Recensione a: Mario Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), a cura di Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 656 (scheda libro)
Scritto da Giulio M. Cavalli
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La recensione al testo di Tronti che qui presentiamo inaugura una collaborazione con Prospettive italiane, gruppo di ricerca promosso da alcuni studenti di filosofia dell’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Questa recensione traccia, seguendo le diverse sezioni dell’antologia in questione, un profilo complessivo del percorso filosofico-politico di Mario Tronti. La recensione è integrata da una serie di articoli che ripercorrono la densità teorica del primo periodo della riflessione trontiana (1958-1967), la riflessione di Tronti del decennio tra il 1970 e il 1980, il pensiero di Tronti tra il 1985 e il 1998 e la riflessione speculativa dell’ultimo Tronti (2001-2015).
Ospitata nella collana «XX secolo» diretta da Carlo Galli e Alberto De Bernardi per i tipi del Mulino, Il demone della politica è la prima antologia ragionata e sistematica degli scritti di Mario Tronti (Roma, 1931), uno tra i maggiori intellettuali italiani del secondo Novecento. L’antologia, curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, dal punto di vista editoriale ha il grande merito di fornire per la prima volta una panoramica completa dell’evoluzione del pensiero trontiano fin dai primi interventi nel dibattito marxista italiano (1958-1959), raccogliendo in tutto ventinove testi, molti dei quali difficilmente reperibili perché sparsi in riviste e collettanee, attentamente annotati e preceduti da un’utilissima introduzione a sei mani.
I curatori hanno opportunamente suddiviso gli scritti in quattro sezioni, che seguono un ordine cronologico che è anche tematico, e che si configurano quindi come le quattro principali tappe evolutive del pensiero di Tronti. La sezione più ampia è dedicata agli scritti immediatamente successivi alla stagione operaista, quasi a voler ricordare al lettore che Tronti non è stato soltanto «il padre nobile dell’operaismo italiano» (p. 11), ma un filosofo a tutto tondo, tanto radicale – come si vedrà – da mettere più volte in questione le sue stesse idee con estrema lucidità. Quando ci si trova davanti a un percorso intellettuale così complesso e tortuoso è allora quanto mai opportuno, come dichiarano in apertura i curatori, «offrire un’immagine quanto più completa possibile dell’itinerario dell’autore, segnalandone continuità e discontinuità, senza per questo pretendere una coerenza assoluta della traiettoria trontiana o, inversamente, sviluppare una critica serrata di ogni suo passaggio» (p. 11).
Nella prima fase del suo pensiero (1958-1967), coincidente con la stagione operaista e culminata nella chiusura della rivista «Classe operaia» (1964-1967), Tronti muove dalla critica a una certa ricezione del marxismo in Italia: l’obiettivo polemico è, sul piano teorico, la ricezione idealistica, e sul piano pratico il «gramscismo incarnato dal gruppo dirigente del Pci» (p. 12). Nel saggio Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi. Gramsci e Labriola (1959), Tronti ricostruisce la ricezione italiana di Marx nei suoi momenti salienti, notando che «per la filosofia italiana, Marx è stato il punto d’appoggio per arrivare a Hegel. […] Marx ha introdotto Hegel in Italia» (p. 84) ed «è dunque alle origini dell’idealismo italiano» (p. 87). Gramsci è invece voluto tornare a Marx attraverso una serrata critica all’idealismo italiano: se per Croce e Gentile il Marx di Labriola fu il mezzo per arrivare a Hegel, al contrario per Gramsci lo Hegel degli idealisti italiani fu il mezzo per arrivare a una più profonda comprensione del marxismo. Tronti riconosce perciò a Gramsci «il merito di rivendicare l’autonomia e l’autosufficienza filosofica del marxismo» (p. 13); tuttavia, il carattere aperto e problematico del marxismo gramsciano, inteso come filosofia della praxis, cioè dell’atto impuro, rimanendo vincolato a una critica del pensiero borghese si dimostra incapace di «investire l’intera realtà della società capitalistica. Per essere originale e autonomo rispetto a tutte le filosofie precedenti, il marxismo deve quindi presentarsi come scienza» (p. 13).
Negli sviluppi successivi Tronti combina l’interpretazione “scientista” del marxismo con il carattere soggettivo e parziale dell’azione storica concreta della classe operaia. Decisivo a tal proposito è l’incontro con Raniero Panzieri e la nascita dei «Quaderni rossi» (1961-1963), a cui egli contribuisce con alcuni articoli nei quali viene definitivamente compiuta l’identificazione della classe operaia con la forza propulsiva soggettiva del capitalismo. Negli articoli La fabbrica e la società (1962) e Il piano del capitale (1963), poi inclusi in Operai e capitale (1966), Tronti analizza le trasformazioni della società di massa e dei rapporti di classe, che propendono verso politiche d’integrazione della classe operaia (perseguite peraltro dallo stesso Pci), contro le quali il pensatore romano rivendica il radicalismo «di chi si rifiuta di collaborare allo sviluppo per bloccare la riproduzione del sistema. Viene quindi tracciata un’alternativa tra “classe operaia organizzata dal capitale” e classe operaia come “sua interna contraddizione”» (p. 17).
