“Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?” di Graham Allison
- 29 Maggio 2019

“Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?” di Graham Allison

Recensione a: Graham Allison, Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?, Fazi Editore, Roma 2018. pp. 571, 25 euro (scheda libro)

Scritto da Alberto Prina Cerai

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Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da un’intensificazione della trade war tra Stati Uniti e Cina, che si protrae ormai da più di un anno e occupa, a buon diritto, uno spazio privilegiato nel dibattito internazionale. L’ultima mossa statunitense ha previsto restrizioni verso il colosso tecnologico cinese Huawei, salvo poi ripiegare su di un congelamento temporaneo in seguito alla velata ritorsione, da parte di Xi Jimping, di bandire l’esportazione verso gli USA di materiali strategici (Rare Earth Co.) per l’industria hi-tech, di cui la produzione cinese copre una fetta considerevole e, a dir poco, essenziale per la sicurezza economica americana.

Si tratta di un significativo salto di qualità nell’escalation tra i due colossi mondiali, entrati ora in un vortice pericoloso. La competizione per il dominio tecnologico e informatico rappresenta a tutti gli effetti la più grande sfida del XXI secolo. Tuttavia, fini e mezzi tendono a coincidere. La rete è, in senso lato, la cifra dei nostri tempi. L’interdipendenza globale la variabile di cui tutti gli attori in gioco devono tenere conto. Alcuni studiosi l’hanno definita una ‘interdipendenza armata’[1], laddove reti digitali, infrastrutture e punti nevralgici dell’economia mondiale diventano, mutualmente, strumenti per infliggere danni irreparabili alla controparte e nervi scoperti su cui infierire.

In tale scenario sempre più intricato, quale potrà essere lo step successivo in questa battaglia epocale? Dove risiedono le radici della rivalità sino-americana? Esistono precedenti nel passato che possano, nelle élite cinesi e statunitensi, instillare tanto un maggior senso di responsabilità quanto spargere i semi della discordia e dunque condurle verso uno scontro apocalittico? Quale potrà essere la miglior ricetta per una gestione pacifica o quanto meno contenuta dei rapporti tra Pechino e Washington? Ma soprattutto, la guerra è inevitabile?

Graham Allison – Professore emerito all’Università di Harvard e direttore del Belfer Center for Science and International Affairs – nel suo vibrante e dibattuto volume riattualizza la lezione della ‘trappola di Tucidide’ per cercare di rispondere a questi ed altri importanti quesiti in uno sforzo intellettuale e civico. Il fine è quello di stimolare una riflessione sul futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, auspicando che si possa deviare dalla «traiettoria corrente», nella quale «la guerra […] nei decenni avvenire non è soltanto possibile, ma più probabile di quanto non si sia disposti a credere».

 

Un ritorno della storia? Il pattern tucidideo e l’ascesa della Cina

Per decenni gli studiosi si sono divisi sul significato che lo storico greco assegnò alla guerra intercorsa fra Atene e Sparta. Ciò nonostante, le sue parole tuonano ancora oggi lapidarie: «Fu l’ascesa di Atene e la paura che quest’ultima instillò in Sparta che rese la guerra inevitabile». Una frase che ricorre più volte tra le pagine del libro, ed è a tutti gli effetti il manifesto metodologico dell’Autore. Sintetizzando i risultati più salienti di un progetto imponente[2], Allison dimostra i fondamenti teorici della ‘trappola di Tucidide’ come fenomeno storico, applicandolo poi come modello al caso studio sino-americano: «[…] riguarda il naturale quanto inevitabile scombussolamento che si genera quando una potenza in ascesa minaccia di spodestare il potere dominante» [p. 24]. Una serie di dinamiche – influenzate da quelli che l’Autore ricorda siano i ‘fattori tucididei’ quali «interessi, paura e onore» – che si sono ripresentate, seppur con attori, contesti e risultati cangianti, più volte nel corso dei secoli e con implicazioni davvero decisive nel plasmare gli affari internazionali.

