Libia: chi sono i trafficanti di esseri umani?
- 19 Gennaio 2018

Libia: chi sono i trafficanti di esseri umani?

Scritto da Federico Rossi

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Quando sentiamo parlare di trafficanti siamo spesso spinti a legare questa figura al tema delle migrazioni o a quello della criminalità, in alcuni casi persino ad entrambi. Per quanto non si tratti di associazioni sbagliate in sé, questo fatto è almeno parzialmente da imputare alla notevole esposizione mediatica che negli ultimi anni ha riguardato i cosiddetti trafficanti di esseri umani operanti nel deserto libico. Questa retorica è stata infatti adottata in particolare da molte delle forze moderate europee e ha permesso loro di porsi come alternative alle posizioni più anti-immigrazioniste, senza rinunciare ad un’idea comunque restrittiva sulle politiche migratorie.

Il trafficante di esseri umani è venuto così alla ribalta come uno dei nuovi nemici da combattere, quasi al pari del terrorismo, tanto che in più contesti si è parlato di lanciare una “guerra ai trafficanti”. Questa idea, in parte derivata anche da una confusione fra traffico e tratta di esseri umani, ha permesso così ad alcuni Stati, fra i quali spicca l’Italia, di perseguire l’obiettivo politico della riduzione dei flussi migratori dietro la giustificazione di un intervento umanitario, che rischia però di non tenere in considerazione le numerose sfaccettature della questione e la sua portata storica e sociale.

Quello che oggi viene ricondotto sotto la definizione di trafficante di esseri umani è infatti il frutto di una serie di evoluzioni progressive, cominciate attorno agli anni Sessanta e sviluppatesi parallelamente ai cambiamenti nel contesto politico dell’area. Il legame fra la versione tradizionale di questa figura e le migrazioni internazionali nacque solo con l’inizio dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi libici, che rese molto redditizio il trasporto di migranti soprattutto da Egitto e Tunisia verso la Libia. A questo scopo si dedicarono in un primo momento numerosi gruppi semi-nomadi, perlopiù tuareg, che tradizionalmente gestivano piccoli commerci transfrontalieri più o meno leciti e perciò conoscevano bene le rotte.

Al tempo per identificare questi primi gruppi i ricercatori che si occupavano della materia utilizzavano il termine “passatore”, un calco dal francese che, a differenza di trafficante, non contiene in sé nessuna accezione negativa. I passatori erano all’inizio semplicemente coloro che, dietro compenso, scortavano gruppi di migranti da un paese all’altro. Ma questi non si limitavano solo al trasporto di persone: in un’epoca ancora non interconnessa mantenevano i contatti fra la comunità emigrata e quella rimasta in patria, portavano alle famiglie le rimesse degli emigrati e svolgevano una serie di servizi paralleli alla migrazione, fra cui il prestito di denaro. Pur trattandosi di un lavoro formalmente illegale, quello del passatore era un ruolo estremamente tollerato e, a tratti, quasi incoraggiato in un periodo in cui le migrazioni fra gli Stati arabi garantivano una stabilizzazione politica ed economica dell’area.

Nel corso degli anni Ottanta e Novanta si intensificarono le migrazioni non solo intra-Maghreb, ma anche fra paesi saheliani e Maghreb, particolarmente favorite dalla promozione dei nuovi ideali panafricanisti di Gheddafi e da alcune gravi crisi umanitarie in paesi come Ciad, Niger e Mali. L’ampliamento della rete migratoria, spinse i passatori a dotarsi di organizzazioni più strutturate e ad intensificare le sempre più redditizie attività parallele. In poco tempo un intero sistema economico venne a strutturarsi attorno a questi traffici e città in mezzo al deserto, come Sebha e Koufra in Libia o Tamaghasset in Algeria, prima ritenute periferiche rispetto alle zone costiere, divennero importantissimi centri commerciali e snodi migratori. Aumentarono anche i soggetti coinvolti in questi traffici: non più soltanto comunità tradizionalmente dedite a simili attività, ma anche molti ex immigrati e altri individui attratti dai profitti economici.

