Recensione a: Byung-Chul Han, Psicopolitica, traduzione di Federica Buongiorno, nottetempo, Milano 2016, pp. 120, 12 euro (scheda libro)
Scritto da Federico Gonzato
6 minuti di lettura
Quando si parla di big data, intendiamo un fenomeno di portata enorme e in continua evoluzione. I big data sono grandi sistemi di aggregazione di informazioni, che superano di molto le capacità di raccolta dei tradizionali hardware. Con il progresso e lo sviluppo degli algoritmi che governano internet, i social network e soprattutto le grandi piattaforme di e-commerce, i big data vengono considerati il “petrolio”, la nuova fonte di ricchezza della nostra epoca. E questo, perché le informazioni che i big data raccolgono riguardano la vita, le preferenze, i gusti di noi come “cittadini del Web”. Informazioni, che possono essere scambiate, vendute e acquisite.
I prodotti consigliati “che ti potrebbero interessare” su Amazon; le playlist automaticamente modellate sui gusti musicali degli utenti prodotte dall’algoritmo di Spotify; la codificazione da parte di Netflix di centinaia e centinaia di “micro-generi” cinematografici sulla base delle scelte degli stessi utenti. Tutti questi sono esempi di utilizzo dei big data da parte dei colossi del Web. Il meccanismo è molto semplice: gli algoritmi regolano il funzionamento di queste piattaforme ed estraggono informazioni dall’attività dei singoli soggetti che usufruiscono della loro offerta. Tale aspetto presenta risvolti particolarmente spinosi in termini di controllo e omologazione.
Ed è proprio del controllo sociale al tempo dei big data, della sorveglianza digitale nell’epoca della società dell’informazione, che parla un saggio pubblicato per la prima volta nel 2014 – ma ora quanto mai attuale – intitolato Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere (Nottetempo, 2016) ed è opera del filosofo e teorico della cultura sudcoreano Byung-Chul Han[1].
In Psicopolitica, Han ha condotto un grande, ma allo stesso tempo arduo e rischioso, tentativo di condensare e attualizzare il pensiero di Michel Foucault e della Scuola di Francoforte riguardo la critica del “potere”. Il tutto, in un saggio di cento pagine, una sorta di breviario del pensiero critico contemporaneo.
In fondo, la domanda che attraversa tutto il saggio di Han è semplice: nella società dell’iper-connessione, di un internet senza barriere, siamo veramente liberi?
A metà degli anni Settanta, il filosofo Michel Foucault svolse una critica a tutto campo alla teoria giuridica e filosofica classica sul concetto di “potere”. In opere come Sorvegliare e punire (1975) e La volontà di sapere (1976) o negli scritti raccolti Microfisica del potere (1977), Foucault delineò una nuova “analitica del potere”. Un potere che, fino a quel momento, era stato inteso dalla gran parte degli studiosi come “sovrano”, un potere coercitivo nelle mani esclusive dello Stato. Una forza, dunque, che si svilupperebbe in un rapporto verticale, unidirezionale, dall’alto verso il basso. Foucault smontò questa interpretazione, prospettando un’idea opposta. Foucault parlò di un potere diffuso, non più monolitico; un potere ramificato, che si diffonderebbe “orizzontalmente” e non più “verticalmente”. Un potere tanto più efficace perché si propagherebbe attraverso le “istituzioni totali”. Queste ultime sarebbero il carcere (sul modello del Panopticon di Jeremy Bentham), la clinica, la casa di cura. Dispositivi, questi, che determinerebbero non un potere centralizzato, ma appunto diffuso. Il Panopticon è il carcere perfetto, architettato in maniera geometrica. In esso, tutti i detenuti possono essere sorvegliati da un potere che tutto vede; una sorta di Grande Fratello che impone la disciplina. Il potere in Foucault non è più potere di decisione “sulla vita o sulla morte”. Esso si occuperebbe direttamente di implementare la vita. Da queste deduzioni – che Foucault elaborò grazie allo studio diretto delle cliniche, dei manicomi e degli istituti penali – il filosofo francese arrivò a estendere il modello della sorveglianza disciplinare su di una scala più grande rispetto quella dei singoli internati: la popolazione. Foucault elaborò così il concetto di “biopolitica”. Con esso volle spiegare il fenomeno, strettamente contemporaneo, di una politica sempre più attenta e interessata alla regolazione della vita, dei ritmi e delle abitudini della popolazione. Il celebre controllo delle nascite praticato in Cina è un esempio lampante di biopolitica.
All’interno del saggio Psicopolitica, Han sostiene però la necessità di rivedere queste categorie foucaultiane. Gli algoritmi che oggi governano i social e i siti di e-commerce (e non solo), che consentono l’analisi dettagliata degli utenti (la cosiddetta “profilazione”) non potrebbero rappresentare – si domanda Han – nuove tecniche di potere che guardano più alla psiche che al corpo delle persone?
Dice Han: “Dopo Sorvegliare e punire, Foucault era chiaramente convinto che la società disciplinare non fosse uno specchio fedele del proprio tempo”. Successivamente, riprendendo il Poscritto sulle società di controllo (1990) di Gilles Deleuze, Han sostiene che, al giorno d’oggi, le classiche istituzioni di potere – scuola, prigione, caserma, clinica – “non si adattano alle forme di produzione post-industriali, immateriali, interconnesse, che spingono a una maggiore apertura e al venir meno dei confini”.
