Tre letture su fascismo e antifascismo
- 27 Luglio 2024

Tre letture su fascismo e antifascismo

Scritto da Enrico Fantini

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Nei lunghi anni che ci accompagneranno da qui (in realtà dal 2022 o addirittura dal 2019) al 2045 troveremo innumerevoli ragioni per tornare a riflettere sul tema del fascismo. Certamente l’ottobre 2022 ha rappresentato, almeno in Italia, un momento di grande rilievo simbolico, con la sovrapposizione del centenario della marcia su Roma e l’insediamento del governo Meloni. In tale occasione si è assistito ad una moltiplicazione delle pubblicazioni in merito alla minaccia di un possibile ritorno di regimi autoritari al potere. Non si tratta di un tema inedito: al contrario, ha goduto di notevole fortuna durante l’intera stagione post-bellica (dal 1945 ad oggi), con alcune punte di intensificazione tra i tardi anni Sessanta e Settanta e più recentemente a seguito della crisi economica del 2008 e la conseguente affermazione di movimenti populisti in Europa (e in generale nel mondo). Depositatasi un po’ di polvere sulle polemiche dello scorso 25 Aprile, proviamo a sondare qui alcuni di questi titoli, certamente tra i più interessanti, apparsi negli ultimi mesi: Antonio Scurati, Fascismo e populismo. Mussolini oggi, Bompiani, (novembre) 2023; Luciano Canfora, Il fascismo non è mai morto, Edizioni Dedalo, (gennaio) 2024; Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati, Democrazia afascista, Feltrinelli, (marzo) 2024[1]. Si tratta di testi notevolmente diversi per impostazione e per confezione, cosa di cui occorrerà tener conto (rispettivamente una prolusione, un pamphlet e un saggio più tradizionale), con oscillazioni notevoli nella qualità argomentativa e negli obiettivi politici, ma in cui si intravedono tratti comuni[2].

 

Antonio Scurati – Fascismo e populismo. Mussolini oggi

Il volume di Scurati ha il merito di esporre con chiarezza il punto centrale della sua argomentazione: «questa è la mia tesi: i partiti e soprattutto i leader politici che oggi sfidano la democrazia nella forma che noi abbiamo conosciuto fino a ora, cioè la piena democrazia, la democrazia parlamentare liberale, teorizzando o praticando formule intimamente contraddittorie quali quella di “democrazia autoritaria”, siano essi italiani, spagnoli, francesi, tedeschi, brasiliani o statunitensi, non discendono dal Mussolini fascista. Essi discendono, invece, dal Mussolini populista. Vi è, infatti, una seconda tesi correlata alla prima: Mussolini non fu soltanto l’inventore del fascismo, il fondatore dei Fasci di combattimento e del partito nazionale fascista; fu anche l’ideatore di quella prassi, comunicazione e leadership politica che noi oggi chiamiamo populismo sovranista» (pp. 31-32).

L’autore parte dall’assunto, condivisibile, che le formazioni minoritarie attestate su posizioni nostalgiche e persino archeologiche rispetto al fascismo storico (quella galassia del dissenso incarnata in particolare da movimenti neofascisti e persino neonazisti che negli Stati Uniti assume il titolo di lunatic fringe) non rappresentino in realtà minacce concrete all’ordine liberale: al contrario, è nei processi di massa, nelle attuali tendenze politiche di fondo che si possono scorgere i germi (se non di eversione) perlomeno di deformazione in senso illiberale delle strutture democratiche affermatesi e sviluppatesi a partire dal secondo dopoguerra. Scurati identifica tale pericolo nei movimenti che si riconoscono nel populismo sovranista. Si tratta di un arco politico sfrangiato in cui persiste tuttavia una grammatica comune: da FdI, al Rassemblement National, a Vox, al PiS polacco, al Fidesz ungherese, al PSL di Bolsonaro, al Partito Repubblicano a guida trumpiana. In Italia l’affermazione di tali movimenti (maggioritari) sarebbe stata favorita dal processo di disgregazione dell’antifascismo novecentesco: è dunque lo smottamento di quella cultura ad aver preparato il terreno all’egemonia sovranista[3]. Il nesso che Scurati scorge tra il populismo mussoliniano (del primissimo fascismo) e l’attuale populismo sovranista ricade tutto all’interno di una specifica accezione del potere: attiene primariamente alle pratiche e tecniche di costruzione dell’egemonia; è, cioè, relativo alle strategie del consenso.

La dimostrazione di una contiguità tra populismo e fascismo è articolata su base morfologica, ovvero sull’individuazione di tratti discreti, comuni a entrambe le esperienze[4]. L’autore ne deduce sette caratteristiche: 1) personalizzazione autoritaria, che consta nella formula, reversibile, dell’«io sono il popolo»; 2) polemica antiparlamentare; 3) pratica del «guidare seguendo», per cui il chi governa non direziona le masse secondo una qualche sorta di progettualità politica ma ne sfrutta strategicamente gli umori al solo scopo di conquistare il potere; 4) affermazione di una «politica della paura»: la costruzione del consenso passa attraverso la messa in forma di un nemico contro il quale compattare il corpo politico; 5) trasformazione della paura in odio; 6) semplificazione della «vita moderna» in categorie oppositive e polarizzanti, che consentono di radicalizzare il consenso; 7) infine, la pratica di «comunicare col corpo al corpo», che consiste nel rifiuto di esibire argomentazioni razionali a favore di tecniche demagogiche.

Ora, al di là di una possibile accusa di genericità riscontrabile in tali tratti[5], quello di Scurati è un approccio che vanta ascendenze nobili. È una pratica discorsiva impiegata, tra gli altri, da Theodor Wiesengrund Adorno. In una nota conferenza tenuta presso l’Università di Vienna il 6 aprile del 1967[6] il filosofo tedesco impiega un approccio socio-antropologico (non privo di una certa dose di psicologismo) con cui sonda la grammatica dei movimenti di estrema destra in Germania. Ne deduce una serie di caratteristiche in parte sovrapponibili a quelle di Scurati: 1) il culto della personalità autoritaria; 2) l’anti-intellettualismo e il senso della catastrofe come forma di semplificazione della narrazione politica; 3) la grande capacità propagandistica legata al nichilismo del potere; 4) l’uso della rabbia in funzione di costruzione del nemico; 5) il recupero del gergo dell’autenticità per attuare una comunicazione prerazionale basata sul rifiuto dell’argomentazione. L’analisi di Adorno, animata dall’urgenza storica di comprendere il fenomeno NPD (fondato solo tre anni prima), impiegava un approccio pioneristico per l’epoca, in grado di legare assieme l’indagine sociologica con un armamentario concettuale desunto dalla psicologia (mistura già sperimentata durante la ricerca che avrebbe condotto alla pubblicazione, nel 1950, de La personalità autoritaria). Di formazione eminentemente marxista, Adorno tuttavia sapeva che lo studio dei fenomeni politici non poteva e non doveva ridursi allo psicologismo. Nella sua prolusione avanza più volte forme di excusatio, affrettandosi in diversi luoghi a correggere il tiro: «Ribadisco che sono consapevole che il radicalismo di destra non sia un problema psicologico o sociologico, ma altamente reale e politico» (p. 21); «dio solo sa quanto io non consideri queste questioni come primariamente di natura psicologica» (p. 7), e così via. La riduzione a quest’unico versante dell’analisi si traduce invece in un rischio reale in Scurati, che conduce non solo ad una misinterpretazione di dinamiche politiche di medio o addirittura di lungo periodo, ma persino di disconoscerne la rilevanza. Il rischio, cioè, è quello di passivizzare le funzioni del corpo sociale, ridotto a materia grezza da manipolare attraverso tecniche di formazione del consenso.

L’evaporazione delle forze sociali e in generale la semplificazione di processi storici di enorme portata (come l’affermazione dei totalitarismi novecenteschi) può essere documentata anche per altra via. Se è vero, come sostiene Scurati, che il tempo trova senso solo nella messa in forma del racconto (p. 13), e «per i popoli l’unica storia che conti è quella tramandata come saga, come epos» (p. 15), in Fascismo e populismo troviamo l’abbassamento dell’epica a fiaba. Nel corso dell’argomentazione riemerge in diversi punti l’uso di un modulo narrativo standard di schietta derivazione fiabesca[7]. L’autore lo impiega lungo l’intero primo capitolo del volume, fino a giungere a questa conclusione: «Mussolini […] stuprò l’Italia con gli Arditi divenuti squadristi, ma non si limitò a stuprarla, la sedusse anche». Il colpo d’occhio è suggestivo. Ad una banale analisi strutturale la storia dell’affermazione del fascismo si trasforma nella vicenda del protagonista negativo (Mussolini) che grazie al sostegno dell’aiutante dell’antagonista (gli Arditi) riesce nell’intento di concupire la principessa (l’Italia).