 

Il ruolo chiave della Libia

Questo complesso e articolato meccanismo inizia però ad entrare in crisi agli inizi del nuovo millennio con l’aggravarsi della crisi politico-economica della Libia, principale destinazione delle rotte migratorie. Sul regime di Gheddafi, affetto da una stagnazione ormai cronica, pesavano in particolare le conseguenze dell’embargo internazionale imposto nel 1992, motivo per cui a partire dai primi anni Duemila la Libia, tentando di riabilitarsi a livello internazionale, si avvicina sempre di più all’Europa, particolarmente interessata in questi anni ai rapporti con l’altra sponda del Mediterraneo.

Nell’ottica della strategia di esternalizzazione delle frontiere infatti molti Stati europei avevano concluso una serie di accordi con i paesi del Maghreb per il controllo dei flussi migratori, che allora cominciavano ad arrivare sulle coste europee. La gran parte degli accordi così conclusi invitavano gli Stati della sponda sud del Mediterraneo a chiudere le proprie frontiere meridionali, andando quindi a incidere sulla rete di traffici informali e collegamenti consolidatasi nei precedenti anni.

È da questo momento in poi che la figura del passatore comincia la sua trasformazione in quella del moderno trafficante. La militarizzazione delle frontiere spinge questi gruppi ad armarsi, le rotte diventano via via più rischiose e con il progressivo irrigidimento delle leggi di immigrazione, soprattutto in Libia, molti passatori vengono arrestati. I tradizionali gruppi di passatori puri o di ex migranti poi riciclatisi nell’economia dei traffici sono così in parte soppiantati da gruppi più organizzati, spesso composti di cittadini libici o tunisini, facilitati dalle nuove restrizioni.

Anziché fermare i flussi portati avanti su queste rotte i tentativi di chiusura delle frontiere hanno portato piuttosto alla criminalizzazione dei passatori, favorendo soprattutto coloro che potevano vantare legami con le organizzazioni criminali transnazionali, come le mafie sudanese e nigeriana. Sempre più spesso il trasporto di migranti viene quindi ad accompagnarsi ad altre attività parallele e altrettanto redditizie, come il traffico di armi e droga o la tratta femminile con lo scopo di sfruttamento della prostituzione.

Naturalmente questo processo non è immediato né totale: una parte dei traffici restano nelle mani dei vecchi gruppi di passatori e l’economia parallela alle rotte continua, tuttavia le principali vie cadono progressivamente in mano ad altri soggetti più forniti di denaro, armi e peso politico. Anche il giro di vite organizzato dal regime di Gheddafi nel biennio 2008-2009, sotto la spinta degli accordi con l’Italia e l’Unione Europea, non fa che accentuare questo percorso di trasformazione.

L’ultimo tassello della definitiva evoluzione dal passatore tradizionale al trafficante come si intende oggi arriva però con la guerra civile libica del 2011 e le sue conseguenze in tutta la zona sahelo-sahariana. All’inizio del conflitto contro le forze anti-regime, raccolte nel Consiglio Nazionale di Transizione, Gheddafi ha infatti liberato dalle prigioni libiche gran parte dei trafficanti arrestati negli anni precedenti, vanificando gli anni di repressione e fornendo ulteriori armi a quelli disposti a servire come mercenari fra i lealisti.

La frammentazione del paese originatasi dalla guerra e l’incapacità dei governi succedutisi dopo la caduta di Gheddafi hanno poi permesso al sistema di traffici di ripartire indisturbato e prendere sempre più campo. A questo si sono aggiunte poi la distruzione dell’industria petrolifera libica e l’interruzione dei trasferimenti in denaro dalla Libia ai paesi più a Sud, elementi che hanno reso l’economia dei traffici la più importante (se non l’unica) fonte di reddito in questo spazio.

Ma le mosse della politica internazionale e il tentativo di controllare i flussi migratori hanno innescato anche un ulteriore meccanismo perverso. Quasi tutte le forze politiche, che sono riuscite ad ottenere un certo controllo su almeno una porzione del territorio, hanno infatti cercato legittimazione internazionale proponendosi come gendarmi dei flussi migratori, un obiettivo che è stato perseguito fra le altre cose sfruttando anche il lavoro dei trafficanti stessi.

