Verso un ritorno al fascismo? Note su un fenomeno attuale
- 27 Ottobre 2017

Verso un ritorno al fascismo? Note su un fenomeno attuale

Scritto da Diletta Alese, Giulio Saputo

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In vista dell’anniversario della marcia su Roma di domani pubblichiamo, come utile contributo al dibattito, questo articolo inviatoci da Giulio Saputo, ex Segretario della Gioventù Federalista Europea, e Diletta Alese, Presidente Gioventù Federalista Europea Roma.


 È stata ufficialmente confermata la manifestazione a Roma di Forza Nuova “Tutto per la patria” attraverso le inquietanti constatazioni di Fiore: “l’antifascismo non esiste più nel tessuto sociale, esiste come questione d’élite, tra Boldrini, Fiano, questi personaggi che sono avulsi dalla lotta politica”. Il problema abissale che dovrebbe scuoterci dalla routine quotidiana nel leggere queste poche righe è che il segretario di FN potrebbe non avere del tutto torto.

Ad un secolo da Caporetto e a 80 anni dall’introduzione della prima legge sulla difesa della razza (Regio Decreto n.880/37), non abbiamo solo eclatanti casi di una sottocultura fascista e razzista che sta emergendo con violenza (vedi il recente scandalo riguardo l’immagine di Anna Frank), ma ogni giorno assistiamo alla quotidianità di un linguaggio politico e mediatico altrettanto allucinante a cui iniziamo ad essere assuefatti.

 

fascismo

Manifesto di Forza Nuova che riprende un’immagine di propaganda fascista del Ventennio.

 

Viviamo nel pieno di una crisi valoriale, spirituale e materiale (Toynbee) che colpisce l’intero paese e trova terreno fertile in un’Europa che dà solo risposte apparentemente distanti. Con la scomparsa progressiva di tutti i testimoni, stiamo perdendo la consapevolezza che non esiste immunità ai germi del Secolo Breve. Se essere antifascisti e antirazzisti non era assolutamente sindacabile fino a qualche tempo fa, non essendo neanche una questione di “destra o sinistra”, nella ridefinizione al ribasso orizzontale e verticale dei diritti frutto dell’ultimo decennio di crisi, tutto è stato rimesso in discussione.

Prendiamo alcuni dati interessanti che ci offrono uno spaccato della società italiana: 1 italiano su 10 è antisemita (CDEC), abbiamo il più alto tasso al mondo di ignoranza sull’immigrazione (Ipsos-Mori), il 65% dei nostri concittadini pensa che i rifugiati siano un peso e un buon 40% ritiene che le religioni altrui costituiscano un pericolo per la comunità (Commissione Jo Cox).

Probabilmente dopo un rapido giro sui social potevamo più o meno realizzare questa triste situazione, ma cosa ci ha portato alla riabilitazione quasi completa del fascismo? Cercheremo di seguire, per mancanza di tempo e spazio, quattro principali (sebbene incomplete) strade interpretative per tentare di dialogare con l’attualità cogliendo delle prospettive di lunga durata.

 

La decadente retorica nazionale

Gli stati nazionali europei, per ridarsi legittimità nel dopoguerra, hanno sistematicamente riscritto la storia guardando al secolo “di ferro e fuoco” (Traverso) con una modalità sostanzialmente «retrospettiva», dando un giudizio sopraelevato di condanna unanime e di rigetto su tutto un periodo «che non ci appartiene» celebrazione ufficiale dopo celebrazione ufficiale (ovviamente si esclude le strumentalizzazioni di alcune parti politiche). Questa ricostruzione rimuove il fatto che quel passato, comunque, ci rappresenta e che le istituzioni democratiche, con buona parte dei valori moderati che immaginiamo come eterni, nell’Europa degli anni ’30/’40 stavano in realtà morendo. Non ci si può nascondere all’infinito dietro l’apparente velo della neutralità del giudizio.