Anche in questo caso, tuttavia, non siamo di fronte ad un plot originale. Una vicenda molto simile si dispiega in una pièce teatrale confezionata da Leo Ferrero nel 1929. Si tratta di un testo che, grazie alla sua capillare diffusione postuma presso i circuiti dell’antifascismo internazionale (circuiti per lo più attestati su posizioni liberali e socialiste) avrà una eco enorme e influenzerà in parte l’immagine del regime presso ampi settori di pubblico estero. Nel dramma dal titolo Angelica (in cui si mescolano tradizione cavalleresca e commedia dell’arte) un Mussolini demagogo riuscirà nell’intento di violentare e di sedurre al contempo la protagonista Angelica, controfigura allegorica dell’Italia. Ma da dove deriva tale plot e, soprattutto, l’immagine di un demagogo violento e seduttore? Ha radici più antiche: una fonte decisiva impiegata da Ferrero nell’imbastitura del suo testo è il celebre pamphlet Dialogue aux Enfers entre Machiavel et Montesquieu redatto da Maurice Joly nel 1864, feroce satira del governo di Napoleone III. Al di là di un curioso dettaglio filologico[8],ciò che è più rilevante constatare è che sia Scurati quanto Ferrero impiegano categorie storiche legate ad un generico anticesarismo (o antibonapartismo) per descrivere un fenomeno totalmente nuovo come il fascismo: il che corre il rischio di ridurre a puro psicologismo (la rilevanza della figura di Mussolini) o al più a coacervo nichilistico di tecniche di potere (la costruzione di un sistema di connivenze e di scambio di favori in grado di tenere avvinta la classe dirigente di un Paese) l’oggettivo dispiegarsi di processi reali e di forze sociali[9]. La tradizione antifascista cui Scurati si richiama non è quella dell’«antifascismo novecentesco» tout court (tradizione più problematica di quanto tale etichetta sintetica voglia far credere): è, semmai, uno specifico tipo di antifascismo, certamente influenzato dalla tradizione liberale italiana, che aveva percepito nel fascismo (soprattutto ai suoi esordi), una variante innocua – perché sperabilmente momentanea – di autoritarismo paternalistico[10].

Scurati fonda la propria definizione del movimento di Benito Mussolini sui due corni della violenza («alfa e omega del fascismo», p. 41) e della seduzione (p. 42). Tuttavia, negli stessi anni in cui Ferrero componeva la sua pièce, altri intellettuali italiani stendevano congiuntamente una delle interpretazioni più originali di quanto andava accadendo in Italia nei primi anni Venti. In particolare, la riflessione che condussero Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti sul fascismo mantiene (oggi come allora) un grado di profondità e di ricchezza inusitata non solo in seno al mondo del comunismo internazionale ma più in generale nell’analisi politologica del fenomeno. Entrambi vanno affinando una riflessione (spesso unitaria, pur con accenti diversi) che esordisce compiutamente nell’ottobre del 1922 (proprio alla vigilia della marcia su Roma). Da tale analisi si deduce che il fascismo è anzitutto il volto postremo di una crisi in cui lo Stato e la società italiana sono precipitati a partire dal processo di unificazione nazionale. Le evidenti incapacità della borghesia di farsi carico delle promesse di modernizzazione capitalistica avevano candidato la classe operaia (assieme al bracciantato meridionale) ad un compito di supplenza: tale ruolo aveva radicalizzato la crisi interna al Paese. L’incapacità del blocco proletario (e soprattutto della sua dirigenza politica) di conquistare lo Stato (a causa della moderazione delle Leghe contadine e a seguito della sconfitta della stagione di occupazione delle fabbriche) spinse le forze conservatrici alla reazione: in particolare le classi industriali e gli agrari esasperati dall’incapacità di ristrutturare le proprie attività con la fine dell’economia di guerra. Il fascismo (che ha una base sociale composita: Togliatti rifiuta l’idea del pastone generalizzato della “piccola borghesia”) è dunque il prodotto di specifiche condizioni interne (crisi istituzionale, combattività della classe operaia organizzata, squilibri di sviluppo tra le aree del Paese, insufficienza del capitalismo nostrano) ed estere[11]; è preparato da processi di lungo come di breve periodo (la crisi dello Stato liberale, con l’ingresso delle masse sulla scena politica); la sua affermazione si deve anche al sostegno (finanziario, organizzativo e di compiacenza giudiziaria) degli apparati dello “Stato giolittiano” (che, peraltro, facevano già abbondante uso della violenza a scopi di intimidazione politica)[12].

La validità di queste analisi non è qui in discussione: possono essere del tutto false da un punto di vista della ricerca storica. Tuttavia, la dimensione direi poderosa dello strumentario concettuale mobilitato da una coppia di politici-intellettuali appena trentenni (Togliatti è del 1893, Gramsci del 1891) nello sforzo di comprensione del fenomeno fascista lascia un certo senso di vertigine se comparata a quella offerta da Scurati, per il quale il fascismo si riduce a tecniche nichilistiche di conquista del potere. La domanda allora è: come siamo arrivati a tutto questo? Il sospetto è naturalmente che tali limiti siano il sintomo di una questione molto più generale, che riguarda gli strumenti analitici che siamo soliti impiegare nell’indagine storica, nonché le cornici narrative all’interno delle quali collochiamo i fenomeni. L’abuso dell’aneddoto, sfruttato spesso impropriamente per descrivere il generale attraverso il particolare (si vedano le pp. 32, 43 e 50); l’uso di un metodo (quello morfologico) di schietta derivazione naturalistica che tende a isolare il dettaglio dall’insieme, infine la semplificazione delle narrazioni hanno posto un problema concreto che la ricerca storica più avvertita formula in questi termini: la capacità di catturare il dettaglio rende sempre più sfocata e sempre meno praticata la grande narrazione di sintesi[13]. Anche l’abuso di un approccio “mediale” (psico-sociologico) alla politica, con il rischio connesso di trasformarla in pura tecnica nichilistica, può essere letta come la spia di un’incapacità degli intellettuali di nominare e di appellarsi a soggetti politici e sociali concreti e di assumerne il punto di vista (quasi vi fosse il timore di rompere così l’uniformità e la stabilità del corpo sociale).

Ora, gli elementi in parte banalizzanti che abbiamo individuato in Scurati (morfologia e formalizzazione narrativa) che siano il frutto di scelte consapevoli o una spia di processi più ampi, trovano in parte una sorta di pezza d’appoggio nella forma della sua scrittura. Mi sia concessa una deviazione solo apparentemente oziosa. Ammesso (e non concesso) che lo stile sia il corrispettivo di un nocciolo profondo (una tesi che fu di Fubini e Spitzer, un poco di Contini, ma niente affatto comprovata da ricerche scientifiche serie), la scrittura del saggio di Scurati assume una perentorietà schiettamente demagogica. Ciò che manca in termini di persuasione argomentativa viene recuperato sul piano della retorica. In esso si trova un fraseggiare breve e fintamente paratattico, continuamente legato per mezzo di ripetizioni, anafore e anadiplosi: «Ecco la promessa della Storia, la promessa che promette se stessa: il futuro ci attende, il futuro di appartiene. Il futuro è uno di noi. Ecco l’impegno della Storia: la storia non è mai scritta una volta e per tutte, la storia è sempre lotta per la storia. La storia siamo noi». (p. 14). Oppure da una cascata incontenibile di congiunzioni fintamente coordinanti o argomentative, il cui unico scopo è tenere avvinto il lettore al flusso del discorso senza lasciare spazio al pensiero e all’interlocuzione critica: «Avere una storia non significa necessariamente avere un destino, nel senso che quel passato decide irreparabilmente del tuo futuro: eppure esso è qualcosa di incancellabile» (p. 17). È il contraltare linguistico dell’impiego wagneriano di microcellule melodiche (il Leitmotiv) incasellate senza soluzione di continuità nella vasta campata della unendliche Melodie, o l’imperiosa conduzione orchestrale delle sue opere, che ancora una volta per Adorno paventava, nientemeno, l’emergere di una personalità autoritaria. Desta meraviglia poi (anche per un testo volutamente oratorio) il profluvio di formulazioni paralogiche, con l’abuso di vere e proprie tautologie o di figure di parole con correctio che si accompagnano a epifonemi del tutto incongrui o banali: «Appassionanti perché sono tutte appassionate, che ci coinvolgono perché sono tutte coinvolte, che ci commuovono perché sono tutte commosse» (p. 16). Si tratta, ovviamente, di un gioco facile che potrebbe agilmente sfociare nella grafologia deteriore: tuttavia, unitamente agli altri segnali di venuta meno della capacità analitica, costituisce il sintomo di un problema intellettuale inaggirabile.

