Scritto da Renato F. Rallo
6 minuti di lettura
La COP28 che si è svolta a dicembre a Dubai è stata in qualche modo un successo, sia dal punto di vista dell’accordo in senso stretto che della ricezione mediatica. Dopo mesi di aspettative scarsissime, il solo fatto di aver raggiunto un accordo – per quanto debole nel linguaggio – è comunque un’ottima notizia. D’altronde la debolezza è in qualche modo costitutiva in questa sede, se comparata alla “forza” delle decisioni cogenti. Alla COP tutto è debole o, meglio, tutto è fragile. La COP è la conferenza di Paesi che decidono, su base volontaria e senza nessuna capacità costrittiva sugli altri, come avanzare verso la soluzione al cambiamento climatico. E tuttavia, con tutta probabilità un accordo debole dal punto di vista tecnico ma che sia proclamato dai media come un successo storico è meglio di un accordo buono che sia visto dalla stampa (e quindi a cascata dalla popolazione) come un fallimento. Sembra paradossale ma in fondo è così: anche se i dati indicano che le cose non stanno migliorando, l’unica cosa veramente vietata è perdere la speranza diffusa che il processo negoziale abbia senso. L’alternativa alla speranza diplomatica è la fine dei tentativi, cioè l’inizio della guerra.
Global Stocktake
Il testo è lungo, gli aspetti tecnici sono tantissimi. Ne ricordiamo solo i principali risultati. È stato approvato il Global Stocktake (anche detto GST), il testo su cui c’erano maggiori aspettative perché è quello deputato a stabilire in concreto la roadmap per rendere operativi gli accordi presi alla COP21 di Parigi. In particolare, entro il 2025 i Paesi dovranno presentare i nuovi piani nazionali in cui aggiornano i loro obiettivi di riduzione delle emissioni. Questi piani, ha stabilito la COP di Dubai, dovranno essere presentati tra i 9 e i 12 mesi prima della COP30, quella che si terrà a Belem (in Brasile) nel 2025. Fissare un calendario chiaro del processo degli NDC (nationally determined contribution) è stato un traguardo – tecnico e poco mediatizzabile – molto importante, perché in fondo è il cuore di tutto il negoziato climatico: i continui, piccoli e incrementali sforzi volontari dei singoli Paesi, e la loro condivisione davanti a tutti gli altri Paesi. Sempre nel GST – e questa è stata la parte più divulgata – è comparsa nero su bianco la volontà da parte di tutti i Paesi di «transition away from fossil fuels», per la prima volta in un testo COP. Non c’è un piano chiaro ma è un simbolo, ed è un buon simbolo per il clima.
Loss&Damage
Un’altra buona notizia, arrivata nel giorno di apertura della COP, è l’approvazione del fondo Loss&Damage, che verrà inizialmente gestito dalla World Bank (l’agenzia finanziaria dell’ONU dedicata al credito allo sviluppo, con sede a Washington). I fondi promessi dagli Stati sono ancora molto scarsi rispetto alle esigenze reali, ma soprattutto qui inizia a porsi un dilemma concettuale. In breve: nelle conferenze climatiche ci sono due grandi categorie di discussione: mitigation (quello che possiamo fare per ridurre il riscaldamento globale) e adaptation (quello che possiamo fare per adattarci al cambiamento già in atto, ai danni già avvenuti ecc.). Si sarà già capito che entrambi i temi richiedono uno sforzo economico, e inesorabilmente i fondi destinati a uno non saranno disponibili per l’altro. In termini di rapporto causa-effetto, mitigation viene prima: se oggi investiamo per prevenire un problema, domani non dovremo spendere altri soldi per curarne gli effetti. D’altronde molti effetti del cambio climatico sono già in atto: popolazioni costrette a migrare per le carestie, isole che devono essere evacuate per l’innalzamento del livello del mare ecc. Per questo, a pensare male, si potrebbe insinuare che chi spinge sul pedale della adaptation, senza prima aver arrestato le cause dei cambiamenti, o è qualcuno che è toccato in prima persona dal cambiamento climatico, oppure è un soggetto non molto fiducioso o interessato alla possibilità di prevenire alcunché. E d’altra parte sappiamo bene, secondo quanto indica la scienza, che se non ci preoccupiamo di mitigare il cambiamento non basteranno tutti i soldi del mondo per adattarsi a un clima progressivamente sempre più invivibile.
Ruolo dell’Oil&Gas
Tornando al piano generale del negoziato, in questa COP – ancora più che nelle altre – si è respirata una strana atmosfera, dovuta anche al fatto che si svolgeva a Dubai ed era presieduta da Sultan Ahmed Al Jaber, ministro emiratino dell’industria e capo di una enorme compagnia petrolifera (la ADNOC – Abu Dhabi National Oil Company). L’intera COP, nonché il percorso preparatorio dei mesi precedenti, è sembrato un grande esercizio di preghiera da parte della maggior parte dei Paesi del mondo affinché i Paesi produttori (e in particolare le compagnie Oil&Gas) smettessero di estrarre combustibili fossili. A tal proposito, un piccolo episodio personale mi ha fatto riflettere. Finita la conferenza e tornato in Italia, una conoscente mi ha fatto una domanda a cui non sono riuscito a dare una risposta immediata – una domanda apparentemente ingenua; eppure, tagliente: «Perché li stiamo supplicando di smettere di estrarre petrolio? Non potremmo semplicemente smettere di comprarlo?».
