“L’invenzione del diritto” di Paolo Grossi
- 10 Luglio 2018

“L’invenzione del diritto” di Paolo Grossi

Recensione a: Paolo Grossi, L’invenzione del diritto, Laterza, Roma-Bari 2017 (III rist. 2018), pp. 238, 24 euro (scheda libro)

Scritto da Riccardo Delussu

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L’invenzione del diritto è un volume che raccoglie le riflessioni più recenti di Paolo Grossi, Presidente emerito della Corte costituzionale e fondatore del Centro studi per la storia del pensiero giuridico moderno, al quale gli studiosi devono oltre 100 monografie e i Quaderni fiorentini per la storia del diritto moderno[1].

Si tratta di una raccolta di scritti che ruota sull’idea del pluralismo delle fonti di produzione del diritto. Secondo l’autore, dopo decenni di dominio della legge intesa come unica espressione autorizzata della volontà popolare, la scienza giuridica deve liberarsi della “pigrizia” che tende a caratterizzarla, abbandonare la convinzione che lo Stato sia l’unico soggetto autorizzato a creare norme giuridiche e dedicarsi all’invenzione del diritto. Il significato di invenzione per Grossi non è quello di uso comune, ma quello che in latino avevano il verbo invenire e il sostantivo inventio: cercare per trovare qualcosa. Tra i compiti del giurista vi è dunque quello di reperire il diritto che si forma spontaneamente nell’ambito della società.

Nello sviluppare il suo discorso in prospettiva storica, Grossi individua tre periodi caratterizzati da altrettante tendenze, che tendono inevitabilmente a sovrapporsi nei momenti di transizione: romano-medioevale, moderno e pos-moderno. Il primo periodo comprende l’esperienza formativa del diritto romano e quella medievale, tutt’ora alla base degli ordinamenti di common law: nei quali, almeno in teoria, le sentenze dei giudici prevalgono nei confronti della legge dello Stato.

Si tratta di ordinamenti «alieni dal concepire il giuridico intrinsecamente vincolato al potere politico ed espressione di questo, alieni da una visione autoritaria (perché meramente potestativa) che lo collega a un comando piombante dall’alto sulla società chiamata unicamente all’obbedienza. In ordinamenti così contrassegnati è, invece, chiaro il nesso genetico tra società e diritto, la sua intima storicità e, quindi, il suo carattere di tessuto ordinante di quella, realizzandosi in una articolazione pluralistica che coglie, come protagonisti, accanto al legislatore, i giuristi, coloro che sanno di diritto, che sono esperti di un sapere specifico e anche tecnicissimo […] tutti, ovviamente, impegnati in una attività di invenzione» (p. 115).

 

L’invenzione del diritto tra modernità e pos-modernità

La modernità giuridica rifiuta nettamente siffatta concezione, in nome di una visione incentrata sulla volontà statale, autoritaria (sia pure formalmente legittimata), del diritto, ritenuto strumento indispensabile per l’efficace esercizio del potere supremo, che si propone dunque come mera creazione dello Stato. A giustificare tale visione vi sarebbe un eccesso di astrattismo, che si manifesta nelle ricostruzioni dello stato di natura fatte dai filosofi, per i quali lo stato è una creazione artificiale che deve correggerne i difetti (Hobbes) o tutelarne i pregi (Locke). La legge è dunque uno strumento altrettanto artificiale: creato dalla ragione umana in base a una ricostruzione ideale e non storica dei rapporti sociali.

Secondo Grossi, tale periodo, che si distende tra fine Seicento e fine Ottocento, può essere correttamente contrassegnato come il tempo delle “carte dei diritti”, con le quali la borghesia rompe l’ordine precedente basato sul diritto di nascita, per imporre una visione di società nella quale tutti sono formalmente liberi e uguali ma solo alcuni lo sono realmente: «Qui si avverte tuto il peso dello Stato moderno quale Stato mono-classe, dove l’astrattezza fa parte di una precisa strategia e dove il ragionar su modelli ha il significato di non incidere affatto a livello di esperienza e di operatori immersi nella quotidianità. L’esempio più puntuale è offerto da un principio di uguaglianza sbandierato senza risparmio in tutte le carte dei diritti: una conquista, senza dubbio, se vi si coglie la rottura con gli iniqui soffocamenti cetuali dell’antico regime, ma nulla più che una decorazione per il nullatenente che rimane tale e che, anzi, non avendo più vincoli di ceto a limitarlo nella sua libera azione, potrà essere bollato di pigrizia o di inettitudine per la sua permanente povertà» (p. 11).

La tragedia della prima guerra mondiale segna l’inizio della fine per questo periodo. Il costituzionalismo contemporaneo, di cui Weimar è stata un’anticipazione, ci proietta infatti in quello che Grossi definisce il pos-moderno. Qui l’attenzione dell’autore si concentra sulla Costituzione italiana e sul suo momento genetico, racchiuso negli atti dell’Assemblea costituente.

