Scritto da Giacomo Bottos
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Andrea Boitani è professore ordinario di Economia politica all’Università Cattolica di Milano e ha ricoperto numerosi incarichi come consulente del Governo nazionale e di amministrazioni locali. Redattore di www.lavoce.info, collabora con la Friedrich-Ebert-Stiftung, l’Arel (Agenzia di Ricerche e Legislazione) e il CER (Centro Europa Ricerche). Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: Sette luoghi comuni sull’economia (Laterza 2017), L’economia in tasca. 100 citazioni imperdibili (a cura di, Laterza 2017) e Scusi prof, cos’è il populismo? (con Rony Hamaui, Vita e pensiero 2019). In questa intervista, a partire dal suo ultimo libro – L’illusione liberista. Critica dell’ideologia di mercato (Laterza 2021) –, lo abbiamo intervistato sulla critica da lui condotta a quei filoni del pensiero economico che vedono nel mercato un modello in cui si risolve l’intero agire umano, piuttosto che uno strumento utile per raggiungere fini socialmente desiderabili, entro un quadro istituzionale più complesso.
Le categorie di “liberismo” o “neoliberismo” sono spesso al centro di vivaci polemiche, nelle quali si incontrano anche interlocutori che negano che a tali termini corrisponda un riferimento reale. Cosa si deve intendere, a suo avviso, con tali espressioni?
Andrea Boitani: Il liberismo ha radici antiche, nel laissez faire del Marchese d’Argenson e di Frédéric Bastiat e nel liberalismo individualistico di John Locke e David Hume. In Adam Smith – ritenuto a torto il padre del liberismo – troviamo sia l’apprezzamento dei meriti del mercato quanto l’attenzione per i suoi difetti. Questa dualità del pensiero di Smith ha percorso sempre la teoria economica e l’atteggiamento degli economisti di fronte alle opzioni di politica economica e alle questioni sociali. I moderni liberisti (o neoliberisti), come Hayek, Friedman, Stigler, Becker, Buchanan hanno estremizzato il liberismo ottocentesco (quello di un Francesco Ferrara, per esempio) attribuendo al mercato un ruolo salvifico che va ben oltre i risultati della teoria economica. Il mercato può anche non essere perfetto, secondo questi economisti, ma comunque è molto meglio di qualsiasi altra istituzione sociale e più di qualunque altra è in grado di permettere l’espressione della libertà e della creatività individuale. Crescita e prosperità per tutti. Poco importa se le disuguaglianze aumentano, purché la povertà si riduca e che tutti possano salire la scala sociale e i “meritevoli” abbiano opportunità.
La metafora della “mano invisibile” ha esercitato un perdurante fascino sugli economisti. Come va interpretata secondo lei? Quali sono i limiti di una concezione che vede nel mercato il modello di tutte le relazioni sociali? Quali sono viceversa, a suo parere, le principali condizioni perché il mercato possa dispiegare al meglio la sua utilità sociale?
Andrea Boitani: La mano invisibile è un’espressione che Adam Smith ha usato solo tre volte in tutte le sue opere (qualche migliaio di pagine). Eppure, per alcuni economisti sembra quasi che Smith avesse in testa solo questa fascinosa immagine retorica! Per alcuni decenni, tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, tantissime menti geniali hanno studiato il modo di trasformare quell’immagine in un teorema. Così facendo, però, economisti come Edgeworth, Walras, Pareto e poi Arrow, Debreu e Hahn hanno messo in luce quanto stringenti fossero le condizioni perché possa valere il teorema della mano invisibile e, specularmente, quanto numerosi fossero i difetti dei mercati. Difetti che invalidano il teorema e chiamano in causa interventi correttivi da parte delle autorità di politica economica. I neoliberisti, come ho detto, saltano a piè pari la questione dei difetti del mercato e sostengono che il coordinamento operato dal mercato, fornendo i migliori incentivi a miriadi di soggetti egoisti, è comunque molto più efficace ed efficiente di qualsiasi intervento di politica economica. La mano invisibile funziona per definizione. Non ha bisogno di dimostrazioni. E poiché il mercato lasciato a sé stesso è il meglio che ci sia, appare giusto e opportuno estenderne le logiche a qualsiasi campo: tutto si può comprare col denaro, perché per tutto c’è un prezzo, c’è l’incentivo appropriato. Ma – come ha notato il filosofo di Harvard Michael Sandel – «assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle» e, così, può stravolgere gli incentivi che si vorrebbero creare. Sarebbe ora di accettare serenamente che il denaro non può e non deve poter comprare tutto; che vi sono sfere dell’attività umana (quindi della società) in cui il mercato non dovrebbe entrare o dovrebbe farlo solo se attentamente “costruito” e regolato, dopo aver vagliato tutte le implicazioni etiche e i possibili effetti distorsivi dei comportamenti umani e, quindi, delle relazioni sociali e aver preso le necessarie misure di contrasto. Il modo migliore per esaltare l’utilità sociale del mercato è sfruttarne le indubbie capacità di coordinamento, assegnando ad esso (e quindi ai prezzi e al denaro) con chiarezza l’area in cui deve operare, nel rispetto di regole trasparenti, costanti e semplici.
