Note su alcuni usi recenti della categoria di fascismo
- 12 Novembre 2018

Note su alcuni usi recenti della categoria di fascismo

Scritto da Cosimo Francesco Fiori

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Il termine “fascismo” ha conosciuto ultimamente una certa diffusione per descrivere alcuni fenomeni politici contemporanei. Le posizioni riguardo all’utilizzo di questa categoria sono molto diverse tra di loro e hanno generato notevole dibattito. Essendoci già occupati in passato del tema ospitiamo, come contributo alla discussione, questo articolo di Cosimo Fiori.


Per spiegare i confusi mutamenti politici degli ultimi anni si è inizialmente fatto ricorso alla categoria di “populismo”, descrittiva di uno stile di far politica (e perciò sostanzialmente trasversale alla dicotomia destra-sinistra). Si è poi affermata la categoria di “sovranismo”, che identifica la fiducia nel soggetto-Stato nazionale come ultima istanza di saldezza nel caos derivante dalla (in parte volontaria) sottoposizione immediata a vincoli esterni sovranazionali ed economici (nientemeno, in fondo, che una richiesta di primato della politica).

È più recente l’emersione della categoria di “fascismo” tout court, etichetta inizialmente riservata a Casa Pound e simili gruppi minoritari ma che oggi, nell’interpretazione di taluni (gruppi definibili come liberaldemocratici), comprende in senso lato l’intera compagine di governo, elettori inclusi.

Le categorie politiche sono categorie polemiche: non hanno cioè un fine analitico e scientifico, ma sono strumenti per l’azione. Il concetto del politico, secondo Schmitt, è al fondo la riduzione allo scontro amico-nemico, cioè la polarizzazione in due campi, tertium non datur. Se “fascismo” vale a definire uno dei campi, “non fascismo” è il campo di chi pronuncia l’accusa di fascismo contro gli altri. Il parossismo della polarizzazione porta a una fallacia del ragionamento che è stata definita ironicamente reductio ad Hitlerum, ossia l’accostamento al fascismo sulla base di aspetti non sostanziali, o propri non solo del fascismo (lasciando qui impregiudicata la questione del rapporto tra fascismo e nazismo). La forma logica dovrebbe essere: A è x, ma anche Hitler è x, quindi A = Hitler. Il ragionamento è fondato se “x” corrisponde a “campi di concentramento”; lo è meno se vi sostituiamo “bonifiche delle paludi” (uno Stato democratico non può fare bonifiche?), e non lo è affatto se la variabile diventa “tè coi biscotti”. Il punto, insomma, è il giudizio sui caratteri sostanziali e su quelli accidentali di un fenomeno storico: allargare la sostanza di un fenomeno fino a ricomprendervi di tutto renderà il ragionamento riduzionistico sempre vero (e quindi privo di contenuti).

Ora, le categorie del dibattito pubblico non brillano per precisione storica: “dittatura”, da magistratura romana con precisi presupposti e limiti temporali, diventa sinonimo di “tirannide” (e di “totalitarismo”, concetto polemico in sommo grado, che è stato riempito negli ultimi decenni dei contenuti più utili allo screditamento dei nemici dell’Occidente); “democrazia” è un indistinto che percorre la storia da Pericle alle Costituzioni postbelliche senza modifiche di sorta; e anche “fascismo”, a seconda di come lo si considera, potrebbe ben comprendere in sé le esperienze di governo di Pisistrato o di Silla. La tendenza a vedere nel fascismo un non ben definito Male radicale (che ci esime dal ricercarne le cause) ha molti padri. Il Male si presenta nella storia ciclicamente, a suo talento, e allora bisogna riconoscerlo: Umberto Eco provò a definire delle caratteristiche sostanziali di un fascismo eterno (“Ur-fascismo”). Ci riprova oggi Michela Murgia nel suo ultimo libro, dove condanna 65 tesi o luoghi comuni ritenuti espressione o prodromo di fascismo (con un vero e proprio “fascistometro” – il livello è questo – ).

 

Dall’Ur-fascismo al fascistometro 

Si tratta di un’operazione polemica ma piuttosto indicativa delle idee di un importante blocco sociale, che tende a fare poche distinzioni e, di fronte allo sgretolamento di un intero sistema politico, reagisce tacciando di fascismo ciò che mette in discussione l’esistente (come se l’esistente non fosse già un problema). Nella condanna della Murgia cadono tutti: oltre, ovviamente, ai capisaldi della Lega, diventa fascista lo slogan primigenio dei 5 Stelle («uno vale uno»), espressione piuttosto di un democratismo ingenuo; così come fascista è la renziana «rottamazione», insieme all’antiparlamentarismo spicciolo della polemica contro i privilegi dei parlamentari. Essa, invero, fu iniziata da due giornalisti dello storico giornale espressione della borghesia del Nord, il Corriere della sera (è lì che nasce «la casta»), dando ancora una volta ragione a Gramsci che parlava di sovversivismo delle classi dirigenti italiane. È singolare che giornalisti del Corriere, M5S – novelli fascisti – e presidente dell’Inps siano stati per anni uniti nella polemica contro i vitalizi (se le analogie vanno cercate, è da ricordare che furono proprio i liberali al potere a permettere l’ascesa del fascismo in Italia, così come furono capitali provenienti dalle democratiche Francia e Inghilterra a permettere a Mussolini di fondare il Popolo d’Italia).