Nell’epoca dell’economia finanziaria e immateriale, “La biopolitica – prosegue Han – che usa le statistiche demografiche, non ha alcun accesso a ciò che è psichico”. Per Han, il capitalismo post-industriale, il “capitalismo delle piattaforme” – dove per “piattaforme” intende i giganti del Web – farebbe leva più sulle emozioni che sulla forza fisica; spingerebbe più sui gusti e le preferenze degli utenti che sulla produttività di questi. Perciò, alla biopolitica foucaultiana, Han sostituisce il termine appunto di “psicopolitica”. La psico-politica, in quanto agirebbe direttamente sulla psicologia e sulla mente delle persone.
Per questo, al potere disciplinare che imporrebbe delle regole e degli obblighi, Han sostituisce un potere intelligente, che seduce e gratifica. In questa analisi altamente pessimistica rispetto alla società contemporanea, Han parla della nascita di un “panottico digitale”. Per Han, esso sarebbe un nuovo sistema di controllo, fondato su un duplice meccanismo potentissimo.
Tale sistema troverebbe espressione negli smartphone e nei social-network. Infatti, da un lato, attraverso i social, gli utenti si “denuderebbero” volontariamente, mettendo in mostra deliberatamente la loro vita. Dall’altro lato, però, tali piattaforme sarebbero anche un “occhio” sorvegliante le nostre vite. Sempre in Psicopolitica, Han afferma che oggi “[…] nessuno si sente davvero sorvegliato o minacciato”. Questo sarebbe infatti il meccanismo della cosiddetta “libertà percepita”. Tradotto: si crede di essere liberi, ma in fondo non lo si è del tutto. In particolare, per spiegare il ruolo sociale ricoperto oggi dagli smartphone, Han utilizza una metafora provocatoria ma interessante: “Lo smartphone è un oggetto devozionale di natura digitale, anzi è per eccellenza l’oggetto devozionale del digitale. Come strumento di soggettivazione funziona come il rosario, che rappresenta per la sua maneggevolezza, una specie di cellulare”. Per Han, tanto il rosario quanto il cellulare rappresenterebbero due forme di dominio delegato ai singoli individui. Come il rosario sarebbe l’emblema del “dominio spirituale” auto-imposto dal fedele su sé stesso, il cellulare sarebbe l’emblema dell’auto-sorveglianza del cittadino digitale.
Su questo, Han svolge considerazioni interessanti riguardo il “Dataismo”, ovvero l’attuale strapotere dei dati e, soprattutto, dei big data.
Nel saggio, Han critica l’eccessivo ottimismo di molti rispetto a tale fenomeno. Tra tutte, la critica più aspra va al giornalista scientifico Chris Anderson. Quest’ultimo, ancora nel 2008, aveva inneggiato alla “rivoluzione dei dati” in un articolo apparso sulla rivista Wired dal titolo La fine della teoria[2]. Diceva Anderson: “[…] i dati sono una lente trasparente e affidabile, che ci consente di filtrare pregiudizi di natura emotiva e ideologica; i dati ci daranno la possibilità di realizzare cose straordinarie, come predire il futuro […]”. Han lancia un avvertimento rispetto questo “nuovo positivismo dei dati”.
Per questo, il pensatore sudcoreano riprende la Scuola di Francoforte. I dati costituirebbero il punto nevralgico di una nuova “Dialettica dell’illuminismo”. Un illuminismo non più fondato sul mito della ragione, bensì, sulla fede cieca al “dato” puro e semplice. Il rischio sarebbe la riduzione della vita umana a un quantified self, l’io quantificato. E quelli del filosofo sudcoreano non sono allarmismi infondati. Infatti, tralasciando gli esempi già citati di Amazon, Netflix e Spotify, si può citare un caso ben più controverso, che giustifica una seria apprensione sul dilagare dell’uso dei dati. Stiamo parlando del sistema dei “social credits”, un progetto che la Cina ha lanciato circa un anno fa al fine di delineare la reputazione del “buon cittadino”[3].
In sintesi, in Psicopolitica, Han ha cercato di superare il concetto di biopolitica e l’analisi foucaultiana. Tuttavia, nel farlo, si è posto in una sostanziale continuità con l’idea di base della concezione foucaultiana del potere. Ovvero, il suggestivo binomio “potere-sapere”. Difatti, tanto nella biopolitica foucaultiana, quanto nella psicopolitica di Han, i rapporti di potere e dominio si svilupperebbero a partire dall’acquisizione di informazioni, conoscenze e saperi, estratte dalla vita dei singoli. Da questo punto di vista, Han non ha fatto altro che dimostrare l’attualità del pensiero e dell’analisi foucaultiana.
[1] Classe ’59, Byung-Chul Han è docente di filosofia e studi culturali all’Universität der Künste di Berlino. Prima di trasferirsi in Germania negli anni ’80, Han studia metallurgia. Arrivato a Berlino si dedica allo studio della letteratura tedesca e della teologia cristiana. Nel 1994 ottiene il dottorato di ricerca con una tesi su Martin Heidegger. I suoi interessi spaziano dallo studio dei fenomeni comunicativi nelle società contemporanee, allo studio della filosofia orientale e all’estetica. Tra le sue ultime pubblicazioni troviamo Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose (Vita e Pensiero, 2017), Filosofia del buddhismo zen, (Nottetempo, 2018) e il più recente La salvezza del bello (Nottetempo, 2019), dedicato interamente alla concezione del “bello” nell’incrocio tra arte e la nuova società digitale.
[2] Chris Anderson, The end of theory: the data deluge makes the scientific method obsolete
[3] Antonio Fico, Cina: la reputazione del “buon cittadino” disegnata dai big data