A partire dall’analisi della guerra del Peloponneso, l’Autore raccoglie queste evidenze passando in rassegna alcuni dei sedici casi studio individuati in un arco temporale che si estende dalla fine del XV secolo sino alla Guerra Fredda. Dodici di questi si risolsero in un conflitto armato. In questo excursus vengono innanzitutto evidenziate le condizioni economiche e geopolitiche e infine discusse strategie e scelte che indussero potenze in ascesa come le Province Unite a sfidare l’egemonia commerciale britannica, o come il potere crescente degli Asburgo di Carlo V pose una minaccia al primato francese in Europa. A cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, l’embargo petrolifero degli Stati Uniti, imposto ad un ambizioso Impero giapponese che sfidò apertamente il dominio americano sul Pacifico, obbligò Tokyo a escogitare un attacco preventivo a Pearl Harbor. Un denso capitolo è infine dedicato ai prodomi della Grande Guerra, in particolare al riarmo navale e alle ambizioni imperiali della Germania di Guglielmo II che spinsero la Gran Bretagna a «vedere in Berlino il suo nemico principale» [p. 145]. Un giudizio che finì per «condizionare» (in termini militari e diplomatici) le azioni britanniche per preservare la sicurezza della madrepatria: l’equilibrio di potenza europeo.

Oggi, è la Cina di Xi Jimping a vestire i panni dello sfidante, ma in che misura? Il titolo del capitolo è inequivocabile: Il più grande attore nella storia del mondo. È curioso notare come negli eventi spartiacque nella storia contemporanea cinese gli Stati Uniti abbiano giocato un ruolo decisivo. Dal mancato intervento nella guerra civile, passando al riavvicinamento negli anni Settanta sino all’ingresso della Cina nel WTO. «Forse abbiamo creato un Frankenstein», affermò Richard Nixon, quasi a confermare il ‘paradosso dell’onnipotenza’[3]. Allison, aldilà dei sensazionalismi, ci fornisce una fotografia nitida e schietta dell’ascesa cinese. Cogliendo le brillanti analisi di Lee Kuan Yew, a suo dire l’osservatore della Cina più importante al mondo[4], ci guida in un’esaustiva disamina sui dati, i fatti e le correnti di pensiero per pesare l’impatto dell’impressionante crescita economica del Dragone. «Nel corso di una sola generazione», scrive, «una nazione che non compariva in nessuna delle classifiche internazionali è balzata al primo posto» [p. 37] al punto da spostare l’orizzonte strategico dell’establishment americano verso l’Asia-Pacifico. Una risposta che risulta già tardiva: stando alla maggior parte degli indicatori, la Cina ha già superato gli Stati Uniti. Si possono discutere i criteri d’analisi o cambiare la prospettiva di giudizio della crescita cinese – ‘relativa’ o ‘assoluta’ – ciò nonostante, dalla crisi finanziaria del 2008 «il 40% dell’intera crescita mondiale si è realizzato in un solo paese: la Cina» [p. 46]. Impugnare i numeri è, tuttavia, uno sguardo incompleto. Non rendono giustizia a tre successi strepitosi ottenuti a partire dal 1980: la guerra, vittoriosa, alla povertà (oltre mezzo miliardo di persone sollevate dalla povertà assoluta); il balzo in avanti in R&S (specialmente nei settori STEM), istruzione e tecnologia; l’imponente modernizzazione delle forze armate. Questi sono i tre pilastri su cui Pechino punta per riscrivere gli equilibri di potere nella regione, e non solo. Facendo della geo-economia lo strumento prediletto della sua politica estera, la rete d’influenza cinese diverrà così attrattiva «da indurre persino gli alleati storici dell’America in Asia a cambiare assetto, orientandosi dagli Stati Uniti verso la Cina» [p. 62]. Di fronte a questi smottamenti tettonici negli equilibri globali, per gli americani l’idea di essere spodestati dopo oltre un secolo di supremazia risulta ancora «inconcepibile».

 

Cultura, storia e guerra. Il futuro (incerto) delle relazioni tra Stati Uniti e Cina

