Scritto da Adriano Cozzolino
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In generale, l’ultimo testo di Crouch arricchisce la lista, oramai sterminata, di posizioni critiche sul neoliberismo, che, come lo stesso Autore ammette (p. 22), è parola usata più dai critici che dagli epigoni del neoliberismo stesso. Il libro, tuttavia, presenta una serie di limiti inerenti proprio alla concettualizzazione del neoliberismo, che, a cascata, indeboliscono le proposte e prospettive di riforma.
Premettendo che la forma del pamphlet non consente disamine approfondite ma quadri generali, e che obiettivo di Crouch non è una ricostruzione storico-teorica del neoliberismo, va anzitutto segnalato che l’Autore espone una lettura del neoliberismo quasi esclusivamente idealtipica. «Il neoliberismo – secondo Crouch – non è propriamente un tipo di capitalismo, è piuttosto una strategia politica il cui proposito è rendere quanti più aspetti possibili delle nostre vite conformi all’ideale del libero mercato» (p. 9-10). Del neoliberismo, inoltre, l’Autore apprezza anche alcuni effetti benefici apportati alla società e al sistema politico-istituzionale (gli effetti positivi del neoliberismo sono affrontati nel capitolo secondo).
Crouch ne enuclea quattro principali: l’avere promosso, nella gestione della cosa pubblica, una mentalità orientata al rapporto costi-benefici; l’avere favorito la separazione tra banche centrali e governi, prevenendo l’utilizzo della spesa pubblica a fini politici; l’avere dato impulso alla crescita del commercio tramite la spinta competitiva, favorendo la specializzazione delle aziende e consentendo ai «paesi poveri di entrare a far parte dell’economia mondiale spingendo gradualmente i loro popoli fuori dalla povertà» (p. 50); infine, l’avere favorito l’apertura dei confini e la più facile circolazione di idee, delle persone e delle pratiche culturali.
A fronte di questa disamina, dunque, Crouch non propone un’inversione a U rispetto alle politiche neoliberali precedenti, e non propende per l’irriformabilità del capitalismo neoliberale, ma avanza una proposta che tenga insieme il meglio della teoria neoclassica/neoliberale con un processo di correzione/riforma che parta dagli stessi attori che hanno favorito processi di neoliberalizzazione nelle precedenti decadi. Questa prospettiva, che non manca di un notevole ottimismo della volontà, sconta una lettura eccessivamente semplificata e, come detto poc’anzi, idealtipica (e piuttosto statica) del neoliberismo.
A giudizio di chi scrive, il capitalismo neoliberale è una fase storica di ristrutturazione delle relazioni sociali di produzione che, negli ultimi quarant’anni, ha favorito processi di accumulazione capitalistica, in termini sia di rendita che di profitto, su scala nazionale e globale. In tal senso, il neoliberismo non è il frutto di un corpus di idee più o meno coerenti e vincenti, ma quel momento della storia occidentale che coincide con la riaffermazione, dopo gli anni del compromesso keynesiano, degli interessi del capitalismo finanziarizzato, e delle forme ideologiche associate a questo. Del resto, se ci trovassimo al cospetto di una mera battaglia ideale, il capitalismo nella sua variante neoliberale sarebbe stato sostituito, a fronte dei suoi fallimenti sistemici, da forme più o meno incisive di regolamentazione dei movimenti del capitale finanziario e/o da un ritorno, su larga scala, dell’intervento pubblico correttivo.
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