Quali sono le principali tipologie di fallimento dei mercati?
Andrea Boitani: Qui siamo ai manuali di economia! Non posso fare un elenco. Menziono solo due fallimenti del mercato che mi paiono particolarmente rilevanti: l’inquinamento atmosferico e dei mari, principale responsabile dei cambiamenti climatici in atto e la disoccupazione di massa causata dalle crisi finanziarie e dalle conseguenti recessioni economiche. Sono entrambi casi di esternalità negative, cioè conseguenze sociali dannose di comportamenti individuali “egoisti” che di quelle conseguenze non tengono conto e alle quali il mercato non riesce a imporre un prezzo. Entrambi questi fallimenti, tra l’altro, accrescono direttamente e indirettamente le disuguaglianze sociali, le differenze tra chi può proteggersi e chi non può, tra i sommersi e i salvati.
Quali ruoli svolge lo Stato in un’economia capitalistica? In quali situazioni l’azione pubblica può assumere un ruolo rilevante? Quali indicazioni si possono dare sul modo di operare delle istituzioni? Quale ruolo ha giocato la teoria della Public Choice negli ultimi decenni?
Andrea Boitani: Innanzitutto, il mercato come istituzione complessa non esiste senza lo Stato. Certo, se pensiamo al mercato sotto la forma del libero scambio tra un cacciatore e un pescatore ai margini della brughiera scozzese siamo nel mondo delle favole… Il mercato e il capitalismo contemporaneo si reggono sulle regole e le istituzioni create e controllate dallo Stato: le leggi, la protezione dei diritti di proprietà, la difesa dai nemici esterni sono i classici ruoli dello Stato che menziona anche Adam Smith. Ad essi possiamo aggiungere i sussidi di disoccupazione, il salario minimo, la tutela della salute, il sistema pensionistico, l’istruzione e la ricerca pubblica, la politica industriale, ecc. Molti di questi contributi dello Stato sono riconosciuti esplicitamente da uno dei simboli del capitalismo contemporaneo qual è Bill Gates. L’ampliamento delle funzioni di governo può essere – scriveva Keynes nella Teoria generale – «il solo modo concreto per evitare la completa distruzione delle forme economiche attuali, e anche come la condizione indispensabile per il buon funzionamento dell’iniziativa individuale». Sulla Public Choice il mio è un giudizio molto negativo. Essa – in quanto “teoria economica della politica” – è parte rilevante del progetto imperialista degli economisti (liberisti). Un progetto volto a universalizzare il postulato cinico di comportamento razionale-egoista e, in particolare, a estenderlo ai politici, che sarebbero mossi solo dal proprio interesse e, quindi, indifferenti al bene comune. Poiché le profezie minacciano di autorealizzarsi, il cinismo della Public Choice ha contribuito a indebolire lo spirito pubblico, insistendo che esso non può esistere. Insomma, ha fatto danni sia culturali che pratici. Del resto, come diceva Keynes, presto o tardi sono le idee ad essere pericolose nel bene come nel male.
Quali sono, secondo lei, i limiti di una concezione dell’azione delle istituzioni incentrata unicamente sul rispetto di un insieme di regole definite in anticipo? In quali circostanze un certo grado di discrezionalità può giocare un ruolo positivo?
Andrea Boitani: Recentemente, Ignazio Visco mi ha ricordato come Paul Samuelson (uno dei primi vincitori del Premio Nobel per l’Economia) una volta scrisse che «qualsiasi meccanismo automatico è messo in piedi grazie a una scelta discrezionale, è abbandonato in modo discrezionale e la discrezionalità interferisce continuamente con esso». Mario Draghi nel 2019 ha sostenuto che un approccio interamente basato sulle regole non è efficiente, prima di tutto perché le regole sono statiche, cioè «non possono essere aggiornate rapidamente quando si presentano circostanze impreviste, mentre le istituzioni possono essere dinamiche e flessibili nel loro approccio» quando le condizioni economiche cambiano improvvisamente. Le regole, poi, perdono la loro credibilità se applicate con discrezionalità o con qualche tipo di flessibilità opaca. «Ecco perché c’è sempre qualche tensione quando si adottano politiche economiche che seguono l’approccio basato sulle regole». Abbiamo bisogno delle regole, ma anche della discrezionalità e delle istituzioni disegnate per esercitarla, senza scadere nell’arbitrio. Oggi, una partita politica cruciale è il ridisegno delle “regole fiscali europee”. Decisivo è sganciarle da numeri magici, che poi obbligano a interpretazioni estremamente discrezionali per evitare che l’Unione Europea (e soprattutto l’Unione Monetaria) vadano in frantumi. Ma è ancora più decisivo individuare gli strumenti di politica economica e le risorse cui ricorrere per fronteggiare situazioni impreviste e imprevedibili (come è stata la pandemia) e che inevitabilmente mettono le regole fuori gioco.
