Scritto da Massimo Amato, Lucio Gobbi
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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
Five year plans and new deals
wrapped in golden chains.
And I wonder still I wonder
Who’ll stop the rain
Creedence Clearwater Revival
L’iniziativa di «Pandora Rivista» di raccogliere riflessioni in merito al dibattito aperto da Emanuele Felice e Giuseppe Provenzano con il breve saggio Perché la democrazia è in crisi, costituisce un’occasione preziosa di un franco scambio di opinioni sull’analisi, per nulla scontata e mai del tutto chiarita, del rapporto tra socialismo e liberalismo.
Il contributo di Felice e Provenzano prende, come punto di riferimento e di paragone per pensare a una ripresa delle politiche sociali, i cosiddetti “Trenta Gloriosi”, ossia il periodo intercorso tra la fine della seconda guerra mondiale e la stagflazione degli anni Settanta che costituirà il trampolino di lancio per la controffensiva neoliberista prima anglosassone e poi continentale. I “Trenta Gloriosi” sono presentati come «il trionfo della democrazia liberale, non solo nel mondo anglosassone dove era nata, ma pure (e forse ancora di più) in buona parte dell’Europa continentale: qui è dove essa più compiutamente ha dimostrato di potere evolvere verso un assetto socialdemocratico che, oltre alla crescita economica e accanto ai diritti civili, si prefigge di garantire, con ambizione universalista, anche i diritti sociali».
L’enfasi sull’importanza di tale periodo per l’interpretazione degli accadimenti economici e politici odierni è, storicamente parlando, ben riposta. Pertanto, anche l’analisi qui proposta parte da un’interpretazione dei “Trenta Gloriosi” che mira a mettere in evidenza, accanto agli aspetti positivi sottolineati da Felice e Provenzano, alcuni elementi “critici”. Proprio la meditazione storica che oggi esigono quegli anni può infatti mostrare che essi non rappresentano un modello che possiamo riprendere acriticamente, come se il trentennio neoliberale che si sta ingloriosamente chiudendo potesse esser interpretato come una “parentesi irrazionale”.
In questa prospettiva, è fondamentale mettere in luce alcune premesse storiche, soprattutto dal punto di vista economico e istituzionale. Il sistema di Bretton Woods prevedeva infatti 1) che gli stati fossero liberi di determinare le proprie politiche monetarie, e in ultima istanza anche fiscali, con l’obiettivo di sostenere la crescita dei PIL nazionali, 2) che i tassi di cambio tra le loro valute fossero fissi (e aggiustabili solo in particolari circostanze) al fine di sostenere la crescita del commercio internazionale, e 3) che, proprio per consentire i primi due obiettivi reali, i movimenti puramente finanziari di capitale tra paesi fossero soggetti a forti restrizioni. Perno del sistema, il dollaro: ogni valuta era convertibile in dollari americani e solo quest’ultimi potevano essere convertiti in oro secondo un rapporto stabilito. Questo perché durante il decennio precedente gli Usa, accumulando surplus commerciali, avevano drenato una buona parte delle riserve auree mondiali.
Date tali premesse, due domande devono essere poste, insieme: 1) Perché il “sistema di Bretton Woods” fu in grado di garantire prosperità, crescita economica e un’espansione dei diritti sociali nelle economie occidentali? 2) Perché a un certo punto venne abbandonato?
Procedendo con ordine: innanzitutto, tale assetto istituzionale permetteva ai governi di utilizzare “policy mix” di politica fiscale e monetaria al fine di finanziare crescita economica e sviluppo tecnologico, e al contempo di assorbire gli shock. Le limitazioni ai movimenti di capitali stimolavano le borghesie nazionali a investire, direttamente o indirettamente, nella “economia reale”, e proteggevano le economie nazionali dalla volatilità degli investimenti internazionali di portafoglio. Cioè, anticipando in parte le nostre analisi, proteggendole da quegli investimenti che invece poi hanno dominato i trent’anni successivi, facendo dei mercati finanziari globalizzati un “senato virtuale”, in grado di decidere della sostenibilità delle politiche economiche nazionali.