In tale contesto viene dato particolare risalto alla figura di Giorgio La Pira, professore di Diritto romano a Firenze, ottimo conoscitore delle dinamiche tipiche del primo periodo individuato da Grossi. La costituzione è dunque: «il risultato della lettura attenta che i Padri costituenti hanno compiuto, in due anni di formidabile lavoro collegiale, nel tessuto della società italiana in rinnovamento, per individuarvi valori e interessi diffusi e condivisi, trasformali in principii, assumendo questi a trama di una carta fondamentale» (p. 66). Di conseguenza, essi: «non crearono nulla, ma inventarono in quelle radicazioni intime della società il tessuto connettivo dei futuri 139 articoli della Carta» (p. 67). Protagonista della costituzione non è più la figura ideale del giusnaturalismo ma la persona nella sua concretezza, i cui diritti e doveri non sono frutto di astrazione ma estratti dalla realtà storica e posti a fondamento della Repubblica.

A questa attività ricognitiva non potevano certo sfuggire quei corpi intermedi che la modernità giuridica pretendeva di sacrificare: in nome del rapporto il più possibile diretto tra Stato e cittadino. Fu lo stesso La Pira a porre in evidenza come: «è proprio questa diversa concezione pluralista – pluralismo economico, giuridico, politico – la concezione che corrisponde alla struttura organica del corpo sociale. Perché la realtà di questo corpo sociale non è costituita soltanto di singole persone: le persone sono naturalmente raggruppate in tanti organismi che sono elementi essenziali epperciò ineliminabili del corpo sociale: la comunità familiare, quella religiosa, quella professionale – che sono altrettanti elementi costituzionali della società – esistono nel corpo sociale e lo articolano e lo definiscono» (p. 69).

Le interazioni che si sviluppano all’interno delle formazioni sociali vanno così a caratterizzare lo sviluppo della persona, a definire e cercare di soddisfare i suoi bisogni materiali e spirituali. Il ruolo dei corpi intermedi non si esaurisce però nel loro rapporto con gli individui che li compongono: le interazioni che si sviluppano al loro interno hanno anche la capacità di creare diritto. Questa idea – che per chi rifiuta il monopolio statale della produzione giuridica assume i contorni della constatazione – è alla base della teoria dell’ordinamento di Santi Romano, e rappresenta, secondo Grossi, il principale punto di contatto tra l’esperienza medievale e il costituzionalismo pos-moderno. In entrambi i casi la materia giuridica è prodotta dalla società e non soltanto dal potere pubblico, ed è dunque anche, talvolta soprattutto, ai rapporti sociali che bisogna guardare per “inventare” il diritto.

Si spiegano così le raccomandazioni che Grossi rivolge agli interpreti e in particolare ai giudici, invitati ad abbandonare le vesti di meri esegeti, chiamati a “fare” la volontà del legislatore adattando i fatti alle norme, per assumere quelle di inventori del diritto, perché: «Oggi, in questo nostro tempo giuridico pos-moderno, il giudice, attraverso operazioni squisitamente valutative, deve comprendere il caso da risolvere e adattare la norma al fatto di vita, individuandone la più adeguata disciplina» (p. 125). Si tratta di recuperare la tradizione più nobile dell’ermeneutica giuridica, quella che Gadamer prese a modello per la propria epistemologia, per cui: «il testo non è affatto una realtà autosufficiente, ma, al contrario, ha compiutezza solo con l’interpretazione; l’interpretazione/applicazione, togliendo generalità e astrattezza alla norma, la immerge nel concreto della storia quotidiana, la rende diritto vivo in stretta comunicazione con l’attualità» (p. 88). In quanto soggetto più vicino alla materia giuridica che prende forma dall’interazione sociale, l’interprete ridiventa protagonista del procedimento di invenzione del diritto: «All’interno del novero degli interpreti – fra i quali (l’interpretazione autentica a parte) non esito a dare un posto di rilievo allo stesso legislatore, accanto a scienziati notai e avvocati – un posto primario spetta oggi, senza alcun dubbio al giudice. Precisando, però, chiaramente: giudice ordinario; e aggiungendo anche: giudice civile; mentre una diversa considerazione la si deve fare per il giudice penale, essendo la materia penale in stretta connessione con la sicurezza pubblica (nonché con le libertà dei cittadini Nda) e conservando qui una peculiare rilevanza la riserva di legge» (p. 124). Perfino il legislatore sembra aver preso atto di questa rivoluzione (nell’accezione latina di revolutio – onis “rivolgimento, ritorno”). Il Codice del processo amministrativo del 2010, è infatti improntato alla legislazione per principi, lasciando agli interpreti il compito di definirli al momento dell’applicazione.