 

Luciano Canfora – Il fascismo non è mai morto

Il fascismo non è mai morto è l’agile pamphlet di Luciano Canfora. Sebbene sia costruito, per stile, impianto storico e conclusioni, su basi completamente differenti da quelle di Scurati, condivide con quest’ultimo insospettabili affinità. Per definire cosa intenda per ritorno del fascismo, Canfora procede ad una minuziosa sottocategorizzazione del fenomeno. Se insomma la comparazione di Scurati si pone tra il fascismo degli albori (1919-1922) e il populismo sovranista, in Canfora lo spacchettamento è ben più ardito: si parla di fascismo “socializzante” del 1919; del fascismo controrivoluzionario del biennio 1921-1922; del fascismo impositivo del 1922-1926; del fascismo totalitario del 1926-1943; del fascismo del 1943-1945 dell’RSI, cui seguì la costola dell’MSI. Da ciò segue logicamente che, se la sua unificazione come fenomeno omogeneo avvenne sulla spinta di esigenze ideologiche contingenti (la necessità di rigettarlo in toto nel dopoguerra), tutte le forme politiche che si accostino per tratti comuni ad una sola di queste sottocategorizzazioni andranno intese come fascismo tout court (posizione 208). Non ci si può nascondere tuttavia che contravvenire alla buona norma che sconsiglia ipertrofia per moltiplicazione (entia non sunt multiplicanda sine necessitate) accresce senz’altro le probabilità di vederci giusto. Ecco allora che il fascismo impositivo del 1922-1926 (che pratica un notevole rafforzamento dell’esecutivo e intimidazione delle opposizioni) è sovrapponibile a quanto avviene oggi con il governo guidato da Giorgia Meloni (posizione 190). Questa è la conclusione di metodo cui giunge Canfora: «A rigore basta un piccolo sforzo mentale per capire. Se si può legittimamente parlare di “mafia nigeriana” o “cecena” o “marsigliese”, ecc., ben sapendo che la mafia in quanto sorta e sviluppatasi in Sicilia ha peculiarità sue proprie storicamente datate, e scaturite da un determinato ambiente, altrettanto legittimo, e soprattutto utile sul piano cognitivo, è parlare di “fascismo spagnolo” o “baltico”, ecc. in riferimento ad aree diverse dell’Italia (sic) e ad epoche successive al 1922-45. Lo stesso dicasi per categorie interpretative quali “giacobinismo”, “riformismo”, “massimalismo”, “cesarismo”, ecc. Orsù, coraggio».

Al di là di alcune reticenze (perché sarebbe «utile sul piano cognitivo»?), vi è una serie non insignificante di punti oscuri. A giustificazione della sua tesi, Canfora propone anzitutto una disamina del fascismo come fenomeno globale: Salazar, Franco, Pétain, Perón. Successivamente ne indaga le continuità politico-istituzionali in diverse formazioni e movimenti sorti nel dopoguerra. Infine, rivanga una pubblicistica (oramai abbastanza nota) che riporta la fiducia internazionale (soprattutto in quella che potremmo chiamare anglosfera) di cui godettero il governo Mussolini, i suoi omologhi (Franco) e le loro propaggini postreme all’interno di una lotta politica che vedeva le forze anglo-americane impegnate nel contenimento dell’URSS e del contagio comunista. Da tale argomentazione Canfora trae una conseguenza diretta. Il pericolo di un ritorno del fascismo è tutt’oggi vivo perché sussistono due condizioni: 1) perché vi è personale di Stato o di partito che discende dalle formazioni del fascismo storico; 2) perché potenze straniere (Stati Uniti e Gran Bretagna) sulla base di legittime quanto ambigue considerazioni di ordine interno possono decidere di promuovere operazioni di rovesciamento di governi democratici apertamente “ostili” o più semplicemente non funzionali ai loro interessi installando regimi – affidabili per definizione – di destra. Non bisogna tuttavia nascondersi che ragionare in termini di mera ingegneria istituzionale rischia di incorrere in assurdità. Ad esempio, si potrebbe legittimamente ritenere che poiché in Francia si è data la monarchia e vi sono tutt’ora discendenti legittimi della casa Borbone-Orléans e poiché ancora vi sono forze nel mondo che potrebbero ritenere proficuo installare nel suddetto Paese (per ragioni di profittabilità politica e economica) un governo monarchico, allora si dà la possibilità che la Francia ripristini la Lex Salica. Per quanto spinto al suo eccesso parodico non si tratta di un controesempio peregrino, tutt’altro: è la parafrasi di una nota provocazione avanzata in tempi non sospetti (siamo nel 1975) da Pier Paolo Pasolini[14].

Anche in Canfora il popolo (inteso come movimenti di massa e come evoluzione delle lotte sociali) evapora. Le metamorfosi del quadro storico, dei contesti nazionali, della lotta sociale, del conflitto tra capitale e lavoro vengono sepolte da una colata di interviste, dichiarazioni, epiteti, documenti riservati, rapporti tra cancellerie, fino ad articoli di giornale e alla pura aneddotica. Come in Scurati, si assiste qui a una bizzarra torsione per cui l’Historia rerum gestarum si riduce a pura Res gestae. Come in Scurati, pare qui che i processi politici prendano forma nel vuoto pneumatico. Sembra in definitiva che gli intellettuali italiani facciano una certa fatica a ragionare in termini dinamici, a tenere assieme l’evoluzione multifattoriale degli scenari politico-sociali. Segnatamente, in Il fascismo non è mai morto questi ultimi risultano ridotti a giochi di cancellerie, dichiarazioni più o meno pubbliche, operazioni di apparati e scelte strategiche di classi dirigenti di partito. Tutto ciò segna un arretramento in termini di strumenti analitici e di cultura politica che solo in minima parte è riconducibile al suo autore. È forse lo spettro di una questione più ampia.

Un secondo problema di metodo è relativo all’impiego di una comparazione di fenomeni storici per tratti formali. Esso potrebbe essere risolto solo da un mereologo e può essere formulato nei termini del noto paradosso del sorite: quanti tratti peculiari possiamo sottrarre alla categoria di fascismo prima che questo si trasformi in qualcosa d’altro? In altre parole, come decidiamo di categorizzare il fascismo? Siamo davvero in grado di stilarne una definizione condivisa? Esso non è stato solo «suprematismo razzistico» (non saremmo troppo lontani dal vero nel sostenere che lo stesso intruglio ideologico ha sostenuto e legittimato l’intera stagione di colonizzazione globale da parte dei popoli cristiani nella prima modernità): come sa bene Canfora (certamente molto meglio di chi scrive), il fascismo è stato anche una risposta (non banale) all’ingresso delle masse nella politica e nelle istituzioni attraverso la loro “nazionalizzazione” (si pensi solo alle organizzazioni giovanili); è stato un modo di declinare il conflitto tra capitale e lavoro attraverso la camera di compensazione delle corporazioni, dei sindacati fascisti e persino del dopolavoro; è stato un rinnovato quadro giuridico (da Ercole, a Rocco a Betti); è stata una via (falsa e sbagliata) alla modernizzazione; ha rappresentato, infine, un modo di coartare e neutralizzare la combattività della classe operaia; è stata teoria del nemico come corpo scientemente eversivo incistato nello Stato; è nazionalismo esasperato, militarismo, culto della gerarchia, antisocialismo. A chi scrive non sembra, realisticamente, che l’attuale corpo sociale contenga in sé le condizioni per l’attuazione anche di uno solo di questi tratti: Welfare State e globalizzazione sono tuttora in grado di contenere il conflitto tra capitale e lavoro, nonostante l’attuale trend di bassa crescita dei salari e compressione della spesa pubblica; l’assenza di soggetti politici antagonistici di massa impedisce il riaccendersi dello scontro sociale dopo l’evaporazione (o dislocazione) della classe operaia (il ribellismo antistatale di pezzi del ceto medio non fa che rafforzare una dinamica cesaristica, secondo una dinamica individuata già dal Marx del 18 brumaio); l’iperindividualismo pone un argine inaggirabile ad ogni forma di nazionalizzazione delle masse; il dilagante atteggiamento post-storico delle società occidentali (interessante il calo degli arruolamenti persino negli Stati Uniti) sviluppa una resistenza a una virata militarista; la forte mobilità dei capitali, anche tenendo conto delle ultime tendenze restrittive, difficilmente potrà trasformarsi in una repentina riconfigurazione dell’attuale quadro economico e giuridico internazionale. Infine, non trova soluzione (per ora, poi chissà) l’eclissi di un concreto avversario politico capace di sviluppare un’ideologia attraente su larga scala paragonabile a quello che fu il comunismo prima del crollo sovietico (nullo l’appeal russo, scarso quello cinese o la variante tecnocratica singaporiana e taiwanese). Da questa semplice (e persino banale) carrellata sembra evidente che quelle che Gramsci chiamava “casematte” (i punti di tenuta di un ordine e di un sistema politico-sociale) resistono e che non esistano per ora presupposti oggettivi tali da ricreare le condizioni per un ritorno del fascismo “in grande stile”, fosse pure sotto spoglie modernizzate. Ciò non significa affatto che queste non possano ripresentarsi in futuro (il lavoro dello storico è diverso da quello del lettore di tarocchi), ma difficilmente una semplice continuità politico-istituzionale sarà in grado di ripristinare la complessità del fenomeno fascista.