Il sistema produttivo era quello della grande impresa fordista: un’impresa caratterizzata da produzione di beni durevoli con rendimenti di scala crescenti, che garantivano quindi quote sempre maggiori di sovrappiù, e nella quale era impiegata una forza lavoro altamente sindacalizzata. In tale contesto, la forte crescita economica era il fattore che permetteva di gestire la dialettica capitale-lavoro, ovvero, se vogliamo, di “civilizzare” la lotta di classe. In quel periodo fu infatti possibile l’aumento sia dei redditi da lavoro sia dei profitti, in una proporzione che certo dipendeva dai rapporti di forza tra le parti, ma creava tante meno tensioni quanto più la crescita era intensa e costante. In tutti i paesi occidentali si diffuse il suffragio universale (maschile e femminile) e ciò non fece altro che aumentare la rappresentanza delle istanze sociali e civili avanzate dai ceti popolari attraverso i grandi partiti di massa. Sullo sfondo, lo “stimolo competitivo” del socialismo reale, che suggeriva anche ai più retrivi la “pace sociale” come obiettivo politico.
Con questo assetto economico e istituzionale, i paesi del blocco occidentale affrontarono la prima fase della “guerra fredda”, in cui le fragilità del sistema sovietico venivano ancora coperte dalle grandi conquiste tecnologiche e militari, oltre che dal grande appeal esercitato dal marxismo nei paesi del “terzo mondo”, ormai affacciatisi all’indipendenza nazionale. In Europa il rapporto con il marxismo fu controverso. Gradualmente, la gran parte dei partiti socialisti, sempre più immersi nel gioco democratico, ebbero la loro “Bad Godesberg” e recisero nettamente il rapporto con questa ideologia. In Italia invece, e in misura minore in Francia, per una parte importante della sinistra il marxismo rimaneva l’unica lente attraverso cui leggere la Storia, e l’adesione al “gioco democratico” derivava da considerazioni sia di tipo tattico (non turbare l’assetto concertato tra Alleati e Unione Sovietica alla fine della guerra), sia di tipo teorico (si pensi all’abbandono del leninismo che il PCI ereditava dall’analisi teorica di Gramsci).
E tuttavia, tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta tale assetto entrò in una crisi irreversibile, pezzo dopo pezzo. Dal punto di vista del sistema monetario internazionale, gli americani dovettero scegliere fra continuare a sostenere la convertibilità aurea del dollaro e finanziare la Guerra Fredda, con il uso corredo di ingenti spese sia di warfare sia di welfare. Nell’agosto 1971, il presidente americano Nixon sospende unilateralmente la convertibilità aurea e instaura un sistema tipico di “finanza di guerra”: e cioè un “corso forzoso” a livello mondiale, pensato come temporaneo, ma che di fatto dura ancora oggi, e che apre la strada ai mercati finanziari globali.
Per parte sua, il sistema di produzione fordista entra in crisi a causa della saturazione dei mercati nazionali di beni industriali durevoli, con una domanda ormai assestata sulla sostituzione dei prodotti. Finiva l’epoca dei rendimenti di scala crescenti e della crescita (potenzialmente) infinita, e soprattutto basata sull’idea che l’aumento dei consumi privati fosse un bene per tutti, ivi comprese le classi popolari, e un vantaggio per il sistema. Cominciava un’epoca più turbolenta, sia dal punto di vista economico che politico, e segnata da una stagnazione potenziale.
Nei primi anni settanta i sistemi produttivi occidentali si trovarono inoltre a dover fronteggiare uno shock di offerta causato dalla crescita sostenuta del prezzo del petrolio. Senza indagare sulle cause, cosa che ci riserverebbe ulteriori soprese, il risultato fu un’inflazione generalizzata. Il combinato disposto dei due effetti, stagnazione e inflazione, si chiamò stagflazione.