Nella terza sezione, Allison descrive accuratamente le culture – politiche e strategiche – dei due paesi, facendo emergere differenze e affinità, con un riguardo speciale alle attitudini di governo nel confrontarsi con il mondo una volta palesatasi una ‘finestra d’opportunità’ per la leadership globale. Il flashback ci riporta all’inizio del XX secolo, quando il Presidente Theodore Roosevelt si accingeva a consolidare il controllo sull’emisfero occidentale e a proiettare gli Stati Uniti nelle prime avventure oltreoceano. «Prima e dopo di lui», scrive Allison, «nessun presidente è mai riuscito a influenzare così profondamente la consapevolezza del paese circa il proprio ruolo nel mondo» [p. 157]. Eccezionalismo e supremazia militare furono i suoi imperativi, il ‘corollario Roosevelt’ come implementazione della Dottrina Monroe su scala planetaria il suo retaggio più robusto in seguito alle vittorie su Spagna, Germania e Gran Bretagna. Quest’ultima, perdendo di fatto l’egemonia marittima sull’Atlantico, accettò suo malgrado il suo lento e inevitabile ridimensionamento internazionale. Forti di un rinnovato spirito nazionalistico e galvanizzati da una nuova ‘frontiera’ oceanica, gli Stati Uniti si affacciavano fiduciosi sul Novecento per dominarlo. Con le dovute differenze, qual è l’orizzonte della Cina?

La disamina dell’Autore prosegue analizzando la sua figura di maggior spicco. La parabola ascendente di Xi Jimping rispecchia, a grandi linee, quella del suo Paese. Orgoglio patriottico, dedizione, visione. Tre componenti per realizzare il «sogno cinese», che si sostanzia principalmente lungo quattro direttrici: predominio in Asia; ricostruire la ‘grande Cina’ annettendo i territori ancora fuori controllo; recuperare la storica sfera d’influenza, regionale e marittima; esigere rispetto dalle altre nazioni nei consessi mondiali. Come la stessa storia americana suggerisce, spesso sono le credenze e le convinzioni culturali, alimentate dal decorso favorevole o non della storia, a stabilire i confini e le ambizioni di una classe dirigente, così come i modelli attraverso cui vedere e/o concepire la realtà internazionale. Per Allison, vi sono tre grandi questioni che definiscono il comportamento cinese e, di conseguenza, la percezione americana. La prima è che la Cina ha conosciuto il cosiddetto ‘periodo delle umiliazioni’ da parte dell’Occidente e, dunque, i costi dell’assoggettamento, lasciando un segno indelebile. Ora che Pechino possiede sufficiente leva economica e militare il suo peso politico è destinato a crescere consequenzialmente, così come a compiersi «la promessa fatta da Xi Jinping ai suoi concittadini: non sarà più così» [p. 184]. La seconda concerne l’evidente faglia di civilizzazione con il mondo occidentale, la quale rischia di produrre uno scontro sulle orme di quanto previsto da Samuel Huntington negli anni Novanta. Infine, non solo confidenza e potere spingono la Cina a reclamare il meritato riconoscimento internazionale: anche non fosse un obiettivo predeterminato, sono le dinamiche attuali che agiscono a favore della Cina e alzano la posta in palio, specialmente per quanto gli Stati Uniti potrebbero perdere in termini di egemonia globale così come l’abbiamo conosciuta dal 1945.

È su questo solco che incominciano a intravedersi i moniti di Tucidide, specialmente nelle acute differenze in termini identitari, politici e di governo. Cina e Stati Uniti, sottolinea Allison, «hanno un enorme complesso di superiorità» rispetto alle altre nazioni, mentre il divario maggiore emerge «dalle loro visioni opposte circa l’ordine mondiale» [pp. 229, 238]. Da una parte l’universalismo democratico americano, dall’altra la fiducia cinese nell’armonia attraverso la gerarchia, sia in patria che all’estero. Anche rispetto all’uso della forza, specialmente quella militare, lo scontro culturale strategico si fa evidente. Dominati da uno spirito Realpolitik, gli strateghi cinesi ragionano in termini olistici, considerando la guerra «una questione essenzialmente psicologica e politica» [p. 241]. Da qui ne derivano tattiche attendiste, pragmatiche, in attesa di un vento favorevole. È questa la cornice che spiega la progressiva strategia di dominio dei mari adiacenti, dove la presenza americana è particolarmente detestata. A partire dal dominio dello spazio aereo, la Cina punta a diventare come un’immensa portaerei attraccata al continente asiatico, e così allontanare gli Stati Uniti dal Mar Cinese Meridionale. Uno specchio d’acqua che, di fatto, è considerato da entrambe le parti «il maggior elemento di tensione».