Ci sono dei momenti nella storia in cui il grigio non è un’opzione disponibile tra bianco e nero, si deve scegliere. Gli europei che si sono opposti all’oscurantismo fascista non erano ovviamente solo “comunisti”, ma anche monarchici, liberali, democratici, cristiani, atei, socialisti: erano partigiani e avevano scelto l’antifascismo. Purtroppo invece, dalla Spagna alla Germania, passando per l’Italia, stiamo deliberatamente mettendo spesso tutto su un piano di parità, nella stessa “palude” dove i caduti del passato hanno il medesimo peso e lo stesso colore (Bolis) per salvaguardare una retorica nazionale morente al prezzo di una memoria proveniente da uno scomodo passato. La ricostruzione fittizia di un’unità della comunità di sangue della nazione ci costringe in termini di “oblìo” (Renan) ad eliminare il dramma della guerra civile: “Nessun cittadino francese sa se è Burgundo, Alano, Visigoto; ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo, i massacri del XIII secolo nel Sud”. Lo stesso si può dire per l’Italia di oggi, e per esteso l’Europa, laddove a scontrarsi furono fascismi e resistenze. Aver accettato questo tipo di rimozione nella retorica istituzionale ha significato il declino della legittimità politica di un sistema e di un insieme di valori usciti vincitori da una guerra solo grazie al sacrificio di migliaia di persone che hanno scelto; e lo hanno fatto in un momento in cui non reagire significava essere conniventi con la violenza, il razzismo e la dittatura. Dobbiamo chiedere agli europei di capire questo coraggio e di ricordare che, oltre agli alleati o all’asse, esisteva una Resistenza da cui è nata l’Europa di oggi superando la sensazione che sia un “monopolio” della sola sinistra. Una democrazia che non ha memoria e non ricorda le sue radici è per sua natura fragile. Per dirla sempre con “Coda di lupo” di De André, rischiamo di esser ridotti come l’indiano che riflette tra sé affermando: “con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria”.

 

La crisi della politica e della sovranità? Una crisi di legittimità

Un altro serio problema per la legittimità delle istituzioni democratiche nazionali ed europee è la loro incapacità di agire in un mondo globalizzato. Evitando di addentrarsi nella crisi dell’Occidente, ci limitiamo ad evidenziare l’impossibilità degli stati nazionali europei di risolvere i problemi di fondo della politica interna e della politica internazionale, di garantire cioè l’espansione economica e la sicurezza (civile e sociale) dei propri cittadini. Da qui proviene una netta crisi di fiducia per istituzioni inefficaci (Albertini), per una bagarre che spesso nasconde solo la mancanza di idee di una classe politica che assiste impotente al progressivo dissolversi dei corpi intermedi. Ciò avviene perché il nostro sistema politico è organizzato su base nazionale e non è in grado di governare problematiche diventate ormai pienamente sovranazionali: non ne ha gli strumenti (finanza, criminalità internazionale, tutela dell’ambiente, ecc.). Questo ha reso la politica nazionale l’arte dell’amministrare l’esistente al ribasso, perdendo la possibilità di incidere sul futuro, allargando un polo sempre più vasto al centro per i partiti e sbiadendo il senso di una destra o di una sinistra nello schieramento parlamentare. Per i cittadini è sempre più difficile capire quali siano le menzogne, fondate sull’illusione di ancoraggi obsoleti, e quali le cose effettivamente realizzabili. Si è progressivamente radicalizzato il conflitto in uno scontro (Spinelli) tra chi cerca di governare le cose delegando il potere sul piano sovranazionale e chi vuole tornare indietro ad un passato impossibile poiché gli stati nazionali appartengono ad un tempo ormai lontano in cui le comunicazioni non andavano alla velocità di un click e dieci multinazionali non erano certo in grado di raccogliere più introiti di 180 paesi messi insieme (Oxfam).

È necessario dunque inquadrare il deterioramento della partecipazione e dei suoi contenuti nella più grande crisi delle democrazie nazionali, che non forniscono più i mezzi per assicurare una società che sappia, possa e debba scegliere. Occorrerebbe guardare a questo punto alla democrazia non solo come un insieme di norme statiche e assolute, ma considerandola un processo e un prodotto storico in continuo divenire (Kelsen). In pochi purtroppo si stanno chiedendo che genere di non-democrazia stanno producendo questi tempi di “interregno” (Balibar): il dramma di una società in crisi bloccata in un sistema istituzionale sovranazionale che non funziona.

 

L’imbarbarimento del linguaggio

Non ci soffermiamo sulla sterminata bibliografia che hanno scatenato le parole di Umberto Eco quando ha affermato un paio di anni fa che con internet “gli scemi del villaggio sono promossi a portatori di verità”. Però è senz’altro vero che, a causa anche di un uso improprio del giornalismo e delle “piazze virtuali”, uno specifico linguaggio politico e mediatico ha influenzato le masse irresponsabilmente o inconsciamente alla violenza e all’odio.

 

fascismo

Rapporto Vox 2015 sull’intolleranza, https://youtu.be/bcnQfTQ4JBY.