Sul fronte sociale, verso la fine degli anni sessanta, le tensioni aumentarono sia tra gli operai sia tra gli studenti. Non appena i rendimenti di scala industriali calarono, la grande fabbrica, che era stata fino ad allora in grado di aggregare e di “addomesticare” anche i proletariati più rivoluzionari, a patto che le condizioni materiali aumentassero, divenne invece il luogo dello scontro. Il dispositivo di comando esercitato dal Fordismo, così come lo delineava Gramsci, al suo epilogo aveva formato – almeno in Europa ‒ una massa di lavoratori altamente sindacalizzati, concentrati e ormai consapevoli della loro forza elettorale, oltre che dei loro diritti costituzionali.
Contemporaneamente, fra 1967 e il 1968 esplose la protesta studentesca, che assunse in tutti paesi occidentali tratti antigerarchici, interclassisti, terzomondisti e ambientalisti. Il processo di cambiamento che emerse da quel movimento fu radicale sotto molteplici aspetti, ma in particolare nell’approccio al consumo e al lavoro, nei costumi sessuali e nei rapporti familiari.
Gli anni settanta furono un decennio di transizione da un modo di gestione del capitalismo fortemente “regolativo” a un altro invece ferocemente deregolativo. Prima di individuarne i punti di caduta, è bene enfatizzare alcuni tratti della transizione. Nel loro saggio, Felice e Provenzano mostrano come ancora per i “Trenta Gloriosi” alcuni cardini morali e politici del pensiero liberale classico fossero rimasti intatti e, anzi, ne avessero conosciuto una piena realizzazione. “Lo Svedese” di Roth non ha in fondo un’etica così diversa dal Thomas Buddenbrook di Mann. Le posizioni di Mill sulla progressività della tassazione dei redditi e delle eredità le ritroviamo nel Dopoguerra nelle Costituzioni nazionali e nei programmi dei partiti socialdemocratici. Il ruolo della famiglia nella società, così come le gerarchie familiari venivano ristabiliti dopo l’offensiva culturale scatenata dai totalitarismi, e con esso le psicopatologie familiari tipicamente “borghesi”. Il Beruf weberiano era perfettamente incarnato in figure come Mattei o Olivetti, laddove difficilmente riusciremmo a trovare figure analoghe nel contesto attuale. Alla fine degli anni sessanta, quell’approccio al mondo stava tramontando. Il ‘68 passò come un rullo compressore sia sull’etica borghese sia su quella del mondo operaio.
Pasolini e Lacan ci hanno lasciato delle importanti riflessioni sul mondo che stava cambiando: entrambi hanno mostrato che il discorso del capitalista era mutato e che il modello etico della rinuncia alle pulsioni in vista dell’accumulazione di capitale fosse stato definitivamente abbandonato. L’abbattimento di qualsiasi forma di Legge in nome di un godimento tanto immediato quanto però meccanicamente determinato, che portava con sé la sottrazione di ogni forma di mediazione tra il soggetto e l’oggetto, diveniva il nuovo mantra. E come non mancano di sottolineare i migliori già allora, l’alienazione prende la forma di una “libertà obbligatoria”. La liberazione delle pulsioni di godimento passa per una subordinazione ai meccanismi del mercato, il solo che sempre più appare in grado di soddisfare, “customizzando” l’offerta, ogni strato sociale, trasformandolo in target di consumatori. L’individuo diventa “moneta vivente”, e quindi paga la sua “libertà di consumo” con un asservimento crescente. Non è più il produttore che lotta per liberarsi, ma il consumatore che diviene “sovrano”: fino al punto che nei successivi decenni neoliberali la sistematica spoliazione dei diritti dei lavoratori viene condotta proprio in nome degli interessi del consumatore, rispetto ai quali nessuna concorrenza può apparire eccessiva o ingiustificata, se si trasforma in un potenzialmente facilitato accesso al mercato dei beni, almeno finché il potere d’acquisto del consumatore è garantito, se non dall’aumento del salario, almeno dal suo accesso facilitato al credito ‒ che, lo ricordiamo, è stato il maggior driver dello scoppio della crisi finanziaria del 2007.