La scelta di Canfora di definire il fascismo a partire da criteri inscrivibili nel concetto di “aria di famiglia” trova poi una ficcante critica nelle stesse riflessioni dei padri costituenti. Certo, la battaglia politica che ha da fornire parole d’ordine e orientare lo scontro è tutt’altra cosa rispetto alla formalizzazione giuridica. Tuttavia, mi sembra opportuno ripercorrere le tappe di una discussione centrale per il discorso che si va qui conducendo. Nella definizione di norme in grado di impedire la rinascita del fascismo, il legislatore si trovò di fronte ad un’impasse: come definire un fenomeno storico di tale portata? Nella seduta del 19 novembre 1946 (di cui qui di seguito riportiamo gli stringati verbali) la prima sottocommissione si riunisce per discutere il testo dell’articolo (poi XII Disposizione transitoria e finale) presentato dagli onorevoli Merlin e Mancini. In esso si propone la definizione di uno dei pilastri della vita democratica. «I cittadini hanno diritto di organizzarsi in partiti politici che si formino con metodo democratico e rispettino la dignità e la personalità umana, secondo i principî di libertà ed uguaglianza. Le norme per tale organizzazione saranno dettate con legge particolare». Sullo stesso tema Lelio Basso (PSIUP) avanza una proposta alternativa: «Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente e democraticamente in partito politico, allo scopo di concorrere alla determinazione della politica del Paese».

La discussione si orienta rapidamente su un punto: evitare formulazioni che possano, a seconda dei mutevoli orientamenti politici, mettere fuori legge un partito sulla base dei criteri organizzativi. Nel suo intervento, Marchesi paventa la possibilità che il Partito Comunista possa essere tacciato di operare, attraverso l’impiego della violenza, al sovvertimento dello Stato: nel qual caso l’articolo proposto da Merlin e Mancini potrebbe consentirne la messa al bando. Interviene a questo punto l’onorevole Togliatti, il quale «afferma che, mentre oggi si conoscono i partiti esistenti, domani potrebbe svilupparsi in Italia un movimento nuovo, anarchico, per esempio, e si domanda su quali basi lo si dovrebbe combattere. È del parere che dovrebbe essere combattuto sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee». E aggiunge che «l’articolo debba essere limitato concretamente, riferendolo a movimenti politici già esistenti. Suggerisce si dica che è proibita, in qualsiasi forma, la riorganizzazione di un partito fascista. […] Facendo questa proposta, egli si riferisce ad un fatto preciso storicamente determinato».

Ma qui sorgono legittimi dubbi giuridici. A sollevarli per primo è Giorgio La Pira, il quale si domanda «come potrebbe fare il legislatore a definire quale sia un partito fascista»; ritiene inoltre che non «si debba lasciare al legislatore, con una formula vaga, la possibilità di commettere arbitri a danno di qualsiasi partito». Qui un punto di rilievo: Togliatti «replica che la sua aggiunta non è affatto imprecisa, perché si riferisce ad un fatto e non ad un concetto. Il movimento e il partito fascista sono determinati storicamente, se ne conoscono il programma, l’attività, l’azione, i quadri; se un partito sorgesse con simili manifestazioni, sarebbe facile riconoscere in esso il partito fascista». E insiste sul punto “archeologico”: Togliatti vuole «evitare la discussione ideologica generale, perché sa che non se ne uscirebbe»; d’altronde, un materialista è consapevole che la definizione di oggetti storici è il frutto della composizione delle forze concorrenti. Ecco, allora, una formulazione tautologica: «è fascista quel movimento che prese corpo in Italia dal 1919 fino al 25 luglio 1943, e che si chiamò fascismo».

A questo punto La Pira riprende la parola e «dichiara di non essere convinto delle precisazioni dell’onorevole Togliatti, osservando che, per esempio, vi è chi crede perfino di ravvisare le sembianze del fascismo proprio nel partito comunista». Una posizione ripresa, non a torto, da Dossetti: questi ipotizza che nel futuro altri commissari «potrebbero ritenere che esso [il PCI] nel suo indirizzo riproducesse il partito fascista, e volessero sopprimerlo proprio in base alla formula proposta dall’onorevole Togliatti». La posizione dei due democristiani viene percepita come una insinuazione maliziosa da parte del segretario del PCI; tuttavia, non si può disconoscere la bontà delle loro argomentazioni. Nella replica infatti concede, contrattaccando: «le osservazioni fatte alla sua [di Togliatti] proposta sarebbero giustificate, se essa mirasse a definire il contenuto di un movimento o di un partito fascista. Contro una tale formulazione sarebbero lecite tutte le critiche, perché qualunque partito potrebbe essere ricondotto sotto la figura del partito fascista attraverso disquisizioni dialettiche». Persino «il partito democristiano, come quello liberale ed altri». Per ovviare a tale pericolo «fa presente che nella sua proposta egli si limita al richiamo storico del partito fascista quale si è manifestato nella realtà politica del Paese dal 1919 al 1943 e non è quindi possibile alcuna interpretazione equivoca». Per disambiguare la sua proposta è «disposto […] a modificare la sua formula nel senso che si parli “del” partito fascista, anziché di “un” partito fascista». Del resto «una dichiarazione riguardante l’inammissibilità del partito fascista è contenuta nell’armistizio e nelle clausole del trattato di pace che si sta elaborando nei riguardi dell’Italia e inoltre nei trattati di pace che sono stati già formulati per altri Paesi».

Nella definizione giuridica (ribadiamo: la lotta politica è altra cosa) i costituenti preferirono circoscrivere storicamente il concetto di fascismo, per non rischiare che un’interpretazione politica della norma potesse (in modo discrezionale) estendere i propri effetti su partiti e avversari politici contingenti; un’interpretazione operata magari sui concetti laschi di “violenza” e “procedure antidemocratiche”. Già nel 1946 vi erano ampi settori dell’opinione pubblica italiana disposti a sostenere un’equivalenza tra fascismo e comunismo (ma anche tra Democrazia Cristiana e fascismo) sotto diversi rispetti di convenienza; ad esempio, sotto il cappello generico di “totalitarismo”. Lo stesso presidente della sottocommissione, nel suo intervento «dichiara che preferirebbe una formula la quale esprimesse in modo inequivocabile il concetto che è proibita, sotto qualsiasi forma, l’organizzazione di un movimento o di un partito fascista o totalitario».

Il dibattito qui riassunto sui verbali dell’epoca è importante perché segnala lo sforzo dei costituenti di inserire nella carta fondamentale (al di là dello spirito generale) un concreto richiamo all’antifascismo. Il sottotesto di Togliatti è ben compreso da Basso che spinge per l’inserimento della proposizione proprio per marcare una discontinuità anche simbolica in un momento in cui, al contrario, le classi dirigenti spingevano per una ricucitura istituzionale e giuridica dello Stato. Si ricordi d’altro canto che il controverso “Decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari” (passato alla storia come amnistia Togliatti, allora Ministro della Giustizia) fu promulgato solo pochi mesi prima: il 22 giugno 1946. Era dunque intenzione di Togliatti di inserire (con un suo corposo contributo) una norma grazie alla quale «il popolo abbia la sensazione che la Repubblica segna una data nuova nella storia d’Italia» (parole di Basso). La XII disposizione transitoria marca allora la nascita dell’antifascismo come religione civile dell’Italia repubblicana. Essa sorge da un lato come segnale simbolico di discontinuità rispetto al passato regime (quando nella pratica continuità permanevano), dall’altro come forma di compromesso rispetto ad una definizione di fascismo che era già preda di una profonda lotta per le interpretazioni e che già assumeva i profili generici (giusti, ma sempre più contendibili) che avrebbero poi orientato il dibattito successivo: democrazia, violenza, totalitarismo. Da qui la scelta tautologica di circoscrivere il fenomeno fascista a «quel movimento che prese vita in Italia tra il 1919 e il 1943 e che si chiamò fascismo»[15].

