L’ultimo Tronti. Crisi della prassi politica, critica della democrazia e principio speranza
- 15 Ottobre 2019

L’ultimo Tronti. Crisi della prassi politica, critica della democrazia e principio speranza

Scritto da Vittorio Rebora

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Il contributo che qui presentiamo si inserisce in una collaborazione con Prospettive italiane, gruppo di ricerca promosso da alcuni studenti di filosofia dell’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, inaugurata da una recensione a Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015) di Mario Tronti, curato da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat e proseguita da tre articoli che ripercorrono la densità teorica del primo periodo della riflessione trontiana (1958-1967) e la riflessione di Tronti del decennio tra il 1970 e il 1980 e il pensiero di Mario Tronti tra il 1985 e il 1998. Questo contributo prende in esame riflessione speculativa dell’ultimo Tronti (2001-2015).


I saggi raccolti sotto il titolo Pensare il Novecento, composti nel periodo tra il 2001 e il 2015 rappresentano il punto di arrivo della riflessione filosofica di Mario Tronti. Si tratta di un percorso che ha visto davanti a sé la fine del movimento operaio, grande protagonista della storia del Novecento. Un contesto di sconfitta, dunque, a cui si accompagna la crisi della politica come azione diretta sul sociale, la cancellazione omologante di ogni ‘differenza’, e si raccolgono i frutti di quello che, come lo stesso Tronti sostenne alcuni anni prima, fu l’errore da parte del comunismo di aver presupposto un modello umano che in realtà aspettava di essere raggiunto, vale a dire quello di un uomo caratterizzato da una virtù naturale. Tronti coglie la fine della classe operaia nell’avanzare del processo di accrescimento del mondo borghese tipico della democrazia, la quale si caratterizza per la sua componente antropologica che salda l’homo oeconomicus con quello democraticus, e all’interno del quale si profila una dissonanza tra il pensare e l’agire. Una crisi dunque politica da una parte, e antropologica dall’altra.

Quella dell’ultimo Tronti è una fase di pensiero che, risentendo di influenze della fase tra il 1985 e 1998, in cui si era già delineata una differenza tra il ‘demone della politica’ e il ‘Dio della storia’, e quindi di una particolare attenzione per le tematiche teologiche, sembra incorporare quello schema di dualità mai risolta che caratterizzava fin dai primi anni della sua produzione degli anni Cinquanta e Sessanta tra classe operaia e capitale in un modo diverso: il «dentro e contro» di allora, si riflette ora nella dialettica tra ‘politica’ e ‘destino’, connotandosi di una componente speculativa ed escatologica entro cui si instaura una ‘trascendenza della politica’ tesa a rovesciare utopisticamente l’ordine esistente.

Il saggio Politica e destino (2001) si apre con la premessa che colui che scrive «pensa per agire», e quindi si assume la propria responsabilità nel tentativo di modificare il mondo circostante (p. 564). Tuttavia, da questa presa di posizione emerge una dicotomia fondamentale tra ‘politica’ e ‘destino’. Cosa si intende qui con questi due termini? Tronti osserva che nella storia della filosofia, da Platone a Hegel, lo scopo della politica non risieda tanto nel motivo di tenere assieme gli uomini, ma nel modo in cui farlo. Eppure, le azioni politiche si scontrano con il destino, laddove con esso non si intende «sorte necessaria», quanto piuttosto «Schicksal» (p. 565). Sarà proprio questo il termine su cui si giocherà l’analisi trontiana della condizione dell’uomo occidentale contemporaneo, il quale, sarebbe rimasto «senza volontà» (p. 568). Citando, infatti, la traduzione del frammento Freiheit und Schicksal del giovane Hegel, a opera dell’amico Cesare Luporini, vi si legge: «[…] il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché onora il negativo» (p. 568). Attualizzata, questa affermazione acquisisce un senso nella misura in cui l’uomo che soffre senza volontà è l’homo democraticus, modello antropologico derivante dalla spoliticizzazione dell’homo oeconomicus. Per sostenere con maggior forza la propria argomentazione, in seguito, Tronti annota la costatazione di Luporini per cui quello che Hegel chiama Begeisterung, è ciò che pertiene all’uomo nella propria naturalità e autenticità (p. 570). Asserendo che non si possa più parlare dell’idea di destino collettivo (Geschick) heideggeriano – comprensibile piuttosto nel contesto più ottimista della prima metà del Novecento (p. 571) – la tesi di Tronti si potrebbe riflettere in modo cangiante nell’idea per cui la politica contemporanea non sia più ‘creazione’, ma un ‘rispecchiamento’ passivo di eventi (p. 566).