Certamente, il ‘68 fu tante cose, molte delle quali continuano a meritare una valutazione positiva. Qui è sufficiente dire che è stato però anche la premessa che ha reso possibile la fase che il capitalismo ha vissuto fino alla crisi del 2007. Col ‘68 e la crisi del fordismo, l’immaginario e le istanze collettive dei lavoratori si sono trovate di colpo frammentate in nome di una miriade di rivendicazioni e di interessi particolari dei consumatori.
E col ‘68 inizia, soprattutto, una crisi del Keynesismo che pochi come Claudio Napoleoni hanno saputo vedere con chiarezza, in Italia, provando con franchezza a darne conto alla sinistra. Una crisi che inizia con la scoperta che il patto distributivo che regge il Keynesismo non può essere portato oltre un certo livello di compressione della remunerazione del capitale ‒ il quale, complice anche la saturazione dei mercati interni, cercherà mercati esterni, sia di sbocco sia per la produzione, attraverso una delocalizzazione che la globalizzazione in seguito alla caduta dei blocchi ha reso facilmente praticabile.
Il neoliberismo, e il subalterno desiderio della sinistra “post muro” di rendersi presentabile come “sinistra di governo”, hanno da una parte creduto alla promessa di efficienza che veniva dalla mobilità dei capitali, dall’altra hanno fatto propria la deriva di uno stile di vita basato sui consumi privati, che certo è stata cavalcata e rilanciata dal famoso “edonismo reaganiano” e dalla constatazione thatcheriana che “la società non esiste”, ma che è stata preparata dall’epoca precedente, il cui “sunny side” si chiama Stato Sociale, certo, ma il cui lato oscuro si chiama omologazione.
Lasciando la parola a Napoleoni, di cui sarà bene, soprattutto a sinistra, andare a rileggere gli accorati appelli che da indipendente rivolge a un PCI ormai incamminato verso “la svolta”: «Non si tratta tanto, a proposito di fallimento del riformismo, né di idee confuse né di insufficiente volontà: si tratta piuttosto del fatto che né la piena occupazione né le provvidenze del welfare state (anche preso nelle sue forme migliori) sono in condizioni di compensare i soggetti del fatto che essi, come soggetti produttori, sono totalmente assimilati a ciò che producono, cioè sono essi stessi prodotti; e del fatto, d’altra parte, che questa mancanza di compensazione si è finora espressa al più basso livello possibile, cioè come rivendicazione della massimizzazione dei consumi individuali, privati, intesa come acquisizione di libertà indipendentemente dai risultati che la politica economica andava conseguendo su altri terreni».
Napoleoni ci invita a pensare che il Welfare State, quand’anche concepito come compensazione, non può essere un obbiettivo in sé per la sinistra, perché non è in grado di produrre senso. Nel suo Discorso sull’austerità, Enrico Berlinguer poneva la questione sullo stesso piano provando a indicare una via dove il “produrre per il produrre” (ovvero ricordiamolo, il capitalismo) sia sostituito al produrre per i bisogni (ossia da un’economia realmente umana e sociale).
Con le parole di Berlinguer: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata. […] Lungi dall’essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell’austerità».
È indubitabile che oggi siamo alla fine di un altro ciclo, quello neoliberale. Dal punto di vista economico, come è sempre più evidente, perché la debolezza delle sue basi teoriche ha costruito un’economia tanto fragile quanto isterica. Dal punto di vista politico, perché la disattenzione al patto sociale su cui si è costruita ha reso le società attuali molto più esposte alla tentazione autoritaria e populista.
Vi è dunque bisogno di una rinnovata riflessione sui sentieri che la politica economica, e l’economia politica, dovranno reimparare a percorrere. E quindi vi è bisogno di una rinnovata riflessione della sinistra sull’alternativa allo status quo, capace di rinunciare alla tentazione di percorrere sentieri già battuti e di riconoscere le forme odierne dell’alienazione. Ma questo significa che la sinistra dovrà riprendere una riflessione su ciò che oggi può legare la questione dei diritti con la questione economica, e la questione della liberazione con il pensiero di una alternativa allo stato di cose esistente.