L’inversione del rapporto tra operai e capitale compiuta da Tronti in quegli anni segna la rottura con Panzieri e la nascita di «Classe operaia», esperienza che, negli ultimi due anni, dovrà convivere con una situazione politica bloccata, nella quale falliscono sia i tentativi riformisti del centrosinistra, sia le spinte operaistiche interne al Pci. Gli inediti di Operai e capitale, e in particolare il saggio su Marx, forza lavoro, classe operaia, contengono già alcuni ripensamenti relativi alla distinzione tra teoria e prassi, forza-lavoro e classe operaia, tattica e strategia, partito e classe, che si tradurranno, nella fase successiva, nel riavvicinamento di Tronti al Pci, nella misura in cui la lotta di classe dovrà essere condotta anche su un piano eminentemente politico e istituzionale.
Il riavvicinamento di Tronti al Pci nella seconda fase della sua attività (1968-1984) si fonda sulla valorizzazione teorica dell’«autonomia del politico», che conduce il pensatore romano a impugnare la formula-slogan «dal salario, al partito, al governo» (p. 22). Questa svolta politico-istituzionale ha le sue radici teoriche nello studio, condotto da Tronti negli anni delle rivolte studentesche, della scienza politica americana e della sociologia tedesca, nonché in quello di taglio storico-analitico delle lotte operaie negli Stati Uniti dopo la crisi del ’29 e della risposta che il New Deal è stato in grado di dare agli squilibri socio-economici della società americana. La “scoperta” del politico, «inteso come apparato statale in senso ampio, che comprende anche i partiti, il ceto politico, le culture politiche» (p. 24), segna l’allontanamento trontiano dal marxismo, per il quale il politico appartiene invece alla sovrastruttura sempre riducibile o comunque riconducibile alla struttura economica della società. Questo cambio di vedute presuppone dunque una critica del marxismo ortodosso attraverso la “lente” della crisi delle scienze europee, che permette a Tronti di superare l’iniziale “scientismo” per guadagnare definitivamente un punto di vista parziale sulla lotta politica di classe, più tardi declinato anche in chiave teologico-politica. Con l’autonomia del politico, la lotta di classe viene allora raddoppiata su un altro livello, che tuttavia, come notano i curatori, «finisce per instaurare rapporti ambivalenti all’interno delle classi stesse: se il New Deal combatte infatti la parte più retriva del capitale, costringendola a fare i conti con la classe operaia organizzata in sindacato, allo stesso modo la classe operaia vede una sua crescita organizzativa e di potenza, ma all’interno di un’iniziativa politica di tipo capitalistico» (p. 24).
In linea con queste considerazioni, il progetto politico trontiano di questo periodo consiste nel «rendere subalterno il capitale con i capitalisti dentro questa stessa società» (p. 280), esercitando su di esso un controllo di tipo politico. Tale progetto viene sviluppato nei primi anni ’70 e trova la sua prima sistemazione nel saggio Sull’autonomia del politico, trascrizione di un intervento a un seminario organizzato da Norberto Bobbio a Torino nel 1972: qui Tronti riflette sul fatto che «il potere espresso dalla classe operaia in fabbrica non si è tramutato in potere politico nello Stato» (p. 26), e individua la causa di ciò nella mancata traduzione sul piano politico di quanto è avvenuto sul piano sociale (che dunque si contrappone esplicitamente al potere politico). A dare man forte alle suddette tesi, in questi anni che coincidono con l’insediamento di Tronti all’università di Siena come professore di filosofia morale e politica, sono le analisi dei classici del pensiero politico e della storia moderna sviluppate nei suoi corsi, rivolte in particolare al Seicento e all’Ottocento, e di cui i saggi su Hegel politico (1976) e Hobbes e Cromwell (1977) costituiscono importanti testimonianze. Dopo la pubblicazione de Il tempo della politica (1980), che riassume la riflessione del decennio precedente, Tronti svolge attività di rilievo nel comitato centrale e nella segreteria romana del Pci, e sarà proprio questa esperienza all’interno del partito a fargli prendere coscienza della crescente distanza tra teoria e prassi politica, che si tradurrà in un nuovo cambio di prospettiva.