Ognuna delle 65 tesi della Murgia meriterebbe un commento a sé (ma la distinzione, come detto sopra, è impossibile se si riduce tutto all’amico/nemico, antifascista/fascista). Per esempio, la tematica dell’antiparlamentarismo è sempre stata tipica della destra, ma di per sé affermare che il Parlamento non funziona non è necessariamente funzionale al “rottamarlo”, ma magari anche a farlo funzionare meglio. Dopotutto, altro è difendere le istituzioni democratiche, altro è farne feticcio: anche il pensiero che discende da Marx voleva la fine dello Stato come separazione tra società civile e società politica. Tra il serio e il faceto, Bordiga (allora segretario comunista, che fu sottoposto a restrizioni da parte del fascismo – meno di altri, perché fu poi espulso dal partito) nel 1922 affermava: «i fascisti vogliono buttar giù il baraccone parlamentare? Ma noi ne saremmo lietissimi». Nella Costituzione italiana è affermato l’istituto liberale dell’assenza del vincolo di mandato del parlamentare, che rappresenta (ciascuno) la Nazione. Ma è fascismo affermare che «senza vincolo di mandato i parlamentari cambiano casacca ogni volta che vogliono», in un paese dove dai tempi della Destra e della Sinistra storica il trasformismo è di casa? Prima dei reclami dei 5 Stelle, il vincolo di mandato e la revocabilità dei delegati (non rappresentanti) era d’uso nei Soviet. È chiaro che il soggetto sostanziale della politica parlamentare, in tale caso, sarebbe non il singolo parlamentare ma il partito, e tuttavia non si può dire che di questi tempi il problema sia l’onnipotenza dei partiti, quanto piuttosto il contrario.

Ancora: «il suffragio universale è sopravvalutato». Può valere a dire che sarebbe meglio privare molti del diritto di voto (cosa che, in realtà, molti lettori della Murgia pensano si debba fare proprio con gli elettori della Lega e dei 5 Stelle). D’altro canto, il suffragio universale è in effetti sopravvalutato se davvero si pensa che l’«opinione di un qualsiasi imbecille» valga «esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi le sue migliori forze»: «i numeri (…) sono un semplice valore strumentale (…). E che cosa poi si misura? Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites (…). Le idee e le opinioni non “nascono” spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione (…). La numerazione dei “voti” è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che “dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze” (quando lo sono). Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiede, non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi “nazionali” (…)» (Gramsci, Quaderno 13, nota 30). Partendo da una concezione di democrazia che ha letto e capito la lezione della migliore scienza politica italiana (Mosca etc.), il suffragio popolare, qualora lo si intenda come essenza unica della democrazia (democrazia formale, che si riduce alla regola della maggioranza), allora è davvero sopravvalutato: ma non nel senso che, assegnando a «ogni imbecille» (ogni “analfabeta funzionale”) un potere, è un metodo da cambiare perché sbagliato; bensì nel senso che «ogni imbecille» non ha alcun vero potere. Ed è da dubitare che un simile ragionare sia fascista.

Tema peculiare è quello dell’immigrazione, circa il quale viene in rilievo il famoso «sarebbe meglio aiutarli a casa loro», intenso come un modo per lavarsi le mani del problema. Tuttavia, da un punto di vista strettamente letterale, è fascista ritenere che un africano debba poter vivere, se ritiene, dove è nato, senza dover fuggire? Restringendo il problema all’Italia: se al Sud non c’è lavoro e i giovani vanno al Nord, ciò è un problema, che si risolve – oltre all’ovvia condanna del vecchio “non si affitta ai meridionali” – creando il lavoro al Sud, senza che ciò sia una soluzione fascista. Singolare, al proposito, è che in Europa e in Italia (si veda il recente appello di Cacciari) si guardi, fra gli altri, a Macron come possibile padre nobile dello schieramento anti-destre, quando la Francia ha sospeso Schengen ed è l’unico paese che tuttora svolge, nonostante l’indipendenza algerina, una efficace politica coloniale nel Nord Africa, patria di molti migranti (politica che si compone di basi militari, forze navali e force de frappe – la bomba atomica – nonché di una moneta – il franco CFA – in base alla quale 14 paesi sono sottoposti alle direttive monetarie di Parigi).

