena di intellettuali che hanno voluto influenzare il potere, da Platone a Alexandre Kojève. Alcuni di essi sono grandi sconfitti, come Machiavelli, e da quella sconfitta pratica si origina poi la possibilità di pensare e di scrivere. La sua disfatta personale è il resoconto della disfatta dell’Italia, come si legge nel bel libro di Alberto Asor Rosa, a sua volta parte di quella stagione di vari libri importanti su Machiavelli che qualche tempo fa Antonio Funiciello aveva analizzato su il Mulino. In questi casi di giganti del pensiero, abbiamo quindi non tanto l’influenza diretta sulla realtà del loro tempo, ma la storia degli effetti del loro pensare. Wang Huning, invece, è appunto prima “il professore di Shanghai”; poi, dal 1995, la sua vita è totalmente politica, al servizio del Partito Comunista Cinese. Non è un intellettuale sconfitto. Tutt’altro. L’altra ragione è lo specchio che ci mostra Wang Huning: professore di politica comparata, esperto di pensiero politico occidentale. I suoi studi su Jean Bodin, le traduzioni di Raymond Aron e di Robert Dahl, la curiosità per Samuel Huntington. Il viaggio negli Stati Uniti, ovviamente. Bisogna immaginarlo che traduce dall’inglese e dal francese, che cita parole in quelle lingue ai suoi studenti, che parla loro di Max Weber, come scrive del resto nel suo diario politico. Bisogna sentire il chiaro uso del pensiero conservatore occidentale per legittimare la sovranità del Partito Comunista Cinese, il suo dominio. E, anche, la sua ferocia.

Nella cultura cinese il letterato, come ci insegnano Ètienne Balazs e altri studiosi, ha un ruolo essenziale. Ovviamente, la Rivoluzione Culturale rappresenta una rottura, un tentativo di auto-annientamento, che poi viene superato. Il letterato rimane essenziale, nella nuova “burocrazia celeste”, anche attraverso grandi competenze scientifiche. Eppure, nello “Stato ingegnere” molto presente nel mio libro – con l’ingegnere per eccellenza e le altre figure che ci hanno insegnato a vedere Evan Feigenbaum in China’s Techno-Warriors, così come anche Simone Pieranni in Tecnocina – una persona con la formazione di Wang Huning, da grande umanista, sopravvive. Noi appassionati di filosofia siamo sempre in mezzo alle scatole!

Negli Stati Uniti c’è una variegata tradizione di intellettuali (in termini di storia delle idee ricordo il bel libro The Invention of International Relations Theory di Nicolas Guilhot) ma anche una specifica corrente di anti-intellettualismo, come ci insegna Richard Hofstadter in Anti-intellectualism in American Life. Adesso c’è una corrente di intellettuali o pseudo-intellettuali che sono anti-intellettuali e si definiscono in opposizione. Come cerco di mostrare nel libro, penso che Wang Huning li guardi – Peter Thiel e compagnia – e li consideri molto semplici da decifrare. Fanno qualche citazione, si sono formati, direttamente o indirettamente, attraverso le influenze, in contesti che lo stesso Wang Huning ha visto nel suo viaggio in America alla fine degli anni Ottanta. Sono sempre schiavi di qualche filosofo del passato, come direbbe Keynes. Thiel ripete un bignami della teoria del monopolio di Joseph Schumpeter, Marc Andreessen cita la scuola elitista di Torino perché quella è la genesi di James Burnham, e così via. C’è ovviamente un grande pensiero conservatore e cattolico, ma per l’ordo amoris di J.D. Vance (“voglio più bene ai miei parenti che a chi vive in un’altra città”) non c’è bisogno dei Padri della Chiesa, di Romano Guardini o di Augusto Del Noce. Spero che nessuno voglia credere veramente che una figura come Curtis Yarvin sia un pensatore con un contenuto teorico profondo e non piuttosto una noterella a piè di pagina di cose già dette e ridette, che vengono solo rimasticate. Non ci sarebbe nessuna ragione per credere il contrario. Wang Huning, avendo studiato invece veramente, avendo avuto un percorso di studi tradizionale e profondo, non può essere preoccupato da queste cose, da queste persone. Gli interessa che contribuiscano a dividere l’America. E pensa che l’America sia su questa traiettoria di divisione, come tendenza fondamentale.