I rapporti di numerose associazioni e ricercatori hanno riportato ad esempio che il DCIM, il Department for Combating Illegal Migration, una delle poche istituzioni rimaste in piedi in Libia, si è ampiamento servito di trafficanti di esseri umani per implementare espulsioni massive. Questi avrebbero in alcuni casi organizzato una vera e propria tratta al contrario, trasportando al confine con il Niger molte vittime di queste espulsioni indiscriminate, indipendentemente dalla nazionalità o dal possesso o meno di un permesso di soggiorno, ed estorcendo loro denaro.

Gli accordi presi da governi territoriali e milizie libiche con gli Stati europei hanno favorito parallelamente la creazione di un circolo vizioso: molti dei gruppi miliziani che si occupano di gestire i centri di detenzione in cui i migranti vengono fermati sono infatti gli stessi che gestiscono porzioni del traffico. Questo fa sì che molti dei migranti che riescono a uscire da questi centri, generalmente dietro pagamento, vengano indirizzati nelle mani di trafficanti che, se non dispongono di somme sufficienti, potrebbero riportarli in un altro centro.

In questo quadro particolarmente problematiche sono anche le conseguenze del supporto ai gruppi che si occupano di controllare i traffici. Il sostegno europeo offre infatti a questi attori del frammentario panorama libico un veicolo per accrescere la propria influenza politica e, quando gli aiuti prevedono una componente economica, anche quella militare, sbilanciando così assetti di per sé molto fragili.

Negli incontri dello scorso anno il Ministro dell’Interno Marco Minniti ha stretto accordi politici, oltre che con alcuni gruppi tuareg e tebu, con il clan Awlad Suleiman, che controlla una parte di Sebha, città principale del Fezzan, ed è stato fra i primi a insorgere contro Gheddafi. L’accordo prevedeva fra le altre cose impegni a sostenere la lotta all’immigrazione irregolare, il che, considerando che gli Awlad Suleiman gestiscono una buona parte dei traffici attorno a Sebha, si è tradotto essenzialmente con il pagare questa formazione perché inverta la direzione del traffico.

In questo modo gli Awlad Suleiman hanno potuto emergere nel contesto regionale e insidiare il potere degli altri soggetti coinvolti nell’area, in particolare dei due principali rivali della zona esclusi dalle trattative: i Gadadfa, il clan a cui apparteneva lo stesso Gheddafi e che gode ancora di un certo favore, e soprattutto i Magarha, un tempo alleati preziosi del dittatore, essendo il secondo clan più grande della Libia (dopo i Warfalla) e quello che tradizionalmente ha avuto il maggior peso nel Fezzan. Grazie agli accordi per il controllo dei traffici gli Awlad Suleiman sono diventati quindi un attore più pericoloso nella lotta per il controllo del sud della Libia e delle risorse petrolifere di quest’area.

 

Lo spazio saheliano e l’economia dei traffici

Accanto a situazioni di questo tipo esiste un altro problema, che alcune recenti sollevazioni in Niger hanno portato alla luce. Quello del passatore, o del trafficante nella sua manifestazione separata dalla criminalità organizzata, è infatti ancora ampiamente riconosciuto come una professione rispettabile in gran parte dello spazio saheliano e rappresenta l’occupazione tradizionale di una non trascurabile parte delle comunità tuareg e tebu. Questo legame fra la società tradizionale, le migrazioni e l’economia dei traffici si è poi accentuato ancora di più negli ultimi anni a causa della crisi economica e politica che ha investito l’area dopo il rovesciamento del regime di Gheddafi.

Il Niger in particolare, diventato oggi una delle chiavi delle mosse geopolitiche europee e italiane nella zona, è forse il paese che più di tutti assieme al Mali ha sentito il contraccolpo della crisi libica. La brusca interruzione delle rimesse degli emigrati nigerini in Libia, che costituivano una parte molto consistente del bilancio statale, e l’espulsione o la fuga di molti migranti dalla Libia verso il suo territorio ha causato una serie di pericolose reazioni a catena, fra cui una grave carestia che ha messo in ginocchio il paese.