 

Come ci ricorda in “Fascisti del terzo Millennio” l’antropologa Maddalena Cammelli, “non si possono isolare i fascisti del terzo millennio come fossero mostri nostalgici, quando il linguaggio di CasaPound è lo stesso di Borghezio, di Matteo Salvini, ma anche di Beppe Grillo, Berlusconi, Renzi”. Il problema è che con questa “continuità di significati” alcune forze dichiaratamente fasciste hanno guadagnato negli anni una maggiore accettabilità e agibilità politica e mediatica accompagnata da una “banalizzazione crescente delle forme concrete di razzismo e fascismo”. Dovrebbe finire il tempo dei partiti che inseguono l’elettorato sparando al ribasso, svendendo i valori europei e democratici perché costano troppo in​ punti percentuale. Elevando i social a strumento politico, si è instaurato un sistema di giustificazione incondizionata delle opinioni: tutto viene automaticamente concesso in considerazione della mera libertà di espressione. Dimenticando la lezione di Popper, la conseguenza più tangibile è un appiattimento sullo stesso piano di legittimità della realtà. Qualsiasi filtro morale, politico e intellettuale viene annullato e quindi tutto diventa ugualmente vero, giusto o ammissibile.

 

fascismo

Rapporto Vox 2015 sull’intolleranza, https://youtu.be/bcnQfTQ4JBY.

 

La profezia auto-avverante della guerra tra poveri: il centro e le periferie

La mancanza di sicurezza civile e sociale sta diffondendo una paura dilagante tra i cittadini che fin troppo facilmente si sta trasformando in odio. Il migrante è diventato il bersaglio, suo malgrado, di tensioni interne alla società già fortemente radicate. La guerra tra poveri sembra essere iniziata: la profezia si è auto-avverata. Nella definizione di Merton: «una supposizione o profezia che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità». La creazione dell’illusoria competizione tra migranti e autoctoni ha generato le condizioni di una guerra effettivamente in atto. Ma su quali presupposti? Basta banalmente confrontare le cifre del costo per l’accoglienza dei rifugiati (69 miliardi di Euro – anche se nello stesso periodo i profughi faranno crescere il Pil di 126,6 miliardi secondo l’economista Legrain) con il costo annuo dell’evasione fiscale nell’UE (mille miliardi di Euro) per comprendere come l’opinione pubblica e la politica si stiano mobilitando contro un nemico immaginario; eppure pare questa la strada strumentalmente più conveniente.

Stiamo vagliando il gramo bilancio di anni in cui la globalizzazione è rimasta ingovernata ed è stata caratterizzata dal predominio di politiche liberiste prive di regole. La crisi economica ha prodotto disuguaglianze approfondendo disparità già presenti nella società continentale e globale: la forbice sociale tra ricchi e poveri si è ampliata sempre di più, 1/4 della popolazione europea vive a rischio povertà o esclusione sociale (quasi 120 milioni di persone per Eurostat). Intanto, migliaia di persone continuano a morire per tentare di raggiungere la nostra parte di mondo. Oltre a questa doppia disparità economica europea ed extra-europea, dovremmo riflettere sugli scarsi riferimenti ideali esistenti in un mondo come il nostro privo ormai di grandi narrazioni e poggiato su un presentismo portato avanti all’ossessione. Non ci soffermeremo qui sulla crisi delle ideologie (Albertini) o sul deserto post-ideologico (Žižek) in cui siamo costretti a vivere, ma possiamo comprendere agilmente come questo terreno di povertà spirituale ed economica sia fertile per gli estremismi di ogni colore o religione. Continuare ad ignorare e a legittimare l’esistenza di disparità di ricchezza tanto impressionanti sta portando alla formulazione di due mondi paralleli: uno edulcorato, in cui la vita è legittima, e uno immondo, dove non lo è (anche perché non mediatizzato). Da un lato le città e dall’altro le periferie multietniche e “degradate”; da un lato l’Europa civile e dall’altro un mondo di fame e violenza. In questo “ritorno ad Hobbes” (Habermas) lo stato non ha gli strumenti che per affrontare un sintomo, la percezione dell’insicurezza (civile, in particolare), lasciando irrisolti i problemi reali alla base dell’insicurezza sociale: disoccupazione, disuguaglianze sociali, educazione.

 

Che fare? Qualche risposta al diffondersi del fascismo

In estrema sintesi, abbiamo una società senza memoria, specchio di un sistema istituzionale e di valori in crisi, che attraverso i social e i media vede legittimare spesso un imbarbarimento delle soluzioni e delle proposte da parte di una classe dirigente incapace di uno “sforzo creativo” (Schuman) per uscire dall’impasse.