 

Dallo sguardo del professore si passa poi alla concretezza delle fabbriche cinesi. Un ecosistema per certi aspetti unico, dalla cantieristica navale alle lavorazioni nell’elettronica. Quali sono gli ingredienti principali? Perché, al momento, c’è da dubitare che i Paesi occidentali riescano a replicarne i fondamentali, come vorrebbe una letteratura sul reshoring che, al momento, è ancora soprattutto letteratura?

Alessandro Aresu: La questione concerne una rivoluzione industriale avvenuta in un vasto territorio in un tempo molto breve e l’intreccio con i passaggi delle rivoluzioni digitali che hanno alimentato i cicli del nostro mondo: il personal computer, lo smartphone. È cresciuto un enorme mercato in un tempo davvero ristretto, che ha fornito una grande capacità produttiva. Era naturale che la manifattura sarebbe diventata più importante in un mondo contestato, e così è emerso negli Stati Uniti il dibattito, che ho approfondito in Geopolitica dell’intelligenza artificiale, sul concetto di “Arsenale della democrazia”, in cui Palmer Luckey, che ho descritto per Pandora Rivista, emergeva come la figura più netta. Secondo questa chiave, non puoi difendere il tuo sistema se non hai Arsenale, e cioè capacità produttiva. Solo che la capacità produttiva ce l’ha il tuo avversario. Balaji Srinivasan, l’investitore e autore di The Network State, ha scritto: “the US military is made in China. You can’t fight your factory”.

La migrazione della filiera elettronica ha svolto un ruolo di primo piano in questo processo. Apple in China di Patrick McGee mostra questa dinamica, che dobbiamo anzitutto accettare per comprenderla. Noi abbiamo vissuto in questa cappa di convinzione che il dolcevita di Steve Jobs o l’accento britannico di Jony Ive abbiano inventato l’iPhone, ma quello era l’iPhone in teoria, era solo il progetto; invece, il mondo dello smartphone in pratica è stato fatto – come ha capito il capo della supply chain, Tim Cook – da Terry Gou di Foxconn con la forza lavoro cinese, con l’organizzazione industriale cinese. E poi, come sempre accade, il servo diviene il signore, perché lo ha in pugno. Ciò ha già avuto conseguenze fondamentali nella struttura produttiva del mondo, nei droni, nell’automotive, nella robotica. Tutto questo è già successo. Ovviamente, questa struttura non è statica. Qualcosa può tornare effettivamente negli Stati Uniti, quando c’è la forza lavoro. Qualcosa è andato in Messico, in Vietnam, in India. Altri protagonisti del Sud-Est asiatico emergeranno. Ma prima di capire cosa potrà cambiare, e di lavorare eventualmente per cambiare, bisogna rendersi conto di cosa è successo.

 

Nelle guerre giuridico-economiche, fatte di reciproci controlli e restrizioni, dove stanno veramente i colli di bottiglia, a monte nei segmenti più tecnologici e ad alto valore aggiunto, in cui si sono insediati gli Stati Uniti negli ultimi vent’anni, oppure a valle, nelle fabbriche concrete del mondo, ove ogni scambio rischia di passare per Pechino? La materialità conta in ultima istanza di più, specie se ad essa si aggiunge uno sviluppo parallelo anche sul fronte tecnologico?

Alessandro Aresu: Ci sono due modi di vedere le cose a questo proposito: uno è teleologico, orientato a un fine, mentre l’altro è orientato al processo. Secondo il modo teleologico di vedere la tecnologia, esiste un punto di discontinuità che, quando viene raggiunto, genera il vantaggio. Secondo il modo orientato al processo, non si arriva mai alla fine, o comunque giungere alla fine non è una questione rilevante nel periodo in cui noi operiamo.

La questione dell’intelligenza artificiale illustra bene questo aspetto. Se io dico “sto creando Dio”, o “sto creando la macchina che sa fare tutti i lavori”, sto ragionando in termini teleologici, anche teologici, ma in ogni caso attraverso ideologie di netta discontinuità. Questo problema mi ha interessato in particolare per comprendere l’approccio di NVIDIA, e il rifiuto sostanziale da parte dell’azienda di andare a rimorchio con la discussione su AGI, Artificial General Intelligence, e termini simili, di cui pure ho descritto la genealogia. Se hai “una nazione di geni in un data center”, per dirla con Dario Amodei di Anthropic, ciò sovverte ogni valore in campo. NVIDIA, come altri attori dell’infrastruttura, non può logicamente credere a questa tesi, in quanto non crede che qualcun altro possa aprire un modello di qualunque tipo e chiedere “realizza questo procedimento meglio di Foxconn, Supermicro, TSMC, Air Liquide eccetera” e che possa realmente farlo. L’irriducibilità non sta solo in quello che chiamiamo “valore umano”, ma nel rapporto tra queste specifiche specializzazioni di impresa. Così la stessa intelligenza artificiale è uno strumento per migliorare le tue operazioni, per aumentarle, ma non può giungere un altro dal nulla e creare NVIDIA 2 con questi strumenti. L’intelligenza artificiale è un mercato, con un processo in cui vi sono competenze che si accrescono, e non un compimento dove ogni vantaggio viene sovvertito dal punto di discontinuità.