 

Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati – Democrazia afascista

Diverso, per spessore e per equilibrio argomentativo, Democrazia afascista di Pedullà-Urbinati. Esito di un lavoro a quattro mani (una scienziata politica e un italianista e storico della cultura), fa convergere in un testo agile puntualità teorica e profondità storica. È in parte il frutto di un approccio doppio che si coglie bene nell’alternarsi dei capitoli, in parte di una precisa scelta retorica. La tesi del volume è enucleabile come segue: l’antifascismo, come cultura politica che trovò il suo lievito nella lotta e nell’opposizione al nazifascismo, «ha aggiunto alla concezione e alla pratica della democrazia alcune precise sfumature che altrimenti le sarebbero mancate» (p. 139). In altre parole, la specificità della nostra Carta costituzionale deriva, anche, da una peculiare forma di reazione alla dittatura fascista elaborata dalle forze che la stilarono. La democrazia antifascista che ne consegue si fonda su quattro assi: 1) interviene attivamente nel promuovere l’eguaglianza delle persone secondo un principio concretamente “antimaggioritarista” (p. 30); 2) stimola una cittadinanza attiva e non si limita a essere un sistema procedurale avaloriale (come dimostrano gli articoli contenuti nella prima parte del testo costituzionale); 3) afferma la centralità dei partiti; 4) incoraggia il dissenso attraverso un pluralismo conflittuale (ma disciplinato).

Tale tessitura positiva manifesta la sua dimensione militante nell’individuazione, al suo interno, di un alter da escludere: il nazifascismo, che costituisce «l’abuso massimo contro l’autogoverno e il rispetto della persona umana» (p. 18)[16]. L’affermazione convinta della doppia natura dell’antifascismo costituzionale (assieme positivo, perché produttore di cultura e valori specifici, e negativo perché si fa promotore dell’esclusione militante del suo alter, il nazifascismo) si pone in parte come risposta polemica a una tendenza retorica operata dalle forze politiche attualmente al governo e in particolare dal suo partito di maggioranza relativa. Esso conduce una campagna egemonica di appiattimento della cultura antifascista al suo contenuto puramente negativo ed escludente. L’antifascismo verrebbe a coincidere tout court con il comunismo (o, meglio, con una generica cultura di sinistra). Una volta caduto questo ed evaporato il suo nemico storico (il fascismo), l’antifascismo non avrebbe più ragione d’essere. Al contrario, si trasformerebbe in una pericolosa mozione retorica per emarginare una parte politica a scopi puramente competitivi. Si tratta, come spiegano gli autori, di un’argomentazione che trova il suo fondamento storico nella pubblicistica e nei dibattiti revisionisti dell’immediato dopoguerra (e si affermerà definitivamente negli anni Settanta). L’esito implicito, il punto del contendere reale, è tuttavia il disconoscimento della dimensione positiva e produttiva di una specifica cultura politica che si espresse (e tutt’ora si esprime) nel dettato costituzionale.

È il mancato riconoscimento di tale specificità (che sa farsi vera e propria campagna egemonica) a gettare le basi retorico-argomentative per l’affermazione di una visione politica – che si propone come conciliatrice – che gli autori del volume definiscono “afascista”. Qui mi sembra riposi il punto di equilibrio dell’intera architettura del volume: non vi è la minaccia di ritorno del fascismo storico, FdI non è il PNF; il punto è, più realisticamente, un altro: indebolire in modo sistematico l’antifascismo come cultura politica “positiva” (ricca cioè di contenuti propri e non semplicemente reattivi) nel nome di un irenismo aideologico e patriottico apre le porte alla legittimazione di una curvatura degli assetti democratici di tipo regressivo. Del pari, gli autori sono consapevoli che tale curvatura non sia l’esito di un restyling prodotto nel corso dei primi anni della XIX legislatura: qui se ne dà, semmai, vidimazione ideologica: «la democrazia afascista – una forma di autocrazia elettiva – è un fenomeno recente e in qualche modo inedito, anche se la sua avanzata è cominciata parecchio tempo fa e i primi segnali di una revisione del gioco democratico nei Paesi occidentali possono essere fatti risalire addirittura alla metà degli anni settanta del secolo scorso» (p. 11). Si tratta dunque di un fenomeno sovranazionale che non riguarda solo l’Italia (p. 12).

La democrazia afascista si fonda sui concetti di funzionalità di sistema e di governabilità (p. 13) e rappresenta un modello di “istituzione minima” essendo «solo preoccupata dell’applicazione e del buon funzionamento delle regole del gioco». Assecondando l’approccio morfologico, gli autori rilevano quattro aspetti caratteristici. Essa è 1) avaloriale: si concentra cioè solo sul momento decidente e sulla architettura istituzionale che permette, attraverso il momento elettorale, di disciplinare il gioco tra le élites e di incoronare maggioranze, mentre rifiuta il compito (espressamente assunto nella nostra costituzione) di indirizzo (ad esempio operare attivamente per rendere i suoi cittadini concretamente e non solo formalmente uguali); 2) è ipermaggioritaria: attraverso la promulgazione di leggi elettorali ad hoc non vuole che il potere venga percepito come limitato, sempre a rischio e contendibile dalle minoranze; 3) è notabilare: la nascita del partito personale e la fine delle strutture novecentesche permette l’emersione di un nuovo ceto politico inamovibile che non risponde a crismi ideologici o di merito; 4) è, infine, aconflittuale: se la stagione della politica moderna si inaugura sotto il segno di Machiavelli e della conflittualità regolata, la democrazia afascista rifiuta il momento dibattimentale per promuovere un nuovo decisionismo manageriale.

Con serietà analitica, gli autori riconoscono che l’affermazione di tale declinazione democratica non possa essere ricondotta alla sola volontà politica di FdI. È, al contrario, l’esito di un processo (ancora in corso) di progressivo distacco da un esperimento politico che ha avuto luogo in Europa (più o meno) tra il 1945 e il 1975. Non che non siano mancate anche a partire dagli anni Trenta famiglie politiche che, distanti dalle formulazioni ideologiche del fascismo storico, abbiano puntato sugli obiettivi della stabilità interna, della governabilità e della efficienza. Si pensi ad esempio ai fenomeni di managerializzazione e ingegnerizzazione della politica riscontrabili durante la Grande depressione e la presidenza Roosevelt (nel cui alveo prese forma per la prima volta il concetto di “tecnocrazia”)[17], o alla gestazione (sempre a partire dagli anni Trenta) di quel coacervo di dottrine che sarebbe sfociato nella formulazione dell’ordoliberalismo (nerbo ideologico della Repubblica Federale Tedesca) fondato sui due corni del disciplinamento (ope legis) dei mercati e di uno Stato autonomo rispetto al condizionamento delle forze sociali[18]. Anche per questo risulta meno enfatico, ma forse più attendibile, l’analogia tra il posizionamento ideologico di FdI e le vecchie forze liberali prefasciste: «la svolta di Meloni […] con il suo afascismo idealmente non si riallaccia al regime mussoliniano, ma ammicca semmai a un liberalismo inegualitario e gerarchico – un liberalismo molto diffuso in Italia e che negli anni venti non ebbe problemi a fare appello alla violenza dei reduci di guerra prima di essere anch’esso rovesciato» (p. 75). In fondo, la riforma costituzionale con cui De Gaulle inaugurò la Quinta Repubblica nel 1958 (approvata ad amplissima maggioranza da un referendum popolare) deformava in senso iperpresidenzialista (o iper-semipresidenzialista!) l’assetto parlamentare di una Quarta Repubblica nata proprio sulle ceneri di Vichy, senza che questo, per altro, agisse a discapito della conflittualità sociale.

