Recensione a: Matteo Miavaldi, Un’altra idea dell’India. Viaggio nelle pieghe del subcontinente, add editore, Torino 2025, pp. 288, 20 euro (scheda libro)
Scritto da Daniele Molteni
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Negli ultimi anni l’interesse nei confronti dell’ascesa dei Paesi del continente asiatico sta aumentando, soprattutto a causa della competizione tra Cina e Stati Uniti e dello spostamento del baricentro della politica internazionale. Tuttavia, specie in un contesto di frammentazione come quello che stiamo vivendo e complici le descrizioni essenzialiste da parte di molti analisti politici, sembra difficile cogliere le sfumature dei numerosi Paesi che compongono questa enorme area del mondo senza scadere in visioni orientaliste. È il caso della stessa Cina, spesso vista come “il dragone autoritario”, ma anche dell’idea che abbiamo di un Paese come l’India, che ha scalzato Pechino dal primato di Paese più popoloso al mondo, ma per tante ragioni fatica a essere conosciuta nelle sue molteplici identità. Oggi, quasi una persona su cinque al mondo vive in India, ma troppo spesso non riusciamo a parlare di questo Paese enorme senza scadere in stereotipi.
È dunque un lavoro di ricostruzione della complessità e di ricerca sotto la superficie quello svolto da Matteo Miavaldi nel suo ultimo libro, Un’altra idea dell’India. Viaggio nelle pieghe del subcontinente, uscito il 28 febbraio per add editore, casa editrice indipendente che da tempo ormai si occupa di Asia con un catalogo di saggistica e narrativa sempre più ricco. Giornalista esperto di India, Paese in cui è arrivato per la prima volta nel 2008 e in cui ha vissuto stabilmente dal 2011 al 2018, Matteo Miavaldi scrive di India e Asia meridionale per testate come il manifesto e Lucy, ha lavorato come producer con Chora Media, è stato coautore del podcast Altri Orienti e dal 2010 collabora con il collettivo di giornalisti e sinologi China Files.
Nel mostrare questa “altra idea”, frutto di oltre quindici anni di studio e di relazioni, per rompere gli stereotipi Miavaldi ingaggia un confronto dialettico con alcuni grandi nomi del giornalismo e della letteratura italiana che hanno avuto l’opportunità di incontrare l’India nella loro vita. Il titolo richiama l’opera di Alberto Moravia, Un’idea di India, frutto del viaggio nel Paese dello scrittore insieme a Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini. Seppure anche quest’ultimo compagno di viaggio abbia scritto del subcontinente ne L’odore dell’India, Miavaldi predilige però l’analisi di “testa” di Moravia alle impressioni di “pancia” di Pasolini, per cui «l’unica cosa che rende sopportabile l’esperienza fetida e monotona del subcontinente è entrare in contatto col corrispettivo indiano dei Ragazzi di vita delle borgate romane» (p. 14). Non manca anche la lettura critica, tra gli altri, di uno dei colossi del reportage di viaggio, Tiziano Terzani, anch’egli avvolto non di rado da un’attrazione magica per il Paese. Quello scelto da Miavaldi è, dunque, un approccio analitico e razionale, scevro da fascinazioni mistiche, che non scade però mai nella freddezza e nell’indifferenza rispetto a ciò che ha di fronte agli occhi mentre prova a raccontare l’India in un modo più “normale” di come è stata raccontata da molti.
«Che cosa pensano gli indiani quando non parlano all’Occidente? Che cosa vogliono quando non li guardiamo? Che cosa si dicono quando parlano del loro Paese? Che futuro si immaginano? Che cosa succede se proviamo a raccontare questa India così eccezionale sforzandoci di trattarla, nel limite del possibile, come un Paese normale? Con i suoi problemi, le sue sfide, i suoi scheletri nell’armadio, le sue ambizioni? Qual è l’altra India che possiamo scoprire dopo la disillusione?» (p. 14). Queste sono le prime domande che l’autore si pone, e uno dei primi stereotipi a cadere è la figura di Mohandas Karamchand Gandhi, avvocato e poi politico che passerà alla storia come il Mahatma e come il Padre della Patria, dell’India indipendente. La sua immagine, avvolto nel khadi, è probabilmente una delle prime che ci appare alla mente quando in Occidente pensiamo al subcontinente indiano, in una sineddoche troppo limitata e oggi anacronistica. Perché la figura di Gandhi che immaginiamo si discosta poco da quella del ritratto realizzato dall’attore Ben Kingsley nel film omonimo di Richard Attenborough, che ha contribuito a renderlo «il primo brand da esportazione dell’India indipendente» (p. 35).