Se si aderisce alla tesi del punto finale, la fine del mondo può sempre arrivare, ma è in ritardo di qualche millennio, per ora, rispetto all’invocazione “vieni presto” delle prime comunità cristiane. Se si aderisce alla tesi del processo, ne consegue che si deve vedere come materialmente sono fatti questi processi. Per esempio, voi credete che nel sistema Blackwell di NVIDIA non ci sia niente, proprio nulla che fa capo a materiali, ad aziende della Repubblica Popolare Cinese, e che quindi Jensen Huang possa presentarsi “privo di Cina”, perfettamente adeguato al decoupling assoluto, nella sua struttura di produzione, cioè nei fornitori dei fornitori che rendono possibile il suo sistema? Non credo. In questo schema, se sei la principale potenza manifatturiera del mondo, tu hai sempre qualche carta in mano.

 

Un passaggio interessante del libro è quello sulle terre rare, che non si limita a ricordare il dominio di Pechino in tale filiera, ma va a toccare un nodo centrale: ossia il fatto che di questa primazia si è consapevoli da almeno quindici anni ed è difficile pensare che gli strateghi delle cancelliere americane o europee abbiano tutti sottovalutato la questione. Il punto che il libro sembra suggerire è banalmente un altro: non si è riusciti a fare niente proprio dal punto di vista tecnico-industriale e commerciale. Perché? E ora basteranno i maggiori investimenti avviati, specie dopo il trauma delle contromosse di Pechino nei primi mesi di guerra commerciale con Trump?

Alessandro Aresu: Ne La Cina ha vinto questo è un punto che ritorna, soprattutto nel terzo capitolo, che immagina il retroscena e lo sfondo dell’incontro tra Xi Jinping, Wang Huning e gli imprenditori (i “capitalisti rossi”) del febbraio 2025. Prende la parola anche Xi Jinping, che racconta appunto il passaggio sulle terre rare, a sua volta legato all’aggiunta di Jiang Zemin negli anni Novanta al giuramento aziendale di Huawei, che riprendo dal libro di Eva Dou House of Huawei. Jiang Zemin dice al fondatore di Huawei di aggiungere al giuramento il passaggio: “Dobbiamo imparare lo spirito pratico del popolo tedesco”.

La domanda che la leadership cinese può porsi allora è: che cosa, praticamente, stanno facendo gli altri per ridurre il nostro dominio sulle terre rare? Già la diffusione dell’espressione “terre rare” è un risultato, con la sua eccezionale forza comunicativa. Ancora un po’, e si parla di terre rare al bar. Però si potrebbe dire: visto che tutti parlano delle terre rare cinesi, allora esisterà una grande mobilitazione, un grande impegno per ridurre questa dipendenza, che è nota. Oltre alla disputa presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio col Giappone a partire dalle azioni cinesi del 2010, come ho ricordato ne Le potenze del capitalismo politico nel 2020, il tema compare perfino nella seconda stagione di House of Cards, serie su cui peraltro era incentrato il dibattito politico italiano undici anni fa. La domanda pertanto è: cosa è successo realmente in questi quindici anni? Quale spirito pratico è stato dimostrato? La risposta è: non molto. La ragione sta in diversi aspetti: la distrazione, la sottovalutazione di questi temi, la scarsa capacità di realizzazione delle infrastrutture, le risorse umane e le competenze, i costi ambientali, le contromosse degli attori cinesi, gli incentivi degli altri attori di fare profitti. E altre ragioni ancora che ci sfuggono. Il futuro è sempre aperto, pertanto non è impossibile che le cose vadano diversamente. Ma l’esperienza di questo secolo ci dice che lo spirito pratico non è stato adeguato allo scopo. Per questo, Wang Huning, Xi Jinping e gli altri possono fare queste valutazioni.