La gestione delle ultime crisi economiche è stata influenzata a suo avviso negativamente dalle impostazioni economiche adottate dagli esperti e dai decisori politici?
Andrea Boitani: Sì. Del tema mi sono occupato a lungo in un libro precedente (Sette luoghi comuni sull’economia, edito da Laterza nel 2017). Voglio aggiungere che la recessione innescata dalla pandemia è stata gestita molto meglio rispetto a quella del 2008, soprattutto in Europa. All’inizio si temeva il peggio, ma poi la BCE e la Commissione Europea hanno fatto di più e più rapidamente di quanto si potesse prevedere, abbandonando la nefasta dottrina dell’austerità e avviando la politica economica europea su sentieri nuovi. Spero non vengano abbandonati appena si ritorni a respirare aria di “normalità”. Sarebbe un disastro, e non solo per l’Italia.
Si possono intravedere relazioni tra disuguaglianze e sviluppo economico?
Andrea Boitani: La crescita economica e la globalizzazione hanno certamente contribuito a ridurre la povertà estrema nel mondo, ma le disuguaglianze di reddito, di ricchezza e di capacità si sono di molto ampliate all’interno dei Paesi sviluppati. La mobilità sociale si è ridotta, il famoso ascensore sociale sembra essersi arrestato perfino – e anzi soprattutto – nel Paese che ne aveva fatto la sua bandiera e il suo orgoglio: gli Stati Uniti d’America. I dati storici e le ricerche empiriche, anche condotte da istituzioni internazionali come il Fondo Monetario e l’OCSE, mostrano come le disuguaglianze eccessive non aiutano la crescita. È crollato il mito liberista che le disuguaglianze sono il prezzo da pagare per avere crescita accelerata, mentre la redistribuzione la penalizzerebbe inevitabilmente. In definitiva, il mondo occidentale non è mai cresciuto tanto quanto nei famosi “trent’anni gloriosi” (1950-1980), in cui le disuguaglianze si andavano riducendo e l’intervento pubblico (anche a fini redistributivi) si allargava. Che poi la qualità di quell’intervento non sia stata sempre la migliore possibile è un’altra storia. Una storia su cui nel libro provo a ragionare, ma che non giustifica né il ritorno al laissez faire, né una lettura per cui solo la crescita consente di ridurre le disuguaglianze: la relazione causale può anche andare per l’altro verso e, in ogni caso, le politiche pubbliche – anche se tutti sappiamo che non sono perfette – possono contribuire a mettere in piedi circoli virtuosi tra crescita ed equità sociale.
Rispetto alla sfida del cambiamento climatico, quali sono i limiti e le potenzialità degli approcci economici attualmente in campo?
Andrea Boitani: Gli economisti hanno avuto, e tutt’ora hanno, grandi responsabilità nella diffusione di inutili dubbi sulla realtà del cambiamento climatico e, soprattutto, nella sistematica sottovalutazione dei suoi danni e dei benefici derivanti da politiche di contenimento e riduzione delle emissioni climalteranti. Hanno applicato tassi di sconto elevati ai danni e ai benefici futuri, svalutando così gli impatti sulle (e i rischi per le) generazioni future di un rinvio degli interventi di mitigazione dei cambiamenti climatici, adducendo bilanci costi-benefici troppo sfavorevoli. Hanno cioè fornito una base pseudo-scientifica all’inazione dei governi, con conseguente aggravamento della situazione climatica. E dico pseudo-scientifica perché il tasso di sconto è, essenzialmente, una variabile derivata da un’opzione “etica”. Una variabile che gli economisti (soprattutto quelli di credo liberista) hanno preteso invece di vedere come oggettivamente “rivelata” dai tassi di interesse di mercato. Ma la scienza economica ha anche molto da offrire nella lotta al cambiamento climatico, purché abbandoni l’approccio dell’egoismo generazionale nella valutazione degli impatti dei cambiamenti climatici e si dedichi, per esempio, a studiare come far funzionare realmente l’economia circolare. Un economista come Nicholas Stern ha aperto nuovi sentieri di ricerca e di intervento con il suo rapporto sul cambiamento climatico del 2007. Dall’uscita di quel rapporto alcune tesi negazioniste hanno avuto minor impatto sull’opinione pubblica.