Non solo questa diffusione della figura di Gandhi – pur fondamentale per l’indipendenza e per la promozione della nonviolenza – ha impedito di raccontare altri “ribelli” come M.N. Roy, Bhagat Singh o Rash Behari, ma anche di sottolineare il supporto ricevuto dallo stesso Gandhi da parte di grandi industriali di settori ad alto sfruttamento di manodopera. Ma «l’omissione più grave del pensiero gandhiano – sottolinea Miavaldi –, per cui milioni di persone in India lo ricordano come un oscurantista, conservatore e reazionario, riguarda idee e posizioni politiche che mal si conciliano con il racconto del “Gandhi pop”. È il tema probabilmente più controverso e travisato dell’India di ieri e di oggi: il sistema delle caste e la discriminazione dei cosiddetti “intoccabili”» (p. 41). In questa distruzione del Mahatma / Ben Kingsley che ricostruisce il Mahatma / Mohandas Gandhi nelle sue contraddizioni, emerge così la figura di Bhimrao Ramji Ambedkar, giurista e costituzionalista dalit, parte del gruppo di “intoccabili”, “fuori casta” o “paria”, non appartenenti a nessuno dei macrogruppi (varna) e sottogruppi (jati) del sistema castale indiano, il sistema sfruttato durante l’occupazione inglese per categorizzare e classificare le popolazioni delle colonie.
Se per Gandhi il sistema delle caste va ammorbidito promuovendo una discriminazione positiva per i dalit, per Ambedkar, guida dei movimenti di protesta per i diritti dei dalit, deve essere abolito. «La soluzione, per Ambedkar, non è convincere tutti gli hindu a volersi gandhianamente bene come fratelli e sorelle. La soluzione è demolire completamente il sistema delle caste» (p. 56). La linea di Gandhi passerà e diventerà legge, grazie alla sua capacità di compattare il fronte hindu contro il Raj britannico, ma a detrimento degli “ultimi degli ultimi” che resteranno discriminati e senza giusta rappresentanza. Ambedkar, dal canto suo, diventato ministro della Giustizia e presidente della Commissione Costituzionale, non vedrà mai realizzato il sogno di un’India senza caste nonostante l’abolizione della discriminazione e dell’intoccabilità in Costituzione. Ancora oggi, caste e disuguaglianze dominano politica ed economia, con le élite che controllano gran parte della ricchezza del Paese: «Secondo uno studio pubblicato nel 2024 dal World Inequality Lab, oggi le caste alte – cioè brahmin, kshatrya e vaishya – che compongono il 25% della popolazione indiana, rappresentano l’88% dei miliardari e controllano più del 55% della ricchezza complessiva del Paese» (p. 59). Un sistema più diseguale persino rispetto al periodo dell’occupazione britannica.
Come sottolinea ancora Miavaldi, Ambedkar è il simbolo poco raccontato di un’India più eguale e inclusiva, diversa non solo da quella gandhiana ma anche dalla «New India» di Modi che è lontana anni luce dai principi della nonviolenza. Intanto, perché proprio il Primo ministro attuale è erede del più settario nazionalismo hindu che segue l’Hindutva, l’ideologia politica di stampo nazionalista, nativista e islamofobica elaborata da Vinayak Damodar Savarkar, professata a sua volta dal Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS, Organizzazione Volontaria Nazionale) e dalla galassia delle sue organizzazioni sorelle, chiamate Sangh Parivar. Miavaldi spiega cos’è l’RSS: un’organizzazione che si ispira apertamente al nazifascismo, che conta milioni di membri in tutta l’India, e da più di un secolo vuole instaurare nel subcontinente un Hindu Rashtra, una Nazione degli hindu, per gli hindu, governata dagli hindu e, di fatto, contro la minoranza musulmana di circa 200 milioni di indiani.