 

Per le sfide future un tema centrale che il libro solleva è quello dell’economia e demografia di scala: se la Cina ha più persone che studiano materie scientifiche, prima o poi tale capitale umano si tradurrà in qualcosa. E già ora, come si sottolinea, i cinesi dominano nei paper scientifici americani e tra i ricercatori delle aziende tech americane. La partita si giocherà veramente su quanti cinesi decideranno di impegnare il proprio capitale scientifico per la patria e quanti per gli Stati Uniti?

Alessandro Aresu: Sì, questo è il punto essenziale. La Cina ha compiuto la sua eccezionale arrampicata sul capitale umano, per utilizzare un’immagine di La Cina ha vinto. L’indice di Nature, le classifiche delle università, i brevetti: non si contano questi elementi quantitativi che testimoniano l’arrampicata. Poi c’è sempre l’articolo che pone dubbi su questa scalata, e poi arriva un’altra testimonianza della scalata, e poi ne arriverà un’altra ancora. È scontato, con quella scala e con l’importanza che la formazione ha in quel sistema. Poi bisogna capire che ogni tappa di una montagna si giudica anche dal punto di partenza, e se le tue università quarant’anni fa versavano in una certa condizione e poi arrivano dove sono ora, questo ha un significato culturale e motivazionale, oltre che operativo, molto rilevante.

D’altra parte, se “il 50% dei ricercatori sull’intelligenza artificiale sono cinesi” (come dice Jensen Huang) e se, come ricordo in La Cina ha vinto, in alcune conferenze statunitensi sull’intelligenza artificiale il 90% del comitato organizzatore è composto da persone nate in Cina, la questione fondamentale è dove queste persone vogliono vivere (e dove vogliono vivere gli indiani). Se gli Stati Uniti rimangono il magnete dei talenti del mondo, e quindi anzitutto di quelle persone, ciò sarà la principale garanzia del primato statunitense, pur in mezzo ad altre incertezze di “America contro America”. Se questo potere si affievolisce, non c’è molto da fare.

In questo scenario, è ragionevole pensare che gli Stati Uniti, al di là degli show e degli screzi, non auto-distruggano questo loro potere di attrazione. Anche per questa ragione, prima Trump può dire “mettiamo controlli ferrei agli studenti cinesi negli Stati Uniti, niente più visti” e poi si trova costretto a dire letteralmente “diamo 600.000 visti agli studenti cinesi, senza di loro le nostre università salterebbero per aria”. La politica non rispetta il principio di non contraddizione. In politica si dice sempre una cosa e il suo contrario; nel nostro tempo questo di certo è stato portato alle estreme conseguenze, ma al di là dello show bisogna cogliere le tendenze strutturali.

 

Questa partita tra cinesi e cinesi-americani potrà stimolare nuove meta-narrazioni di carattere valoriale, tra la libertà americana e l’autoritarismo cinese? I cinesi che continueranno a lavorare per gli Stati Uniti saranno tutti dissidenti de facto o ci possono essere delle vie di mezzo? E come bilanciare, al caso, queste vie di mezzo con i ruoli delicati che questo ecosistema cinese-americano svolge nei segmenti più importanti del settore tech con sempre più riflessi nella sicurezza nazionale degli Stati Uniti?

Alessandro Aresu: La convergenza sta già avvenendo. “La Cina ha vinto” l’hanno detto gli Stati Uniti, io mi limito a citarlo. Vuol dire che siamo a un punto significativo. Vedere il mondo con gli occhi del capitalismo politico vuol dire concentrarsi su un nuovo equilibrio tra politica ed economia, che avviene a strattoni, sulla base della sicurezza nazionale. Se nel sistema cinese c’è un concetto di sicurezza nazionale totalizzante – e che ha esteso il suo ambito di interesse con Xi Jinping e la volontà di dominio delle filiere tecnologiche – dall’altro lato la burocrazia della sicurezza nazionale statunitense avrebbe comunque inserito vincoli politici rispetto ai mercati, secondo il rovescio della frase di Alan Greenspan che indico ne Le potenze del capitalismo politico.