I risultati elettorali del 4 marzo scorso, specie quelli di San Babila a Milano, non devono poi essere stati molto chiari se si ritiene un’affermazione fascista «facile parlare quando hai il culo al caldo e l’attico in centro»: le elezioni italiane, l’elezione di Trump, la Brexit etc. saranno pure il segno di un enorme disagio (questo viene pur riconosciuto), ma tale disagio si dovrebbe combattere continuando nello stesso solco dei 20-30 anni passati. Allora «destra e sinistra sono ormai uguali» è affermazione che tende al fascismo, ma un conto è dire che la destra e la sinistra come categorie non hanno più ragion d’essere, altro conto è dire che sono di fatto uguali: sarebbe fascista affermare che dopo la fine del comunismo i vecchi partiti di sinistra hanno perso il bandolo della matassa e sono diventati liberisti? Che Blair in Inghilterra ha continuato l’opera della Thatcher, che la socialdemocrazia tedesca ha fatto riforme del mercato del lavoro di destra, e così in Italia, dove la sinistra ha fatto – e rivendica ancora – le privatizzazioni e le liberalizzazioni? Si potrebbe dire che le scelte non erano facili, ma che la sinistra abbia patito una riduzione dell’autonomia culturale e politica, tanto da non distinguersi, in molte scelte decisive, dalla destra liberista, è esattamente il problema, e non è certo fascista affermarlo.

Talora siamo proprio di fronte alla negazione pura e semplice dell’evidenza: «bisogna capire che la gente è stanca» sarebbe affermazione in odor di fascismo, così come «non si fa nulla per il problema delle culle vuote». Qui la puzza di fascismo è forte perché riecheggia la politica del Ventennio per la prole; nondimeno è vero che l’Italia ha un problema demografico, e non dirlo non lo risolve. Poi ci sono le soluzioni false, come le elargizioni di oboli alle madri; ma dire che in un paese ad alta disoccupazione e dove regna l’incertezza sul futuro è ovvio che non si fanno i figli, questo dovrebbe essere invece sacrosanto. L’applicazione indefessa della reductio fa sì che ogni volta che qualcuno solleva problemi veri, se questi problemi sono già presidiati dalla destra, allora quel qualcuno è di destra.

Ciò vale anche per l’Europa: ad esempio, sarebbe fascista rivendicare l’importanza dei confini (è chiaro che il riferimento è all’arrivo dei migranti). Gioverebbe forse ricordare che il confine classico degli Stati blocca non solo le persone, ma anche le merci e i capitali, tutte cose che i Trattati europei hanno inteso rendere libere nella loro circolazione, nell’ottica del mercato unico. Sicché se i prodotti del paese A sono migliori di quelli prodotti nel paese B, le imprese di quest’ultimo dovranno migliorarli o chiuderanno: è la concorrenza. L’agevolazione della concorrenza non ha però tenuto conto, per esempio, dei livelli di tassazione: se un paese abbassa ad arte le imposte per le imprese affinché esse vi trasferiscano la sede, questo è lecito, e non si può impedire. Se non c’è una Banca centrale che presidia i titoli del debito pubblico difendendoli dalla speculazione in modo forte, a ogni ondata speculativa vi sarà una lecita fuga di capitali dal paese: anche questa non si può in alcun modo impedire. Insomma, il limite crea un al di qua di possibilità: è un trascendentale della politica. Se in un’ottica di cosmopolitismo senza mediazioni (che è poi la globalizzazione) si aprono i confini senza nessuna sicurezza in cambio, si è oggi imparato che gli Stati perdono molte capacità di manovra, alienandosi il consenso delle masse e finendo delegittimati (si vedano i “trilemmi” di Rodrik o di Mundell-Fleming), senza che sia possibile far nulla (va pur detto, come notava Polanyi, che l’apertura ai mercati è pur sempre una scelta che qualcuno ha fatto). L’apertura dei confini, l’abbattimento dei muri deve allora fare i conti col fatto che il potere non sparisce insieme al muro abbattuto.