«È un progetto che arriva da lontano e che per tutta la storia dell’indipendenza si è opposto all’aspirazione nehruviana di fare dell’India un Paese laico dove tutte e tutti, al di là delle differenze culturali, religiose ed etniche, potessero sentirsi veramente a casa» (p. 64), sottolinea Miavaldi. Un progetto che in origine si ispira all’Italia fascista, le cui gesta «riempiono le pagine di pubblicazioni clandestine fatte circolare negli ambienti della RSS e dell’Hindu Mahasabha, il partito nazionalista hindu» (p. 66). La RSS non è un’organizzazione marginale, ma la scuola politica sia di Narendra Modi che di gran parte della classe dirigente del suo partito, il Bharatiya Janata Party (BJP), fondato nel 1980 proprio da due membri dell’RSS. Parlare di RSS e Hindu Rashtra permette dunque di fare luce su altre figure della rete del BJP e delle RSS: Yogi Adityanath, Chief Minister dell’Uttar Pradesh e potenziale candidato alla guida del partito dopo Modi; il capo della RSS Mohan Bhagwat; e Amit Shah, Ministro degli interni dal pugno di ferro e vero stratega dell’ascesa del Presidente in carica, che si sospetta possa aver avuto un ruolo in un caso di omicidio e tentato omicidio degno delle migliori spy story per reprimere gli attivisti Sikh all’estero che ha coinvolto il Canada e gli Stati Uniti.
L’India di Modi, quindi, non è un Paese pacifico come viene raccontato dal leader all’esterno, ma una Nazione dove impera il nazionalismo hindu, un’India a due facce, in cui lo yoga viene utilizzato come strumento di soft power. Un Paese dove i programmi televisivi sulle reti private, cresciuti dopo le liberalizzazioni post-1991, tra cui quelli di Baba Ramdev, indottrinano milioni di hindu, forti oggi del saldarsi tra il nazionalismo del governo, lo yoga, e il controllo dei media del partito di Modi. Ma non solo, perché nel 2014, «per la prima volta nella storia dell’India repubblicana, Modi eleva la medicina tradizionale al più alto rango dell’amministrazione statale e introduce il ministero dell’AYUSH, acronimo per ayurveda, yoga e naturopatia, unani, siddha e omeopatia, che ha il compito di regolare la ricerca, l’insegnamento e la promozione, dentro e fuori i confini nazionali, del sapere medico tradizionale indiano e “alternativo”» (p. 121). Si assiste così a una nazionalizzazione, induizzazione e settarizzazione dello yoga e della medicina tradizionale in quella che è «la soft hindutva: raccontare un’India pacifica e innocua che abbraccia una cultura millenaria votata all’introspezione e al bene collettivo mentre, nella pratica di governo, si agisce reprimendo il dissenso, discriminando le minoranze religiose e imponendo un’identità hindu – e indiana – fondata sull’esclusione del diverso» (p. 124). Così come con Gandhi, anche lo yoga è «la faccia dell’India che pensiamo di conoscere: mansueta, contemplativa, mite, un’India gentile che ci ha fatto dono della sua spiritualità – sottolinea Miavaldi –. Ma sotto al tappetino si nasconde un’India vorace, spietata e frenetica, pronta a scalare la piramide del potere globale e a diventare una vera superpotenza economica e tecnologica» (p. 126).