Ecco, lo svolgimento di questa COP, con così tante aspettative (quantomeno sbandierate sui giornali) e pressioni scaricate sulle spalle del settore Oil&Gas, affinché esso stesso faccia la transizione per tutti gli altri, “prometta di cambiare” come si suol dire nelle relazioni tossiche, dà una strana sensazione di impotenza agli attori che assistono alla scena. E la risposta a quella domanda candida in realtà esiste, ed è dura da accettare. Utilizziamo una metafora un po’ forte ma particolarmente azzeccata per il doppio significato dell’aggettivo: finché le sostanze stupefacenti (si legga: le fonti fossili) sono lì a disposizione, il fruitore (si legga: la società contemporanea) non può veramente decidere di smettere. L’unica cosa che può fare, nei pochi attimi di lucidità di quest’ultimo, cioè quando si rende conto che le prospettive climatiche sono insostenibili, è pregare il fornitore di smettere di dargliene. Ma è una preghiera fugace, estorta, che svanisce presto davanti alle pulsioni quotidiane. La dinamica della COP ha svelato un po’ questo paradosso. Ha mostrato l’impotenza degli Stati nello smettere autonomamente con l’energia fossile.
Qualche settimana prima della COP, in una circostanza privata, il presidente Al Jaber ha detto che senza energia fossile torneremmo all’età della pietra. Se guardiamo alla storia, ci sarebbe quasi da crederci: l’energia fossile e la rivoluzione industriale ci hanno permesso di fare un salto di qualità nella nostra vita e nella nostra società che è anche difficile da spiegare, talmente è trasversale e profondo. Da quando l’uomo ha scoperto i combustibili fossili, la stessa vita umana sulla Terra si è moltiplicata a un tasso di crescita straordinariamente più alto di prima, e così tutte le altre variabili con cui misuriamo il nostro benessere.
Adesso, come più o meno sappiamo, siamo abbastanza maturi da aver scoperto tecnologie rinnovabili che possono permetterci di non tornare all’età della pietra, e di vivere con il benessere a cui ci siamo abituati. Ma allora, se questo è vero, non si capisce bene perché i governi (che sono emanazione dell’intera società) diano tutta questa centralità alle compagnie petrolifere affinché siano queste ultime a dettare tempi e modi della transizione. La tecnologia per la transizione esiste già: quello che manca è la volontà politica, cioè anche popolare, di anticipare i costi di una transizione rapida. Ma d’altro canto questa volontà politica non si può esigere da normali attori economici, quali chiaramente sono le compagnie Oil&Gas che, per quanto possano mostrare di investire frazioni dei loro fatturati in impianti rinnovabili, destineranno a ciò sempre briciole rispetto al loro core business. Insomma, se è difficile e costoso convertire l’economia di uno Stato, figuriamoci quanto sarebbe inverosimile stravolgere il business model di una compagnia petrolifera.
COP29 in Azerbaigian
La transizione energetica non sarà un pranzo di gala, questo è certo. Ma dare tutta la colpa a un settore specifico, e per natura molto restio alla transizione stessa, non ci aiuterà ad abbreviare i tempi – anzi. La COP29 si terrà a Baku, in Azerbaigian, altro Paese la cui economia poggia fortemente sulle gambe dell’estrazione di idrocarburi. Con buona probabilità rivedremo quasi tutte le dita puntate sui produttori, e quasi nessuna sui grandi consumatori. Che in realtà sono quelli che emettono CO₂, e che creano il mercato. Si dice spesso che in fondo lo storico accordo di COP21 a Parigi, firmato da 195 Paesi nel 2015, fu un accordo tra Stati Uniti e Cina. I due giganti economici del mondo, in un clima di relativa pace globale, aprirono alla possibilità di una competizione con delle regole ambientali condivise. La fattibilità in tempi rapidi della transizione dipende soprattutto da questi due grandi attori, da quanto tesa sia la competizione globale, da quante nuove guerre scoppieranno e quante paci verranno firmate. Se i grandi consumatori di energia fossile saranno seri e uniti nel voler accelerare la transizione modificando le regole di policy, i sussidi, le tasse ecc., i Paesi produttori e i colossi petroliferi seguiranno immediatamente nell’adattarsi allo scenario mutato. Viceversa, se si attende che siano loro a operare una spontanea conversione e iniziare una riduzione unilaterale sul lato dell’offerta, si rimarrà aggrappati ad una pia illusione – e per fortuna, si direbbe, considerati gli shock macroeconomici a cui si è assistito anche negli ultimi anni a seguito di improvvise contrazioni delle forniture che non riuscivano a soddisfare la domanda del mercato.
Una celebre frase attribuita allo sceicco e ministro del petrolio saudita Ahmed Zaki Yamani afferma che: «Come l’età della pietra non era finita per mancanza di pietre, l’età del petrolio non finirà per mancanza di petrolio». Variando leggermente il tema, potremmo dire che l’età della pietra non finì né per mancanza di pietre, né perché l’umanità di allora cercò di convincere tutti i minatori del mondo a smettere di scavarle: semplicemente, alcuni iniziarono a lavorare il metallo; poi gli altri si adeguarono.