I processi di lungo periodo, opportunamente sottolineati da Pedullà e Urbinati, che hanno preparato un terreno su cui ha poi avuto gioco facile l’affermazione della democrazia afascista, sono ben noti. Potremmo elencarli con etichette sintetiche (sebbene rovinosamente generiche): lo svuotamento sostanziale del prestigio e delle funzioni del parlamento (con il ricorso sempre più frequente alla decretazione d’urgenza combinato al voto di fiducia e alla supplenza delle corti “legiferanti”); la crisi inusitata in cui versano i corpi intermedi come centri di indirizzo e sintesi delle istanze sociali, con sindacati e partiti ridotti a cartelli elettorali; la disaffezione diffusa alla vita democratica e l’evaporazione di soggetti conflittuali; la tecnicizzazione e burocratizzazione delle procedure politiche; il ritorno dello Stato forte che rivendica autonomia dalla sfera pubblica (si pensi solo alla gestione della pandemia e delle sfide internazionali). Se in alcuni di questi processi l’Italia ha svolto addirittura un ruolo pionieristico (destrutturazione dei corpi intermedi, collasso ideologico e partiti ridotti a cartelli elettorali o a catalizzatori di consenso plebiscitario), in altri non ha potuto che accettare passivamente una deriva internazionale oggettiva. Carlo Galli, in un prezioso volumetto pubblicato di recente, converge significativamente nelle analisi con il quadro proposto da Pedullà e Urbinati, definendo l’approdo inevitabile di tali processi combinati con la formula di “democrazia liberista”[19]: essa costituirebbe, secondo uno schema di sintesi hegeliano, la cifra del nostro tempo, contro cui poco possono le singole forze politiche.

L’approccio di Pedullà-Urbinati è lucidamente descrittivo più che performativo: se da un lato vi è infatti una proposta politica (direi di strategia politica) che cerca di promuovere una nuova narrazione egemonica da contrapporre alla deriva corrente (il richiamo allo spirito dell’antifascismo capace di produrre uno specifico assetto istituzionale e un’idea connotata di democrazia), dall’altro gli autori si interrogano su quale effetto concreto possa avere appellarsi alla carta costituzionale come a un katéchon, una forza in grado di trattenere il male, proprio mentre si constata che l’avanzata di tali processi ha preso campo all’ombra della sua lettera. Insomma, richiamarsi alla Carta nei termini tomisti del “bonum diffusivum sui” non funziona. Per affermare il “bene” servono volontà, soggetti operativi, organizzazione, proiezione egemonica, condizioni interne ed internazionali favorevoli.

Nella seduta del 10 settembre 1946 prese forma un confronto di enorme interesse nella prima sottocommissione. Si discuteva della necessità o meno di inserire nel dettato costituzionale (e non ad esempio, come pure fu proposto, in un preambolo ad hoc) principi “programmatici” di ordine generale riguardanti i diritti della persona e degli «enti sociali – compresi quelli economici» (secondo la volontà di La Pira, che si riferiva, nientemeno, alla Costituzione Sovietica), trasformando così «la prima parte della costituzione in una nuova “carta dei diritti dell’uomo”»[20]. Nella riunione della commissione plenaria del 25 ottobre 1946 «sulle direttive di massima per la redazione del progetto di costituzione» intervenne, tra gli altri, Pietro Calamandrei: questi riteneva che nella prima parte del testo si formulassero «più “desideri” e “programmi politici” che norme». Il punto, secondo il giurista fiorentino, era che ci si illudesse di individuare nel testo costituzionale «uno strumento adatto per facilitare, regolare e indirizzare una rivoluzione da compiere» e che in fondo quelle norme fossero prive del principio di “azionabilità” (non si poteva appellare un giudice per chiederne il rispetto)[21]. In risposta a queste critiche serrate si compone un fronte compatto che va da Togliatti a Fanfani a Dossetti. Questi ribadiscono la necessità di inserire tali diritti nel corpo del testo ricusandone la dislocazione in preamboli. Fanfani ad esempio «era d’accordo con Togliatti che “la costituzione è fissazione di aspirazioni e di volontà della maggioranza di un popolo […] e non si può relegare l’espressione di questa volontà in un preambolo”»[22]. Dossetti rincara: «la norma non era misurabile nella sua giuridicità […] ma a partire dal suo “contenuto di volontà”, cioè dal fatto che ponesse un’obbligazione a carico di qualcuno»[23]. I tre costituenti pongono un’enfasi su due aspetti di una questione intrecciata: da un lato il legislatore che è obbligato dalla lettera; dall’altro essi intravvedono chiaramente, dietro la norma, lo spirito di una volontà operante, capace di incalzare il legislatore. In fondo le posizioni di Calamandrei e Togliatti-Dossetti-Fanfani non erano poi così distanti: tutti, implicitamente, facevano capo a una forza reale che inchioda il legislatore ad attuare la norma costituzionale.

Il riconoscimento di una distanza politica enorme da quella stagione sembra, a parere di chi scrive, venga vissuto con maggiore disagio e maggiore consapevolezza da Pedullà-Urbinati rispetto a Scurati e a Canfora. Democrazia afascista rappresenta in fondo un tentativo intelligente di promuovere una campagna egemonica con quegli unici mezzi che l’attuale scenario politico consente, in assenza di soggetti, ideologie e condizioni oggettive.

 

Conclusioni

Se l’approdo alla democrazia afascista è l’esito di un processo storico lungo, il suo sdoganamento retorico è invece più recente e fa capo all’attuale maggioranza. Ma come si è arrivati a tutto questo? Pedullà-Urbinati sul punto sono chiari: «i propugnatori dell’afascismo sembrano dunque imporsi più grazie ai demeriti (e ai tradimenti) dei paladini del vecchio ordine antifascista che per le proprie virtù» (p. 146). In effetti l’attuale identificazione dell’antifascismo con una pratica retorica cinica ed escludente è parzialmente anche il frutto di un colpevole svuotamento semantico. Tale svuotamento ha una sua base storica.

Come tutte le etichette politiche, l’antifascismo è una parola che ha assunto una molteplicità pressoché infinita di significati: da qui la difficoltà di parlare di “antifascismo novecentesco” tout court. Per l’Unione Sovietica e i membri del Patto di Varsavia, ad esempio, l’antifascismo coincise con il prestigio derivato dal tributo di sangue pagato alla lotta al nazifascismo (una posizione retorica la cui eco risuona ancora nell’attuale narrazione russa). A seguito della fondazione del Cominform, nel 1947 si impose una versione più dogmatica e ideologica: è antifascismo (di Stato) ciò che si oppone al capitalismo borghese[24]. Nei Paesi liberali (Stati Uniti e Gran Bretagna), al contrario, l’antifascismo non assurse mai a mito fondativo o al ruolo di religione civile. In Gran Bretagna, ad esempio, esso tornò curiosamente in auge nei primi anni Sessanta in opposizione alla Repubblica Federale, quando cioè l’impetuosa crescita economica della RFT unitamente alle sue politiche di blando riarmo riaccesero i timori di un ritorno della Germania forte in Europa[25]. Durante la Guerra Fredda, nei Paesi non allineati il brand dell’antifascismo si diffuse rapidamente come sinonimo di antiimperialismo e anticolonialismo[26]. Vi sono infine declinazioni di antifascismo a seconda delle più diverse culture politiche: l’antifascismo liberale, socialista, comunista, anarchico e così via.

Il caso dell’antifascismo italiano è forse il più complesso. Ed è facile comprendere perché. Anzitutto non bisogna tacere il fatto che esso fu anche (e per diversi anni) redde rationem. Nella stagione caotica e conflittuale dell’immediato dopoguerra, la patente di antifascismo venne applicata come un concetto-fisarmonica da partiti, organi culturali e personalità della scena pubblica. Ogni categoria sociale poteva essere costretta ad esibire credenziali di illibatezza (comprese intere generazioni). Anche solo aver scritto di critica cinematografica per un giornale culturale apparentabile al regime (difficile trovarne di non apparentabili) poteva costituire una pregiudiziale di esclusione. Ne pagò lo scotto persino una figura come Aldo Moro, che si vide contestare il diritto di parola sul palco del congresso dei comitati provinciali della DC a Bari nel gennaio 1944 o un antifascista come Luigi Preti di cui si denunciò la partecipazione ai Littoriali al grido di “GUF” e “Mistica fascista”[27]. La delazione anonima sulle pagine dei giornali era all’ordine del giorno (ne seppe qualcosa nel 1951 anche Leonardo Sciascia). Si tratta di un antifascismo per certi aspetti anche legittimo (si pensi solo a tutta quell’area dell’intellettualità dissidente che scelse la via del silenzio quando non dell’esilio durante il regime e che ne aveva ora ben donde di trovare un posto al sole nella neonata Repubblica), ma che ebbe aspetti deleteri: escludente anche a fini opportunistici e competitivi.