Dal 2015, con il cosiddetto Processo di Khartoum, che si proponeva l’obiettivo di fermare i flussi migratori a sud della Libia, l’Europa ha cercato di coinvolgere sempre di più questo Stato in una possibile operazione anti-trafficanti nel tentativo di chiudere la rotta di Agadez, una delle principali arterie migratorie dall’Africa equatoriale. Il Niger è attualmente governato da Mahamadou Issoufou, che ha ottenuto un secondo mandato alle elezioni presidenziali del 2016 dopo aver incarcerato con dubbie accuse il suo avversario, ma il suo regime si regge essenzialmente su reti clientelari e i finanziamenti ottenuti dai paesi europei per il controllo delle migrazioni sono serviti soprattutto a mantenere queste intatte.

Dopo essere stato ospite per il G7 a Taormina, Issoufou è riuscito a presentarsi come interlocutore alternativo alla Libia per gli obiettivi di repressione delle migrazioni dell’Europa e l’Italia ha così deciso di intervenire a supporto alle truppe nigerine nella “guerra ai trafficanti” con una propria missione militare, il cui finanziamento è stato recentemente approvato dal Parlamento italiano. Lo scenario di questa nuova “crociata” potrebbe tuttavia rivelarsi più complesso del previsto: il Niger resta un paese privo reali fonti di reddito e dopo la scomparsa del mercato libico, da sempre sbocco privilegiato per i lavoratori nigerini, l’economia dei traffici resta fra le poche fonti di guadagno stabile.

Già nel 2016 gli influenti gruppi tebu si sono ribellati ai tentativi di controllo dei flussi che Issoufou ha messo in campo, incontrandosi in quest’occasione con altre manifestazioni contro il carattere repressivo del regime. A complicare una situazione già precaria vi è poi il fatto che il Niger, essendo essenzialmente un paese di transito, dovrebbe trattenere sul proprio territorio persone provenienti dagli Stati equatoriali, che rischierebbero di complicare il già difficile accesso alle risorse.

Estirpare l’economia dei traffici significa insomma danneggiare una struttura tradizionale che si è costituita negli anni, soprattutto nella zona saheliana, come un vero e proprio settore economico a parte e, di conseguenza, destabilizzare ancora di più un contesto estremamente fragile, che vede fra le altre cose una rilevante penetrazione di gruppi fondamentalisti come Boko Haram e AQMI, la filiale nordafricana di Al-Qaeda.

La “guerra ai trafficanti” che è stata lanciata si basa insomma su una serie di postulati che, se messi alla prova dei fatti, incontrano numerose criticità. Come abbiamo visto l’equazione fra criminalità e traffici non corrisponde ad una verità assoluta, ma si verifica soprattutto per effetto della repressione di queste attività, allo stesso modo anche l’assunto per cui i traffici sarebbero destabilizzanti per gli Stati attraversati si scontra con l’evidenza storica, che anzi dimostra in qualche caso un effetto contrario.

Vi è poi un ultimo presupposto della “guerra ai trafficanti” che non sembra convincente. La figura del migrante che consegue da questa rappresentazione del trafficante/passatore lo vede infatti come una semplice pedina in mano ai suoi traghettatori, senza considerare che chi emigra dall’Africa equatoriale si affida ai trafficanti volontariamente perché questo è il solo modo che ha di arrivare all’altra sponda del Sahara.

Se non si comprende questo punto non si capisce il perché la repressione non potrà probabilmente mai eliminare davvero i traffici. Finché ci sarà domanda e finché questa resterà l’unica alternativa economica per una parte rilevante della popolazione sahelo-sahariana il traffico di migranti continuerà ad andare avanti, magari spostandosi su altre rotte più pericolose o armandosi ancora di più per bilanciare gli effetti della repressione.

Scritto da
Federico Rossi

Nato nel 1995, attualmente studente di Scienze Politiche e Sociali presso la Scuola Superiore Sant’Anna e di Governance delle Migrazioni presso l’Università di Pisa, dopo aver conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche Internazionali nello stesso ateneo. Attivo in alcune associazioni di volontariato e sportello legale per le migrazioni, tiene una rubrica a tema immigrazione per la rivista online “Il Fuochista”.

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