 

La contrapposizione fascismo-democrazia

La contrapposizione odierna tra fascismo e democrazia è dunque in grande odore di falsità. Per prima cosa, se si adopera la categoria di fascismo in modo indiscriminato, la categoria non spiega più nulla e impedisce di distinguere. Vi sono analogie tra ciò che oggi vien detto fascismo e il fascismo storico, ma vi sono anche differenze. Il fascismo storico nasceva nella lotta della piccola e media borghesia contro le organizzazioni operaie e bracciantili, al punto tale da allearsi con i grandi industriali e gli agrari (vi era in sostanza uno schema triadico, in cui sia i socialisti sia i fascisti erano critici verso lo Stato liberale: la polarizzazione – armata – portò i socialisti in minoranza, insieme ad alcune forze democratiche). Lo schema odierno sembra invece diadico: da un lato le forze politiche che hanno governato i processi della globalizzazione e dell’integrazione europea negli ultimi decenni, dall’altro le forze populiste oggi egemoni, almeno in Italia. O si crea uno spazio terzo, oppure si finisce per accrescere le fila di uno dei due schieramenti (e questo è da evitarsi, specie se si ritiene che il torto sia in essi egualmente distribuito).

Altro problema insito nella contrapposizione fascismo-democrazia: che cosa è la democrazia che si difende? Non solo la regola della decisione a maggioranza, ma un sovrappiù di “valori”, di regole liberali. Per usare una formula del giurista e politico SPD Adolf Arndt, «la democrazia come sistema di decisione a maggioranza presuppone il consenso su ciò che non si può mettere ai voti». Tale consenso è il frutto di una qualche omogeneità di fondo, pur in una società pluralistica come quella odierna. Avvisaglie di tale omogeneità si rinvengono nella Costituzione italiana all’articolo 1, dove si dice che la Repubblica è fondata sul lavoro, e nella politica economica di Stato sociale che ha caratterizzato tutte le democrazie occidentali (almeno fino alla svolta neoliberale), con la quale si rafforzava nientemeno che la base sociale della democrazia: la quale non si dà mai in astratto, ma vive nel contesto. Se viene meno quella base sociale, come si può credere che una società fondata su mere regole, su principi liberali, su “valori” e diritti individuali possa reggersi da sola? Si pone, secondo il giurista tedesco Böckenförde, «la questione delle forze unificatrici: lo Stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé non può garantire», ciò che lo porta a chiedersi: «su che cosa si appoggia lo Stato in tempi di crisi?».

Ciò che, oggi, si chiama “fascismo” prospera proprio perché tenta di ricreare una base sociale unitaria; l’opposizione a ciò non può venire dalla difesa astratta di regole e valori senza gambe per camminare, ma dalla costruzione di una base popolare diversa, che riaffermi il lavoro come base fondante e concreta della Repubblica, e condanni come illusoria e astratta quell’italianità su cui il preteso “fascismo” fonda il suo consenso. Nondimeno, da un lato il «prima gli italiani» è percepito oggi come più concreto di un «più Europa», specie se le colpe dell’Europa sono non poche; dall’altro, si porrà sempre il problema del confronto “prepolitico” con gli immigrati, ma è da ritenere che i problemi sarebbero molti meno se la disoccupazione non esistesse.

La critica dovrebbe sempre porsi a un livello di razionalità storica più elevato dell’oggetto criticato, ed è da dubitarsi che un certo modo di porre la questione, cioè una sorta di riproposizione dell’antifascismo, lo sia. Si potrebbe anzi sostenere che un tale “antifascismo” (antifascismo dei valori, senza alcuna traccia di socialismo) sia la notte in cui tutte le vacche son fasciste. Rinunciando a distinguere (i problemi veri dalle soluzioni false – la «gente che è stanca», che ha paura del futuro, dalla flat tax) si rinuncia alla possibilità di fare breccia nel campo avverso: si veda a titolo d’esempio la distinzione che nel 1936 faceva il Pci tra il programma di San Sepolcro del 1919 e il fascismo realizzato, facendo proprio (polemicamente) il primo e denunciando il tradimento del secondo; il tutto in un Appello ai fratelli in camicia nera (che va inteso per quello che era: un tentativo, in linea con l’idea togliattiana, di staccare le masse dalle organizzazioni fasciste). La cosiddetta lotta antifascista, oggi, sembra invece riprendere l’insegnamento del legato papale di Albi durante la crociata contro gli albigesi: come fate a distinguere gli eretici? Voi crociati fateli fuori tutti, Dio riconoscerà i suoi. Ma questo, a tacer d’altro, sarebbe impossibile; e, anche ove fosse possibile, sarebbe inefficace, perché la cura che si propone contro l’eresia è, in ultima analisi, la prosecuzione delle cause che la generano.


Avanguardia Nazionale a Roma, 1975. Crediti immagine: L’Europeo 1975 N° 1/2, [Public Domain] attraverso wikimedia.com

Scritto da
Cosimo Francesco Fiori

Nato nel 1988 a Sassari. Dopo la laurea triennale in Filosofia e gli studi presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, studia Giurisprudenza all'Università di Pisa.

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