Dopo l’esperienza politica nella dirigenza del Pci, nella terza fase della sua riflessione (1985-1998) Tronti pone l’enfasi più sulla comprensione che non sull’azione, quasi a testimoniare la necessità di riflettere, per «disperazione teorica» (citato a p. 37), sui fallimenti del movimento operaio e sulla sua stessa scomparsa sul piano politico e istituzionale dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Questa fase del pensiero di Tronti segna anche il suo avvicinamento al filone teologico-politico. Attraverso la forzatura teorica delle categorie schmittiane del politico, Tronti scopre infatti «l’esistenza di una dimensione “non politica” del politico» (p. 39): il politico non esaurisce l’ambito delle relazioni umane perché, al di là di esso, si dà una dimensione ulteriore, “trascendente”, che insiste sul politico e anzi lo determina da fuori. «Inizia in questa fase, quindi, la critica alla politica come immanenza totale, una direttrice di pensiero almeno in parte in contrasto con quella del realismo politico, che Tronti continuerà comunque a portare avanti. Questo binomio, inquieto e non pacificabile, di realismo e trascendenza caratterizzerà d’ora in poi le tappe del suo percorso» (p. 39). A partire da qui, la riflessione trontiana si svolge attorno ad alcuni nodi concettuali, che non possono essere qui approfonditi ma solo accennati, e la cui discussione sarà rimandata alle parti successive di questa recensione. Innanzitutto viene constatata una regressione del politico, determinata dalla progressiva tecnicizzazione e laicizzazione della politica; un sintomo significativo di tale spoliticizzazione è la riduzione della politica (e della religione) all’etica, che implica il disconoscimento dell’etica implicita nella politica in favore di un’etica esterna intesa come legge morale astratta e imposta da fuori. Continuando a indagare sul fallimento dell’esperimento sovietico, Tronti sviluppa inoltre una riflessione antropologica sul soggetto politico rivoluzionario, secondo la quale il fallimento della rivoluzione è dipeso da un errore nell’antropologia di Marx, sicché «attraverso quel buco antropologico del marxismo è passata tutta la rivincita del vecchio mondo» (p. 454).
La riflessione teologico-politica di questi anni approfondisce il tema “giovanile” dell’«uno travagliato dal due», da intendersi sia come contraddizione interna al sistema capitalistico (operai-capitale), sia come contraddizione interna alla classe operaia, che è insieme soggetto del capitalismo e sua negazione: programmatico, su queste tematiche, è il confronto tra Marx e Schmitt sul concetto di negazione, istituito in Karl und Carl (1998). Da tutte queste considerazioni risulta un quadro di generale sfiducia verso la politica, che infatti conduce il pensatore romano a decretarne il «tramonto» sul finire del secolo: l’unico modo per fare ancora politica consiste nel riflettere sul «periodo d’oro della politica novecentesca» (p. 45), quasi a voler rimarcare il primato del comprendere sull’agire che costituisce, come detto, il vero filo conduttore dell’ultimo trentennio dell’attività intellettuale di Tronti. Come sottolineano i curatori nell’introduzione, «la disperazione teorica – diversa dalla rassegnazione in chi per altri versi e posseduto dal demone della politica – sembra quindi imporre l’urgenza e l’imperativo di capire un mondo che non si può accettare ne riformare. Così al lampo del pensiero non segue il tuono dell’azione, perché non si danno tuoni in una stagione di avvenimenti senza eventi» (p. 50).
L’ultima fase del pensiero di Tronti (1999-2015) si apre simbolicamente col congedo dall’università di Siena nel 2001: in questo periodo egli assume la guida del Centro per la riforma dello Stato (2004) e viene eletto senatore nel 2013 per la coalizione di centrosinistra. La sfiducia nei confronti della politica si traduce politicamente in un «agire accorto», a cui si accompagna però, come recita il motto dello stesso Tronti, un «pensare estremo» (p. 50). La riflessione trontiana degli ultimi anni è infatti impegnata quasi interamente in un progetto di «critica della democrazia politica», che determina un nuovo approdo teorico radicale e stimolante, secondo cui «è la democrazia, in quanto società democratica, e non il capitalismo, la vera responsabile della sconfitta del movimento operaio, rea di aver liquidato la parte in nome della massa, indistinta e anonima, e d’aver convertito il protagonismo dell’operaio-massa nel conformismo del borghese-massa, sotto la dittatura del calcolo e della maggioranza» (p. 52). Il criterio quantitativo su cui si basa la democrazia ha uniformato politicamente le classi, dissolvendo nella massa la loro carica soggettiva, negativa e parziale, e instaurando la populistica tirannia dell’opinione pubblica.
Diventa allora fondamentale ripristinare le soggettività politiche perdute, e per farlo è necessario recuperare «l’opposizione duale che è essenziale alla politica» (p. 56) attraverso la teologia politica, un compito al quale è dedicato il volume Il nano e il manichino (2015), dal quale è tratto il saggio sul Frammento teologico-politico di Benjamin. Si tratta di «ridare forma alla politica attraverso il conflitto» (p. 62), recuperando la coscienza della contraddizione con uno sguardo all’indietro, rivolto al «lascito del passato, quel passato tramandato dai comunisti – gli unici che davvero riuscirono a far paura al capitale» (p. 63). Tuttavia, a parere di chi scrive, il richiamo al passato non è forse dovuto soltanto all’impossibilità, per l’individuo Mario Tronti, di intraprendere nuove sfide, ma anche – e soprattutto – all’impossibilità strutturale di far coincidere il pensare estremo con l’agire accorto, la teoria con la prassi, magistralmente sintetizzata nel paradossale e disperato rovesciamento dell’adagio di Weber: «Tentare il possibile per raggiungere l’impossibile» (M. Tronti, Non si può accettare, Ediesse, 2009, p. 96).