«Nell’India di Modi, lanciata verso un futuro di prosperità che la destra hindu già ha soprannominato il Ram Rajiya, il Regno di Ram, c’è posto per le cittadine e i cittadini che immaginano e lottano per un’altra idea di India?» (p. 201), si chiede Miavaldi. La risposta è che questo spazio c’è ma si sta restringendo, perché la direzione che sta prendendo l’India è opposta a quella aveva imboccato nel «percorso che all’inizio degli anni Duemila il filosofo ed economista indiano Amartya Sen, tra gli altri e le altre, aveva in parte ricostruito nel suo saggio The Argumentative Indian, evidenziando il carattere sincretico e poroso di una cosiddetta “cultura indiana”, forte proprio perché fondamentalmente inclusiva, polemica, aperta alle critiche interne e alle contaminazioni esterne». (p. 202). È un’India dove chi critica il governo è descritto come un “anti indiano” e un “traditore della patria”, dove si affievolisce la libertà di stampa e dove un giornalista come Ravish Kumar è stato costretto a dimettersi dopo che la proprietà del suo network televisivo, NDTV, è passata a esponenti vicini al Primo ministro, in modo non dissimile da quanto accaduto al Washington Post dell’era Bezos, dopo l’elezione di Donald Trump, con le dimissioni del capo degli editorialisti David Shipley. Similitudini che evidenziano l’emergere di «una dieta informativa estremamente sbilanciata a favore della classe dirigente al potere» (p. 203) in diversi Paesi.
Ma c’è anche un’India che resiste, come quella dell’imponente mobilitazione dei contadini che per mesi a partire dal 2020 hanno praticamente circondato la capitale obbligando il governo Modi a ritirare tre leggi che avrebbero liberalizzato il settore agricolo, o quella che si batte perché i diritti civili e l’emancipazione non siano, in India come altrove, una questione di classe e dunque dei privilegi. L’India è anche uno dei luoghi in cui le donne sono più discriminate, ma in cui dopo l’indignazione per i crimini efferati contro di loro, «la voce del femminismo riesce a sovrastare quella del giustizialismo e prova a imporre parole d’ordine nuove per il grande pubblico indiano, mettendo in luce la discriminazione sistemica perpetrata dal patriarcato» (p. 219). È il Paese portavoce del cosiddetto Sud Globale che cresce e che per farlo nel rispetto dell’ambiente non è disposto a sostenere da solo la spesa enorme della transizione, così come l’India è il Paese in cui il PIL ne fa la 5° economia del mondo, mentre il PIL pro-capire la posiziona al 140° posto. E dove ai problemi derivanti da una commistione storica tra la politica e le grandi famiglie imprenditoriali – Birla, Ambani, Adani – si aggiungono quelli della disoccupazione e di un settore informale in cui lavorano più di 400 milioni di persone e sono impiegati l’85% dei lavoratori.
Un Paese che sta avanzando tecnologicamente, dove emergono aspetti interessanti e preoccupanti insieme. L’adozione massiccia dei pagamenti digitali del sistema UPI cashless ha trasformato l’economia indiana, ma ha sollevato serie preoccupazioni sulla privacy. Il database biometrico Aadhaar, il più grande al mondo, rende possibile tracciare con estrema precisione le attività recenti di quasi ogni cittadino permettendo al governo e alle autorità di consultare e utilizzare un database che raccoglie un quadro recente e dettagliato di chiunque abbia un codice Aadhaar, necessario per accedere alla maggior parte dei servizi. «Aadhaar è ovunque, osserva e registra tutto, non lascia via di scampo, ma non è infallibile. E per le persone la cui sopravvivenza dipende dal funzionamento corretto del sistema, gli errori tecnici o umani possono portare a conseguenze tragiche» (p. 164). Oggi, sottolinea Miavaldi, l’India è il banco di prova di uno degli esperimenti di sorveglianza di massa più grandi del mondo, grazie anche all’insieme delle componenti del suo sviluppo tecnologico chiamato India Stack: le identità digitali (Aadhaar), il network di pagamenti istantanei (UPI), la gestione sicura e paperless dei documenti ufficiali (DigiLocker).