Il dibattito degli Stati Uniti però non si limita a questo. Il capitalismo politico degli Stati Uniti diviene, in estrema sintesi, un insieme di varianti del “dobbiamo fare come la Cina per battere la Cina”, per esempio sulle politiche industriali o sugli investimenti pubblici, ma anche con la variante neo-autoritaria “abbiamo bisogno di un monarca”, che poi nelle teorie neo-autoritarie dell’epoca di Trump è, diciamo la verità, proprio una sorta di “duce”. Anche perché – sempre per il fatto che si è succubi di alcuni pensatori del passato – in questo caso si è schiavi di varie correnti del fascismo propriamente detto, inteso come struttura intellettuale. Per la natura di mercato e affaristica degli Stati Uniti, emergono anche altre varianti, come “freghiamocene e pensiamo a fare soldi, a vendere i nostri prodotti ovunque, dopotutto anche la sicurezza nazionale ha un prezzo e quindi se le aziende pagano, la sicurezza nazionale è in vendita”. Questi elementi contraddittori rappresentano l’adattamento del sistema degli Stati Uniti alla sfida cinese, che è profonda perché l’avversario è formidabile; inoltre, portano gli Stati Uniti a definirsi in opposizione rispetto ad alcune capacità cinesi, per esempio relative all’elettrificazione o alle rinnovabili.

Nel mentre, il mondo del mercato deve continuare a camminare perché devono esserci gli oggetti, i prodotti. Deve esserci un equilibrio tra produzione continua e piani di contingenza. Per questo, il lavoro del capitalismo politico non finisce mai. Gli Stati e le aziende devono continuamente pensare all’equilibrio tra economia e politica, coi vari strumenti di guerra economica che ho illustrato negli ultimi dieci anni e che fanno parte del panorama dell’attualità.

 

Se il suo lavoro prende le mosse dalla figura del professore Wang Huning e anche dal suo libro America contro America – frutto di uno sguardo attento sulla realtà americana e in particolare sulle sue fratture interne – ci potrà essere un equivalente libro di un intellettuale americano (o italiano, perché no) Cina contro Cina? E cosa direbbe in caso?

Alessandro Aresu: Alcuni libri del passato parlano del presente. Penso per esempio a The Party’s Interests Come First, stupenda biografia del padre di Xi Jinping scritta da Joseph Torigian, di oltre 700 pagine. Da quell’affresco storico e tragico, che passa anche per gli archivi italiani e di molti altri Paesi, si possono cogliere elementi essenziali del leader cinese di oggi, attraverso suo padre. Per il resto, possiamo solo ipotizzare. Il viaggio di Wang Huning è stato unico anche per quello che lui ha respirato in Cina negli anni Ottanta, prima del suo viaggio del 1988, per quello che è stata la Cina di quel periodo; e poi perché è un viaggio molto incentrato sui luoghi americani, dove tante relazioni avvengono faccia a faccia, in un contesto in cui la formazione non è ancora quasi esclusivamente mediata dai nostri strumenti digitali. Ed è un viaggio interessante perché Wang Huning vuole cogliere gli elementi di forza degli Stati Uniti, davanti ai quali la Cina del tempo era davvero poca cosa.

Ci sono tentativi di viaggio nella Cina di oggi di cui si parla nel dibattito statunitense, da ultimo Breakneck di Dan Wang. Certo, oggi ogni viaggio in Cina deve confrontarsi con la famosa foto di Shenzhen negli anni Ottanta e di Shenzhen oggi. Sono passate alcune epoche, anche se sono passati appena quarant’anni. Bisogna conoscere il dinamismo cinese. Bisogna capire alcuni elementi dal basso e vedere l’intreccio tra il passato remoto e il futuro anteriore. Bisogna conoscere anche il Partito Comunista Cinese, che chiaramente è molto difficile, perché il Partito non si può mettere tra parentesi. Scorgere dove risiede la debolezza cinese nelle sue varie declinazioni. E l’insoddisfazione della società cinese, da cui non si deve ricavare l’insoddisfazione o la delegittimazione del sistema politico, forzando tutto secondo la nostra logica. Tantissime fabbriche non si faranno vedere proprio, come molte di quelle dello sforzo nazionale sui chip. Perciò scrivere Cina contro Cina è molto difficile. Ci saranno tante esaltazioni della Cina da parte dei suoi cantori, più o meno interessati. Ci saranno diari di viaggio, bellissime immagini di YouTuber. Ci saranno reportage. Ci saranno le versioni ufficiali, le versioni dei dissidenti e le versioni sprezzanti. Non credo ci sarà Cina contro Cina.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e saggista. Ha conseguito un Dottorato di ricerca presso l’Università di Udine. È membro dell’Osservatorio Golden Power e scrive per diverse testate, occupandosi di tematiche giuridico-economiche, scenari politici e internazionali. È autore di: “Linee invisibili. Geografie del potere tra confini e mercati” (Egea 2025) e “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023).

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