Nel momento in cui la politica è il destino di una singola parte politica, i problemi dell’Età contemporanea con cui bisogna fare i conti sono la crisi del movimento operaio, uno dei massimi protagonisti della storia del Novecento, definito da Tronti «l’unica figura escatologica in grado di realizzare un moderno principio-speranza» (p. 583), e la settorializzazione delle scienze, ora al servizio di pochi.

Senza alcun intento retorico o estetizzante, Tronti sostiene che la bellezza della politica risieda proprio nel fatto che essa stessa sia ‘destino’, cioè che non può mai essere del tutto razionalizzata (p. 578). Ma in un’epoca in cui il capitalismo sembra essere diventato irreversibile e in cui il processo di omologazione ‘normalizzante’ sembra aver preso il sopravvento, la prospettiva di una prassi politica deve essere di matrice ‘creativa’ (p. 566).

È interessante notare come la riflessione trontiana si proietti anche sul piano più schiettamente antropologico già nel saggio in oggetto. Infatti, vi si legge che la politica in quanto tale abbia nietzschianamente bisogno del ‘Grande stile’ (pp. 578, 580). Non è perfettamente chiaro il motivo dell’uso di questa espressione. Tuttavia, nel tentavo di fornirne un’interpretazione, ci si può collegare ad un altro tema di vitale importanza, vale a dire quello della crisi della soggettività.

Infatti, in Lo spirito che disordina il mondo (2006, 16 novembre), ad un certo punto Tronti arriva ad enunciare che il dominio borghese abbia addirittura «reciso le radici dell’anima all’interno delle persone» (p. 615). Lo scenario che si staglia sullo sfondo dell’avanzamento ‘tecnico’ è, sulla falsariga del Der Arbeiter (1932) di Jünger, quello della reificazione e dell’omologazione. Questa crisi dell’individualità è inoltre presa in esame in L’eredità di quello che è stato (2005) e in Per la critica della democrazia (2005, gennaio 29). Nel primo saggio, è messo in luce un fattore che ha contribuito alla crisi suddetta, cioè il post-fordismo, il quale, oltre ad aver scomposto il lavoro del singolo, è riuscito anche a indebolire il legame sociale di classe, vanificando e rendendo vacua la distinzione tra operai e padroni (p. 597). Proprio qui, Tronti scrive: «La singolarità è concessa nel privato ma è negata nel pubblico» (p. 608). Bisogna, quindi, risalire alle radici di questo processo.

Criticando l’attuale funzionamento delle istituzioni vigenti, Tronti sostiene che la democrazia sia una sorta di «Giano bifronte» in cui collimano «pratica di dominio» e «progetto di liberazione» (p. 602). Questa vocazione al dominio è data dalla tendenza della democrazia a voler cancellare ogni differenza, segno che per Tronti è invece espressione di libertà (p. 604). Le ragioni di questo processo, si possono rinvenire in una frase di Carl Schmitt tratta da Dottrina della costituzione (1928): «La democrazia è una forma di stato che corrisponde al principio di identità; […] è l’identità dei dominati e dei dominanti» (p. 293). Ma al giorno d’oggi, invece, essa si può a buon diritto definire «[…] il potere di tutti su ognuno […]» (p. 607). Si tratta, in vero, di un meccanismo che, pur unificando tutti i fattori antagonisti, non riesce a conciliarli in un modo armonico che renda possibile lo sviluppo dialettico della storia.

Per descrivere ancora meglio questa condizione, Tronti, in Lo spirito che disordina il mondo, dipinge la democrazia come un «disordine non spontaneo» (p. 622). Il problema dell’ordine è da sempre presente in tutta la storia della filosofia e, come spesso accade, in politica si palesa nel rapporto armonico tra la propria interiorità e l’esterno. Da un lato è quindi necessaria la politica come fattore di ordine sociale e dall’altro la ‘spiritualità’, laddove con la prima si intende agire sul mondo, mentre con la seconda si cura il proprio «foro interiore» (p. 611).

Salta all’occhio immediatamente un tema molto dibattuto in Età contemporanea, cioè la distinzione tra ‘pubblico’ e ‘privato’: se in Età moderna si poteva parlare del binomio tra vizi privati e virtù pubbliche, ora – osserva Tronti – si ha un «rovesciamento del binomio: vizi pubblici e virtù privata, nel senso che, di fronte alla condizione non entusiasmante della politica, a volte ci si vanta, o si è costretti a vantare, la frequentazione di un retroterra di rispetto, di dignità» (p. 612).