 

L’invenzione della Costituzione

Queste considerazioni possono essere ricondotte nell’ambito del neocostituzionalismo, specie nel momento in cui Grossi valuta con favore l’estensione del giudizio di costituzionalità alla cognizione dei giudici comuni (in questo caso anche di quelli penali) sulla scia di argomentazioni che ricordano il Diritto mite di Zagrebelsky[2]. Professionalità, imparzialità e ragionevolezza sarebbero infatti sufficienti a bilanciare quello che per alcuni continua a essere il rischio di concentrare troppi poteri nelle mani dei magistrati. A queste fiduciose considerazioni Grossi ne aggiunge delle altre, che definisce elementari, relative alla necessaria partecipazione delle parti, all’obbligo di motivazione dei provvedimenti, alla possibilità d’impugnazione e al controllo dell’opinione pubblica sull’attività giudiziaria. Attraverso questi strumenti il diritto prodotto dall’interazione sociale verrebbe ricondotto ai valori costituzionali, mantenendone in tal modo il carattere unitario e assicurandone la certezza. Si tratta di rimedi che si possono ritenere più o meno validi a seconda delle preferenze dell’interprete: stando attenti a non sostituire al dogma della volontà del legislatore quello della ragionevolezza del giudice.

Rispetto a altri testi d’ispirazione neocostituzionalista le riflessioni di Paolo Grossi hanno il merito di porre in evidenza la formazione ascendente del diritto. Da questa prospettiva, il suo scaturire dai rapporti sociali rende, sotto certi profili, indifferente che a tradurlo in norma sia il legislatore o il giudice. Il discorso è suggestivo e valido sotto il profilo storico. Bisogna però evitare di recepirlo in maniera acritica andando oltre le intenzioni dell’autore, che non a caso tende a circoscriverlo nell’ambito del diritto privato, nel quale il potere pubblico è sempre stato ben disposto a recepire gli apporti dell’autonomia dei contraenti.

Porre l’accento sulla spontaneità comporta infatti dei rischi, come quello d’infrangere la legge di Hume che impone la separazione tra la sfera dei valori e quella dei fatti. Non tutto quello che nasce dall’interazione spontanea è infatti positivo per la società o per alcuni dei suoi membri: la prassi può essere strumento di evoluzione, di conservazione o addirittura di involuzione. Anche per questo motivo la Costituzione non si è limitata a prendere atto dei valori dominanti nell’Italia dell’immediato dopoguerra ma, al contrario, ha inteso ricostruire la società su basi completamente diverse rispetto non solo al passato ma anche al presente di allora. La mera ricognizione dei rapporti familiari, ad esempio, avrebbe impedito l’approvazione di norme costituzionali che, anche per la resistenza incontrata, hanno dovuto attendere circa 30 anni per trovare piena attuazione con la riforma del diritto di famiglia del 1975.

Il carattere dinamico del testo costituzionale, ossia la sua capacità di adeguarsi al mutare dei valori sociali, è inoltre tra i presupposti degli art. 49 e 50, rispettivamente dedicati alla possibilità di concorrere a determinare la politica nazionale, mediante i partiti politici, e a quella di rivolgere petizioni alle Camere, per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità. Nella prospettiva costituzionale, che resta di chiara impronta positivistica, i corpi intermedi non sono solo lo strumento per esprimere la pluralità e la spontaneità delle forme sociali, ma anche quello attraverso il quale questa molteplicità viene inserita nell’ordinamento statale, permettendo all’attività degli organi legislativi e non solo, di tenere in considerazione i mutamenti della società nel costruire un impianto normativo efficace.

L’impianto costituzionale prevede, tramite la mediazione tra società e partiti, la continua sintesi tra i valori che scaturiscono dai fatti e quelli che derivano dagli ideali. Da questo punto di vista le riflessioni di Grossi rappresentano l’ennesimo indice della crisi della politica, intesa come attività rivolta alla trasformazione della società in nome di un ideale. Questo perché affidare il diritto a chi è più vicino ai fatti implica il sacrificio dell’idealità del primo in nome della concretezza dei secondi, col rischio di rinunciare al formidabile strumento di evoluzione sociale rappresentato dalla legge dello Stato.


[1] Il volume si chiude con la bibliografia completa di Paolo Grossi, a cura di Marco Geri.

[2] Sul tema del confronto tra neocostituzionalismo, inteso come erede del giusnaturalismo, e positivismo giuridico, mi sia consentito rinviare al mio La certezza del diritto come illusione necessaria? giusnaturalismo e positivismo giuridico.

Scritto da
Riccardo Delussu

Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate presso l'Università Sapienza di Roma. Consulente politico, saggista e giornalista. Si occupa di Teoria e Storia delle costituzioni e dei partiti.

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