In questo contesto qualsiasi narrazione che promette di essere “antisistema”, come quella sovranista o quella fascista, rischia di avere una forte presa su una cittadinanza senza fiducia. Occorre, dunque, invertire questa tendenza e stimolare i cittadini a partecipare e a credere ancora nella democrazia e nelle istituzioni nazionali e sovranazionali. Dobbiamo pensare che lo stesso percorso di costruzione dell’Europa rappresentava proprio una risposta alle degenerazioni del nazionalismo in totalitarismo per favorire invece l’«unità nella diversità» di un continente come esempio e promessa di pace per il mondo. Dal sostanziale stallo che ha vissuto dopo il 2007, l’Unione ha perso la rotta, ribaltando spesso l’inventario ideologico che la Resistenza aveva posto a fondamento del processo di integrazione: le soluzioni intergovernative e non democratiche, l’approccio securitario-tecnico all’immigrazione e le misure di austerity hanno creato una seria perdita di legittimità delle istituzioni europee. A questo si aggiungano gli attacchi indecenti di numerose forze politiche che hanno indicato l’Ue come capro espiatorio dei propri fallimenti o di tutti i mali dei nostri tempi.

Tutto questo deve finire. L’Europa deve tornare ad essere un’occasione per tutti, non solo per una ristretta élite o perché rappresenta “il male minore” di un mondo senza futuro. Non basta più il solo rifiuto di una cultura e una pratica politica obsoleta ormai normalizzata, ma è essenziale ricostituire l’impegno per la costruzione di un nuovo ordine democratico a livello sovranazionale fondato sui principi dell’anti-fascismo. Allo stesso modo, non basta la mera opposizione al revanscismo nazionalista, ma diventa sempre più urgente un cambiamento istituzionale e costituzionale dell’Unione Europea.

In sintesi, non è più sufficiente la mera negazione e decostruzione delle idee illusorie e menzognere del fascismo e del nazionalismo, ma è necessaria una campagna di contenuto istituzionale e politico, una battaglia di civiltà sul piano continentale.

Da un lato, è necessario lo sforzo di tutte le forze progressiste per costruire un’egemonia “gramsciana” sul piano culturale e del dibattito pubblico, elevando il livello dell’analisi e degli obiettivi, lasciando in un angolo chi si ostina a rimanere schiavo del nazionalismo metodologico (Beck), parlando direttamente ai cittadini che hanno un disperato bisogno di risposte. Dall’altro, per uscire dal pericolo reale di una «guerra tra poveri» tra migranti ed emarginati, sarebbe necessario smettere di scontrarsi sullo “zero virgola” per quanto riguarda le possibilità di fare deficit sul piano nazionale. Il problema non è il dito, ma la luna: il rilancio dello sviluppo per uscire dalla crisi economica va fatto sul piano continentale attraverso un serio cambiamento istituzionale. È in Europa che deve essere pensata la tutela del lavoratore e non solo del capitale. Per avere dei risultati concreti servirebbe però un’Unione in grado di superare i suoi dissidi interni, politicamente forte, dotata di una politica estera, economica e fiscale unica e non ostaggio di alcuni governi colti da una deriva sempre più autoritaria. Per questo possiamo solo sperare in una riforma del meccanismo istituzionale dell’area euro che crei gli strumenti necessari per far fronte a queste sfide politiche. In questo senso lasciano aperta una finestra di opportunità il discorso di Juncker (SOTEU) e quello di Macron (Sorbona) solo se indirizzati in un processo democratico che stimoli la reale partecipazione dei cittadini europei alla definizione del futuro della loro comunità di destino e se accompagnati da significative politiche incentrate sulla solidarietà.

L’obiettivo è quello di completare il sogno della Resistenza, realizzare un’Europa unita e democratica. Fino ad allora la lotta non sarà finita ed ognuno di noi sarà responsabile individualmente delle proprie scelte: non ci resta che decidere che mondo lasciare alle prossime generazioni. Questa forse è la grande narrazione, “lo sforzo creativo” che ci permette ancora di avere fiducia nella politica, nelle istituzioni ma soprattutto, nel futuro.

Scritto da
Diletta Alese

Laureata in Sociologia presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza, specializzata nell’analisi e nello studio dei fenomeni migratori, dei processi di securitizzazione e delle discriminazioni di genere.

Scritto da
Giulio Saputo

Laureato in Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi di Firenze, già Segretario Generale della GFE, è attualmente nel consiglio di presidenza del CIME e uno dei responsabili dell’UD del MFE.

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