A stagliarsi su questo sfondo, inoltre, non è solo la distinzione appena accennata, ma anche il «fondamentalismo democratico» (p. 613), e il passaggio dal «dominio della scienza» al «dominio della tecnica» (p. 614). Il primo fattore è riconducibile ad una confusione tra religione e politica, mediante il quale si giunge addirittura ad una servitù volontaria che delega il totale assenso a chi comanda. Per quanto concerne il secondo punto, viene spontaneo chiedersi in che cosa si differenzi in questo frangente la scienza dalla tecnica. Il tutto sta in una diversa concezione della ‘ratio’: se nel Rinascimento si affaccia l’idea di una «grande ragione rinascimentale» che contribuisce a un rinnovamento complessivo del genere umano attraverso l’avanzamento delle scienze, nel XX secolo questa si trasforma in una «piccola ragione strumentale» comandata dalla tecnica (p. 614).

Alla luce di quanto detto, infine, Tronti ravvisa in questo processo di ‘borghesizzazione’ una «non sufficienza del genere umano» (p. 613). Ciò che favorisce questo fenomeno è l’accelerazione del sistema generale, unita al modo in cui viene gestito il circolo economico fondato su produzione, circolazione, distribuzione e consumo.

Nonostante questo panorama presenti sfaccettature molto pessimistiche, Tronti, sembra intravvedere uno spiraglio di luce: nella conclusione di Lo spirito che disordina il mondo, Tronti suggerisce che per ‘disordinare’ l’ordine costituito sia necessario partire dal basso come gli eretici. Una possibile chiave di svolta è individuata, invece, nel saggio Fare società con la politica (2008, giugno 27), all’interno del quale viene auspicato il ritorno di una sinistra che abbia nuovamente il potere di influire sulla massa sociale.

Proprio nella fase di crisi dell’ultimo ciclo capitalista, è opportuno chiedersi cosa abbia lasciato il Novecento per quanto riguarda le categorie storiche di ‘destra’ e ‘sinistra’. Secondo Tronti, quando si parla di destra si è soliti riferirsi a quelle note strutture totalitarie come fascismo e nazionalsocialismo (p. 626). Il problema di questo accostamento – dovuto soprattutto alla cultura azionista che ha identificato il fascismo con la tradizione e l’antifascismo con la modernità – è che occulta l’attuale natura della destra ai giorni nostri. Stando al saggio di Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), in questa fase si sarebbe verificata una svolta neoconservatrice, la quale ha un andamento ciclico all’interno dell’evoluzione storica del capitalismo, e che rivendica il primato del politico sull’economico. La crescita della destra è stata favorita da fattori come la crisi del voto razionale, e da altri di natura psicologica come lo stress, l’insicurezza, la rassegnazione (p. 627). Ciò che deve fare la sinistra è agire sul sociale:

Il problema non è di radicarsi nel territorio, ma di cambiare il territorio. Una città, una provincia, una regione, sono la stessa cosa che il paese: non si amministrano, si governano. Fare società con la politica è direzione orientativa dei processi. È un lavoro di ardua progettazione e difficilissima esecuzione.

Infine, negli ultimi due scritti, cioè, Walter Benjamin: frammento teologico-politico (2010, marzo 18) e Un messaggio dall’imperatore (2015), Tronti esprime alcune forme del principio di salvezza e speranza per il futuro, cioè: il messianico da una parte, e il messaggio mai giunto a destinazione narrato da Kafka dall’altra. Il frammento di Benjamin si pone a livello storico sulla falsariga della teologia politica di Schmitt e presenta influenze che gli derivano da Bloch, in particolare, da Lo spirito dell’utopia (1918) e da Thomas Müntzer (1921). In questi due scritti blochiani traspare innanzitutto una rivolta nei confronti della mera fattualità del presente, espressa nelle frasi «io sono, noi siamo» (Bloch, Spirito dell’utopia, p. 3) o «noi vogliamo essere soltanto con noi» (Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, p. 29). La vera importanza del messianico consiste nel congiungere il teologico e il politico senza che esso si riassuma in una teocrazia, e nello stesso tempo «compie ogni accadere storico, introducendo nella storia vincente delle classi dominanti la scintilla della speranza, patrimonio delle classi oppresse» (p. 642) Come avviene questo? Facendo riferimento a un altro testo benjaminiano del 1920-21, Per la critica della violenza, Tronti menziona la distinzione tra la violenza mitica, che precede la formazione del diritto e dello stato d’eccezione, e la violenza divina, la quale ‘disordina’ l’istituzione esistente, e lo fa partendo dal basso, dalle classi sottomesse (p. 639). Si tratta di un disordine, questo, che cancella la distinzione «tra l’alto e il basso, tra il sopra e il sotto, tra dominanti e dominati» come avrebbe voluto Marx, il quale, secondo Benjamin avrebbe secolarizzato esattamente il tempo messianico di cui si è parlato (p. 644).