Quali sono i limiti dell’ipotesi del comportamento razionale ed egoista che viene spesso considerata un fondamento della scienza economica?
Andrea Boitani: Innanzitutto, l’ipotesi è descrittivamente falsa: l’evidenza dell’economia sperimentale ci dice che donne e uomini non si comportano secondo i canoni dell’egoismo razionale. Canoni che – è stato scoperto – descrivono meglio il comportamento di alcune specie di scimmie che quello dell’uomo. Naturalmente, se gli uomini e le donne non sono pienamente razionali ed egoisti nelle loro scelte di consumo, di risparmio, di investimento e di comportamento socio-politico, previsioni basate su quell’ipotesi saranno spesso ampiamente sbagliate. Ne segue che imprese che affidassero le loro strategie a previsioni così costruite finirebbero per perdere soldi. Gli azionisti non sarebbero contenti. Ma l’egoismo razionale non descrive bene neanche il comportamento delle imprese. Contrariamente a quanto pensava Milton Friedman, l’idea che l’impresa sia solo una macchina per massimizzare i profitti è veramente fuori dal mondo.
In Italia l’orientamento liberista ha trovato meno spazio che altrove?
Andrea Boitani: Sì, se guardiamo ai programmi politici e ancor più alle politiche effettivamente attuate. Nei programmi, un richiamo forte vi fu in quello di Berlusconi e della Lega nel 1994. Richiamo divenuto poco più che di maniera già nel programma del 2001. In pratica, le politiche di liberalizzazione vennero attuate soprattutto dai governi di centro-sinistra. Ma io contesto l’attribuzione delle politiche di liberalizzazione al liberismo e quindi anche che il liberismo sia, in qualche modo, “di sinistra”. Quelle politiche avevano l’obiettivo di accrescere l’area in cui opera la concorrenza (soprattutto in alcuni servizi di pubblica utilità) e di migliorare la qualità e anche aumentare l’intensità della regolazione rendendola maggiormente incentivante. Niente a che fare con il laissez faire. Più concorrenza e una più efficace regolazione riducono i prezzi per i consumatori e le rendite dei produttori; quindi, hanno effetti egualitari. Poi, in qualche caso (e non solo in Italia) le cose sono andate in maniera differente da come si era desiderato e si è passati dai monopoli pubblici ai monopoli privati (poco o mal regolati), con la conseguenza di aumentare le disuguaglianze e non di ridurle. Ma non sempre è andata così. Perciò il mio giudizio su quelle politiche non è una condanna senza appello. Resta vero che, anche se la sua presa sulla politica italiana è stata tutto sommato ridotta, il credo liberista si è diffuso in larghi strati dell’opinione pubblica e nelle redazioni dei giornali, dove forniva una chiave semplice di lettura della realtà e uno strumento concettuale per respingere gli eccessi di statalismo che indubbiamente c’erano stati e ci sono ancora.
Ritiene che la crisi innescata dalla pandemia abbia avviato un ripensamento del paradigma economico?
Andrea Boitani: Penso di sì. Condivido le parole di Giuliano Amato, quando in un’intervista a la Repubblica dice: «la pandemia ha messo fine a un mondo alla rovescia, dove la società era al servizio dell’economia. E l’economia era al servizio della finanza. Con un accresciuto benessere per pochi e un diffuso malessere per molti. Questo ciclo si è chiuso. E si è aperta una nuova stagione che riporta in auge una concezione etica del mercato». Se mi consente di citare un altro amico (e collega) come Vittorio Emanuele Parsi, «dobbiamo imparare che le risorse accantonate per consentire di confrontarci con la prossima emergenza non sono risorse sprecate o inutilizzate, sono quelle che faranno la differenza tra la vittoria e la sconfitta, tra la vita e la morte». Il che pone il tema dell’efficienza delle scelte (qualcuno parlerebbe di rapporto benefici/costi) un gradino al di sotto rispetto alla loro efficacia (la capacità di raggiungere predeterminati obiettivi). L’efficienza entra in gioco solo dopo che una soglia minima di efficacia (e, aggiungerei, di resilienza) è comunque garantita, senza contare che l’efficienza in un contesto complesso e mutevole nel tempo rischia di perdere molto del suo significato. Si richiede un bel cambiamento nel modo di pensare degli economisti, ma anche dei manager e dei decisori politici.