Un’infrastruttura che nel 2023 la Shanghai Cooperation Organization ha accolto per essere adottata da tutti gli Stati membri, così come già uno o più strumenti digitali della suite India Stack sono in uso o in fase di sperimentazione in diversi Paesi del Sud Globale. Questo è solo uno degli esempi che sottolinea che luogo sia l’India di oggi, che secondo alcuni è una democrazia parzialmente libera, secondo altri una democrazia imperfetta o una autocrazia elettorale. Ma nonostante questo, come sottolinea Miavaldi, «nelle cancellerie internazionali, l’entusiasmo per l’alba della New India è alle stelle» (p. 232). Questo anche perché, proprio per la centralità citata sopra, l’India è oggi il pendolo capace di far oscillare in parte le sorti della politica internazionale, l’anti-Cina per definizione, che tuttavia mantiene la sua autonomia strategica alla ricerca della miscela ottimale. «L’India non è ancora una superpotenza, ma già ragiona e agisce come tale, perseguendo le proprie ambizioni nazionali anche a costo di indispettire il gruppo delle democrazie liberali in cui, di routine, viene incasellata dalle principali potenze occidentali» (p. 246). Un non allineamento che è la dottrina di Subrahmanyam Jaishankar, Ministro degli Esteri di Modi, assertivo e lapidario, che, come lui stesso ha scritto, mira a intrattenere rapporti con l’America, gestire la Cina, coltivare l’Europa, rassicurare la Russia, coinvolgere il Giappone, attirare i Paesi confinanti, allargare il vicinato ed espandere i tradizionali sostenitori (p. 246).
Il libro di Miavaldi non solo ci racconta, come dal titolo, un’altra idea dell’India, ma anche le numerose direttrici di sviluppo (e di regressione) a cui sono soggette tutte le democrazie più o meno fragili, che riguardano le discriminazioni delle minoranze, gli impatti della tecnologia sulla società, la saldatura tra potere imprenditoriale e politica nel tempo del capitalismo della sorveglianza, e le disuguaglianze che ne conseguono. Un libro che è uno spaccato di un Paese che influenzerà probabilmente sempre di più la società globale, che è una bussola per il presente e richiama temi importanti anche per altre latitudini, compresa quella italiana. Dall’insediamento del Governo Meloni, infatti, la comunanza di visioni tra nazionalismo hindu e nazionalismo italiano – pensiamo al caso Melodi, una fittizia love story tra i due premier spopolata sui social con la crasi dei cognomi Meloni e Modi – sembra un tassello fondamentale dell’internazionalismo di estrema destra e del progetto di erosione delle democrazie pluraliste e liberali.
Proprio come i libri migliori, Un’altra idea dell’India offre delle risposte ma soprattutto ci apre a nuovi interrogativi. Se grazie a questa lettura riusciamo a farci, appunto, “un’altra idea dell’India”, il merito è di un giornalista capace di togliersi le lenti eurocentriche per restituirci ciò che vede con empatia, mista spesso a indignazione e preoccupazione, per il futuro di un Paese da cui da tempo trasmette storie di cui dovremmo imparare a occuparci di più. Tra aneddoti personali e analisi di dinamiche strutturali, leggerlo è un’immersione in contraddizioni enormi che riguardano circa 1,4 miliardi di persone. «L’India non immaginata è destabilizzante. È un’India che disillude, destinata a grandi traguardi e a grandi sfide. È un’India che cambia a una velocità difficile da metabolizzare per noi che la guardiamo da fuori e cerchiamo di inquadrarla, di incasellarla, di intuirne la direzione, prevederne le sterzate e metterne a fuoco le traiettorie, sull’onda di un progresso che sembra staccarla dal gruppo delle democrazie» (p. 279).
L’India, ci ricorda Miavaldi, è un grande esperimento umano mai visto prima, una superpotenza in fieri che non sappiamo ancora quale direzione prenderà ma di cui è bene conoscere gli snodi; un’India che ha ancora un’opposizione con l’Indian National Congress di Rahul Gandhi e altri partiti regionali, dove la democrazia sta resistendo nonostante le difficoltà. «Come si trasforma in superpotenza un Paese democratico con quasi un miliardo e mezzo di abitanti non lo sa nessuno; non c’è un manuale di istruzioni, né ci sono esempi da seguire. Bisogna imparare facendo» (p. 279).