Se l’antifascismo nei suoi aspetti indisciplinati e popolari poteva sfociare in comportamenti inopportuni, ai piani alti della dirigenza politica (ma spesso anche della militanza) si sviluppavano sinergie al rialzo. Anzitutto, come noto, l’antifascismo ebbe in Italia – uno dei Paesi responsabili della tragedia della Seconda guerra mondiale – anche il compito di porre una netta e convinta distanza tra il nuovo e il passato regime per riabilitarsi al proprio interno e soprattutto all’estero. La compagine antifascista della Costituente segnò uno di questi momenti. Tutte le forze che concorsero alla stesura della Carta condividevano non solo certezze rispetto al passato (rifiuto del regime fascista unitamente allo Stato monoclasse liberale) ma anche notevoli convergenze sulle linee politiche di fondo da proiettare verso il futuro. Stupisce ancora adesso sentire La Pira citare la Costituzione dell’Unione Sovietica sui diritti degli enti sociali e economici da affiancare a quelli della persona, o Fanfani proporre sulla scorta di nuove «teorie sociali» la partecipazione degli operai ai consigli d’amministrazione e al godimento degli utili aziendali[28]. Si tratta di una comunione che se da un lato sortiva dall’impegno contro il regime, dall’altro si fondava su profonde convergenze ideologiche: una particolare declinazione del cattolicesimo sociale certo, ma anche (forse soprattutto) una generosa dose di marxismo (cui d’altronde sia La Pira che Fanfani alludono). La stessa formulazione di un’avanzata “democrazia progressiva” promossa da Togliatti si inseriva nell’alveo di questa unione[29]. Si potrebbe allora proporre persino una distinzione tra l’antifascismo costituzionale (quel compromesso inscritto nella lettera del testo) e l’antifascismo costituente (una cultura politica avanzata e diffusa, cui guardiamo oggi con un misto di ammirazione e straniamento in parte coincidente con il nenniano “vento del Nord”). Peraltro, è d’uopo non mitizzare la portata politica di tali convergenze: se ebbero uno “scandaloso” potere di rottura, non va neanche tacitata l’effettiva traduzione di quelle aspirazioni in attuazioni concrete: qui alcune continuità nelle procedure amministrative, nei quadri giuridici e perfino nei modelli e nei rapporti economici tra passato e presente permasero[30]. Come che sia, una tale cultura politica sarà per forza di cose spazzata via di lì a breve. L’irrigidirsi da un lato degli schieramenti a seguito di un cambio di strategia internazionale (l’incipiente Guerra Fredda), dall’altro episodi dolorosi e brutali come l’invasione dell’Ungheria del 1956 da parte delle truppe sovietiche, ruppero definitivamente tale unità programmatica. In un simile contesto, una serie di pensatori di area giellina (Chiaromonte, Venturi, Garosci) formularono una sovrapposizione tra antifascismo e anti-totalitarismo[31] – gettando così le basi per una declinazione di antifascismo che poi di fatto diventerà egemonica in Italia – fondata eminentemente sui concetti di violenza, libertà della persona, limitazione dei compiti dello Stato. Una risposta senz’altro correlata alla violenza del regime sovietico ma che ebbe come effetto (probabilmente imprevisto) un impoverimento programmatico della cultura antifascista nel Paese (una cultura che, va sottolineato, aveva sviluppato specificità tutte nazionali).

Emblema di un antifascismo depauperato fu per certi versi la sua variante memoriale (a corrente alternata), legata a puntuali stagioni politiche: il 25 Aprile del 1963, ad esempio, PSI, PCI e DC si riunirono per onorare assieme la Liberazione, sottolineando così l’avvento di una stagione di “apertura a sinistra”[32]. Al di là di una fiammata velleitaria che conferma la tendenza (il richiamo alla “resistenza tradita” presso i circuiti della sinistra violenta extraparlamentare), la memorializzazione dell’antifascismo come (contestata) religione civile[33] venne obliterata da Bettino Craxi: questi lo descrisse come puro rituale repubblicano già a partire dai tardi anni Ottanta, mentre era ora il PCI, cui si richiedevano credenziali democratiche, ad essere posto sul banco degli imputati[34]. Infine, l’allargamento dell’Europa a Paesi dell’ex Patto di Varsavia ha per forza di cose spinto ancora più a fondo l’identificazione tra antifascismo e antitotalitarismo come dimostra (per alcuni) la nota risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019, deprivando completamente il primo dei suoi tratti peculiari e programmatici, fino a farlo coincidere, di fatto, con una sorta di cappello apologetico (per quanto legittimo e persino doveroso) della democrazia liberale sic et simpliciter. Ciò lo ha di fatto reso un brand transnazionale buono per tutti i contesti e tutte le stagioni, in grado persino di coartare legittime aspirazioni sociali[35], come avvenuto ad esempio a seguito della crisi economica del 2008, quando le mancate promesse di riforma del sistema finanziario e l’abbandono dei ceti impoveriti costituirono il brodo di coltura del neopopulismo. Nella parabola storica dell’antifascismo, a farne le spese fu insomma la dimensione progressiva. In definitiva, il problema dunque non è solo predicare l’antifascismo: è anche (e forse soprattutto) costruire un consenso diffuso su quale antifascismo vogliamo predicare. D’altronde, a un secolo di distanza, non pare si abbia nemmeno a disposizione una definizione sintetica e comune di cosa sia stato il fenomeno fascista (e poi il fascismo-regime, il fascismo “repubblichino” o quello “repubblicano”?).

La disamina di questi tre volumi, per quanto difficilmente assimilabili e con meriti differenti, ha rilevato un quadro di luci e ombre. Il merito è di riuscire a porre questioni persino più ampie del loro contenuto esplicito. Attraverso di essi abbiamo rilevato una particolare curvatura della dimensione storiografica (aneddotica, approccio morfologico, semplificazione narrativa), come pure un’enfasi sulla politica come pratiche di apparati, tecniche di potere, formule giuridiche, quadri normativi e regolatori, in una sorta di “giuridificazione” della storia che si trasforma così in un tribunale cui appellarsi per la mancata o scorretta applicazione di leggi. Si è altresì registrata un’afonia quando si tratta di nominare forze sociali, ideologie, soggetti organizzati, interessi, in quella che potremmo definire come una vera e propria evaporazione del corpo sociale e della sua “proattività”. In tale contesto non deve stupire se il fronte progressista assuma come parola d’ordine il ritorno ad una Costituzione – katéchon (concetto passivo e conservativo quant’altri mai) per affermare una proposta politica avanzata (sebbene per i più avveduti – si veda qui Pedullà-Urbinati – rappresenti in primis una strategia attorno a cui aggrumare consenso nel medio come nel breve periodo di un anno segnato dalle elezioni europee). Il che non può che indicare, nelle sue strutture profonde, una lunga parabola di regresso dal 1948 ad oggi (con punti di tenuta fino agli anni Settanta), di cui il governo Meloni rappresenta un soggetto – per quanto (legittimamente) in grado di sfruttare a proprio vantaggio e secondo una visione strategica di medio periodo la logica di fase – “epifenomenico”.


[1] Cui si aggiunge negli ultimi giorni Carlo Galli La destra al potere. Rischi per la democrazia?, Raffaello Cortina Editore, Milano 2024. Al volume si alluderà in diversi punti del testo, senza tuttavia trattarlo in modo sistematico.

[2] Doverosamente, chi scrive, al di là delle critiche che si proveranno a formulare, sente di dichiarare la propria solidarietà verso autori (Scurati e Canfora in particolare) sottoposti negli ultimi mesi a inopportune pratiche escludenti e vessatorie.

[3] Scurati calca su una rappresentazione non priva di un certo irenismo, impiegando una seconda plurale non altrimenti specificata e quindi da intendersi come comunità nazionale senz’altra connotazione tutta impregnata di spirito antifascista. A chi scrive non sembra irrilevante, ed è per altro una considerazione ovvia, ricordare la presenza di un partito, l’MSI, che presentandosi alle elezioni del 1948 totalizzò alla camera più di mezzo milione di voti (alle elezioni del 1953 arrivò circa un milione e mezzo e vide il picco nel 1972 quando raccolse poco meno di tre milioni di voti: in termini assoluti più della Lega per Salvini Premier nella tornata 2019). Si ricordi poi il ben noto caso dell’appoggio esterno al governo monocolore guidato da Tambroni nel 1960, noto per la sua connotazione reazionaria. Insomma, l’antifascismo non era esattamente un bene diffuso in modo uniforme nel corpo nazionale sin dagli albori della repubblica. La stessa Democrazia Cristiana non era esente da infiltrazioni di destra se non neofascista certamente reazionaria, per non parlare delle forze internazionali che vedevano nei ceti dirigenti di destra un interlocutore affidabile. Lo stesso Lelio Basso, che incontreremo più avanti, pubblicherà nel 1951 un volume dal titolo emblematico: Due totalitarismi. Fascismo e Democrazia Cristiana.