Ne Il messaggio dell’imperatore, titolo di un racconto di Kafka del 1917, coevo, tra l’altro, alla scrittura delle Tesi di aprile di Lenin, Tronti mette in evidenza nuovamente la speranza permanente per la classe operaia: il messaggero riceve dall’imperatore morente un importantissimo messaggio da consegnare, ma non riesce a uscire dal palazzo occupato da tanta gente in continuo caotico movimento, simboleggiante la condizione del capitalismo odierno. Pur non essendo riuscito nel proprio intento quel messaggio permane e il passaggio del messaggero ha scosso la coscienza delle persone all’interno del palazzo creando scompiglio: «Che cosa è mancato al movimento operaio? I Padri del deserto ci sono stati. Non sono stati ascoltati. Ma non è questo il loro compito: l’ascolto da parte del proprio tempo. No, è piuttosto il seme gettato nel campo del futuro» (p. 651). Ciò che è mancato a quel messaggio è l’istituzionalizzazione di una forza politica; e nell’esprimere questo pensiero (apparentemente sorprendente) Tronti si riferisce alla Chiesa. Quest’ultima non è, citando le parole di Papa Benedetto XVI, totalmente pura, ma è premixta. Nello stesso modo in cui si sono rivelate una Chiesa di Cristo e una dell’Anticristo, così la storia è per Tronti fatta di uno Stato di buoni e di malvagi nello stesso corpo politico e della politica. Per trasformare la vita occorre adottare quella chiarezza dello sguardo che getti luce su quell’irriducibile ‘mistero di iniquità’ della condizione umana, e «[…] con la pace nel cuore, combattere senza speranza di revelatio definitiva alla fine dei tempi» (p. 652).

In conclusione, le trasformazioni dell’Età contemporanea, inducono a domandarsi su quali basi si possa non accettare e nemmeno riformare la situazione del presente. Se non è più possibile parlare di libera individualità, diventa impensabile agire politicamente, soprattutto considerando che nel contesto attuale la democrazia cancella ogni differenza. La grande contraddizione che si staglia su questo sfondo è che la democrazia in quanto tale dovrebbe fondarsi su un’uguaglianza di diritti, che, a sua volta, ha il compito di conservare la pluralità, e quindi la differenza. Invece, ciò che si prospetta ora è la cancellazione di ogni diversità all’interno di un quadro di omologazione che coinvolge l’essere umano persino nella sua interiorità, alienato da un consumismo che sembra indurre le persone a non avere più il controllo della propria libertà. Questo problema di natura antropologica si proietta chiaramente anche sul contesto politico, poiché la politica è schiava di meccanismi che non hanno nulla a che vedere con la prassi diretta sul sociale, ma si riduce a mera amministrazione burocratica. Va da sé, che con l’avvento di questa crisi della democrazia, anche la storia non è più analizzabile in un’ottica di opposizione dialettica tra movimenti politici, e la scomparsa del movimento operaio dalla scena si mostra apparentemente come un segnale di una fine della politica come il Novecento aveva conosciuto.

Occorre, invece, uno sguardo critico nei confronti del presente nel tentativo di frenare questo declino, e per favorire ciò, è necessario focalizzarsi sul problema della libertà, la quale, a sua volta, non può in alcun modo rinunciare ad un’ideale di rinnovamento dell’individuo. Un tale rinnovamento all’interno di questo contesto non può che passare attraverso la libertà dello spirito, una libertà che muove dal basso verso l’alto al di sopra della sterilità del presente.

Nel tentativo di riprendere la domanda sul significato di ‘Grande stile’, si può constatare che, se è necessaria una speranza per ribellarsi all’atrofizzazione del mondo, questa deve giungere non solo alle classi oppresse, ma anche al singolo individuo, il quale dove essere il grado di trovare quella che nel suo omonimo saggio del 1999 James Hillam definisce «la forza del carattere». E nella misura in cui Nietzsche, nel celeberrimo aforismo 290 della Gaia scienza sostiene che una sola cosa sia necessaria, cioè «‘Dare uno stile’ al proprio carattere», il tentativo di agire sulla trasformazione del singolo in modo che possa sviluppare una propria libera e forte volontà potrebbe portare ad un adeguato compimento di una nuova prassi politica messa in crisi dal nichilismo che ha lasciato il Novecento. E nella misura in cui la profezia di cui parla Tronti nei suoi ultimi scritti non si esaurisce in un vano sogno utopico, ma rappresenta piuttosto la congiunzione tra ciò che viene detto oggi e quello che sarà in futuro, la speranza di cambiare l’ordine esistente è oggi ancora in vita.

Scritto da
Vittorio Rebora

Laureato in Scienze filosofiche presso l’Università di Bologna con una tesi sulla ricezione del concetto nietzscheano di “Grande stile” in Heidegger e Jünger. Membro del gruppo Prospettive Italiane. Si è occupato principalmente di estetica prediligendo come periodi storici di riferimento la filosofia classica tedesca e l’età contemporanea (con particolare attenzione all’area tedesca e italiana).

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