[4] «Per parte mia, da diversi anni a questa parte, mentre mi sforzavo di comprendere narrativamente Mussolini dal punto di vista di uno scrittore del Ventunesimo secolo, ho visto delinearsi alcune caratteristiche capaci di definire la fisionomia politica del populismo e, soprattutto, la forma della sua leadership. Sono affiorate ai miei occhi entro uno sguardo bifocale, rivolto simultaneamente al passato e al presente, assumendo l’aspetto di vere e proprie regole, cioè di riferimenti normativi dell’agire. Sono i precetti, i procedimenti, le tecniche politiche che cento anni fa consentirono al duce del fascismo, unite alla violenza squadrista, di sedurre l’Italia dopo averla stuprata e, persino, mentre la stuprava» (pp. 55-56).

[5] Sarebbe semplice dimostrare come nei fatti tutti e sette i punti menzionati da Scurati, certamente giunti nella persona di Mussolini ad un grado di raffinamento inusitato, siano tuttavia applicabili sia al populismo di sinistra, di destra (si pensi solo al fenomeno del poujadismo), quanto al populismo tout court, nonché a diverse forme di cesarismo tradizionale. In fondo non sarebbe così azzardato risalire indietro nel tempo ad libitum, e sostenere che alcuni o tutti i tratti summenzionati siano applicabili (con una certa approssimazione) anche al governo di diverse realtà municipali italiane ed europee tra medioevo e età moderna.

[6] Thedor W. Adorno, Aspetti del nuovo radicalismo di destra, Marsilio, Venezia 2020.

[7] Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 2000. L’impiego della fiaba in Scurati è per altro il contraltare dell’abuso del Fantasy da parte di FdI: sul punto si vedano le ottime considerazioni di Carlo Galli, La destra al potere, op. cit., p. 53.

[8] Il Dialogue divenne una delle fonti principali nell’imbastitura del volumetto antisemita I protocolli dei Savi di Sion, ma questo Leo, ebreo da parte materna, non poteva saperlo.

[9] Si tratta di un punto messo in luce da Palmiro Togliatti in Lezioni sul fascismo, a cura di Giuseppe Vacca, Laterza, Bari-Roma 2004, p. 116.

[10] Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati, Democrazia afascista, Feltrinelli, Milano 2024, p. 72.

[11] È noto il sospetto di finanziamenti e di suggerimenti forniti in particolare dal governo di Clemenceau a Mussolini, nonché il verosimile sostegno finanziario inglese al «Popolo d’Italia» come strumento di propaganda bellicista.

[12] Gaetano Salvemini, La rivoluzione del ricco, Bollati Boringhieri, Torino 2020.

[13] È quanto rilevano, con gradi diversi di accordo e di profondità di indagine, personalità come Aldo Schiavone e Francesca Trivellato. Aldo Schiavone, L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria, il Mulino, Bologna 2022, p. 30; Francesca Trivellato, Microstoria e storia globale, Officina libraria, Roma 2023, pp. 156-166.

[14] «La qualificazione di “antifascista” (di cui insistono a gratificarsi uomini anche autorevoli di sinistra, che in questo non si distinguono affatto dai democristiani) diventa sinonimia assurda, anzi, ridicola, di antiborbonico o antifeudale». Pier Paolo Pasolini, Il processo, «Corriere della Sera», 24 agosto 1975, cit. in Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati, Democrazia afascista, Feltrinelli, Milano 2024, p. 136.

[15] Infine, anche per Canfora una postilla stilistica. La cifra del pamphlet si rinviene in una serie di arcaismi e notevoli allotropi desueti. Risalta, con due occorrenze, il verbo “illustrare” impiegato in forma riflessiva: il GDLI riporta esempi da Cavalcanti, Castelvetro e Carducci (una scelta probabilmente dovuta a contiguità alfabetica). Il pronome e aggettivo dimostrativo «codesto», particolarmente caro alla prosa proto-risorgimentale (in particolare Manzoni, che volle promuovere al livello di lingua nazionale un tratto del fiorentino) poi subito eclissatosi nella comunicazione burocratica (e conservato in regionalismo), convive con una discreta sprezzatura linguistica fatta di richiami spicci all’oralità («Orsù, coraggio»). Compaiono finanche solecismi (l’improbabile impiego dell’incidentale di un complemento oggetto in funzione di soggetto logico). È una prosa non inventiva, incapace di instillare forme estetiche nuove e convincenti né nello scritto né nel parlato: il suo unico scopo è contrapporre in funzione snobistica il vezzo del novecentismo un po’ scolastico al presunto scempio linguistico di massa. La persuasività e l’autorevolezza del contenuto ha da passare anche per un discreto distanziamento linguistico.

[16] «In Italia l’alter dell’autogoverno democratico è dato da una visione gerarchica dell’ordine politico e sociale rispetto alla quale la democrazia diventa pura acclamazione: democrazia come plebiscito è l’alter della democrazia italiana che è parlamentare, pluralista e non serve a incoronare maggioranze» (p. 19).

[17] Si tratta di esperimenti ancora ampiamente lodati. Cfr. Parag Khanna, La rinascita delle città stato. Come governare il mondo al tempo della devolution, Fazi Editore, Roma 2017.

[18] Lorenzo Mesini, Stato forte ed economia ordinata. Storia dell’ordoliberalismo (1929-1950), il Mulino, Bologna 2023.

[19] Su questi temi l’ottimo e sintetico Carlo Galli, Democrazia ultimo atto?, Einaudi, Torino 2023.

[20] Paolo Pombeni, La questione costituente, il Mulino, Bologna 2016, p. 200.

[21] Cit. ivi, p. 206.

[22] Cit. ivi, p. 207.

[23] Ivi, p. 208.

[24]Arnd Bauerkämper, Marxist Historical Cultures, “Antifascism” and the Legacy of the Past: Western Europe, 1945-1990, in Marxist Historical Cultures and Social Movements during the Cold War. Case Studies from Germany, Italy and Other Western European States, Stefan Berger, Christoph Cornelissen e Cham (a cura di), Palgrave Macmillan, pp. 33-64: 49.

[25] Ivi, pp. 50-51.

[26] Sul punto si veda Anti-Fascism in a Global Perspective. Transnational Networks, Exile Communities, and radical Internationalism, Kasper Braskén, Nigel Copsey e David Featherstone (a cura di), Routledge, New York e Londra 2021.

[27] Luca La Rovere, L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo (1943-1948), Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 223-224 e 254.

[28] Paolo Pombeni, op. cit., pp. 236-250.

[29] Da ricordare tuttavia anche le prime formulazioni, a partire dai tardi anni Quaranta, del mito della resistenza tradita e la tendenza “ribellistica” di una corposa base della militanza del PCI che si richiamava a Pietro Secchia.

[30] Cfr. Guido Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna 2018; Sabino Cassese, Lo Stato fascista, il Mulino, Bologna 2016; Id., Governare gli italiani, il Mulino, Bologna 2014.

[31] Marco Bresciani, Telling the Truth: From Socialist Toward Democratic Antifascism and Anti-Totalitarianism in the 1950, in Alessandra Tarquini e Andrea Guiso (a cura di), Italian Intellectuals and International Politics, 1945-1992, Palgrave Macmillan, pp. 51-68: 62.

[32]Arnd Bauerkämper, art. cit., pp. 33-64: 49.

[33] Giustamente richiamata in un bell’articolo di Raffaele Alberto Ventura su «Pandora Rivista», Che fare se l’antifascismo è divisivo?, 25 aprile 2024, consultabile liberamente a questo link.

[34] Arnd Bauerkämper, art. cit., p. 52.

[35] Sebbene formulate in termini politici persino aberranti, ma qui fu anche demerito di una classe intellettuale che non seppe farsi organica.

Scritto da
Enrico Fantini

Ha studiato Letteratura italiana all’Università di Siena (BA) e alla Scuola Normale Superiore di Pisa (MA, PHD). Attualmente è Wallace Fellow presso Villa I Tatti - Harvard University. Si occupa di letteratura, di storia delle idee, di politica.

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