Le dispute sulle acque contigue alla Cina sono soltanto una tessera del mosaico che compone l’arco di crisi nella regione. Un quadrante geografico che ha già visto l’Esercito Popolare di Liberazione in azione nel passato, dalla guerra di Corea sino alla crisi di Taiwan alla fine degli anni Novanta, passando per la disputa territoriale con i sovietici nel 1969 i conflitti con India (1962) e Vietnam (1979). C’è, tuttavia, un comune denominatore in queste vicende: all’epoca, la Cina era un paese relativamente debole. Oggi, con un’economia che primeggia e forze armate in grado di rivaleggiare con gli Stati Uniti, Pechino può permettersi di prendersi molti rischi, ma allo stesso tempo ha anche molto da perdere. Per l’Autore, le trappole per eventuali escalation militari sono disseminate ovunque, in ogni fronte che vede USA e Cina coinvolte specularmente – Corea del Nord, Mar Cinese Meridionale, Taiwan, cyberspazio e nella strisciante disputa commerciale. In questi scenari, «la guerra tra Stati Uniti e Cina non è inevitabile, però è possibile», poiché «lo stress di fondo generato dall’ascesa travolgente della Cina crea delle condizioni in cui eventi accidentali, altrimenti privi di conseguenze, potrebbero innescare un conflitto su larga scala» [p. 295].

Il pessimismo di Allison è però mitigato nella parte conclusiva del libro, dove vengono presentati «dodici indizi per la pace» – tratti dai casi studi presentati in precedenza, in cui dalla dinamica tucididea non si fece ricorso alla guerra: dall’importanza di un arbitrato internazionale e di organismi di sicurezza regionali per la gestione e bilanciamento delle crisi, al buon senso e all’abilità diplomatica degli statisti. Lo spettro dell’olocausto nucleare e una forte interdipendenza economica fanno «alzare il costo della guerra e [ne riducono] le probabilità» [p. 332]. Di converso, sono le alleanze che destano maggiori preoccupazioni, in quanto rischiano di trascinare ambo le parti in dispute localizzate che, aumentando la risonanza delle tensioni intrinseche a USA e Cina, possono innescare una spirale incontrollabile. Dunque, in che direzione andare? L’Autore, in conclusione, cerca di offrire un set di soluzioni per le élite americane, consapevole che la strategia americana sulla Cina sia stata, complessivamente, contraddittoria. Nella mente di Allison le lezioni della storia continuano ad essere la stella polare per gli statisti americani e cinesi, i quali dovranno – specialmente rivolgendosi ai suoi compatrioti – gerarchizzare gli interessi vitali, abbandonare progetti geopolitici «scollati dalle priorità nazionali», capire gli obiettivi della controparte e ridare spazio alla pianificazione strategica purché sia coerente e sostenibile. In breve, salvaguardare la propria raison d’être ed investire sul proprio capitale politico senza sacrificare l’american way of life sull’altare della competizione internazionale.

 

Conclusioni: l’applicabilità del concetto di ‘trappola di Tucidide’

Il lavoro di Graham Allison è destinato a suscitare un lungo dibattito. Seppur rappresenti uno dei più imponenti libri di recente pubblicati, alcuni osservatori hanno avanzato critiche, perlopiù sull’aspetto metodologico. È, infatti, l’applicabilità e la sostenibilità teorica del concetto di ‘trappola di Tucidide’ a venir messo più in discussione come miglior pattern per definire lo stato attuale delle relazioni tra Stati Uniti e Cina. «Se la trappola di Tucidide non fosse stata menzionata», scrive Lawrence Freedman ritenendola un «costrutto inutile», «molte delle argomentazioni e delle questioni sollevate in questo libro sarebbero state comunque rilevanti e avrebbero meritato un’attenta considerazione»[5]. L’interpretazione che domina il libro è che l’attuale dinamica sino-americana sia perfettamente, o quasi, riconducibile in quello schema, quasi fosse che la formula tucididea possa essere un prodotto preconfezionato. Dunque, il declino relativo degli Stati Uniti nelle gerarchie internazionali sembra essere, per Allison, la componente di pericolo maggiore per la materializzazione di un conflitto armato. In questo modo, la struttura di contorno – ovvero la complessa realtà del XXI secolo – passa un po’ in secondo piano, rischiando di diffondere un messaggio (la non inevitabilità della guerra) attraverso un mezzo discorsivo (l’esistenza inevitabile della ‘trappola’) non del tutto appropriato e troppo focalizzato sulle due superpotenze. La forte interdipendenza globale, infatti, non solo fa della Cina un importante stakeholder, ma finisce per coinvolgere e legare saldamente il destino di nazioni e potenze regionali nella più ampia cornice dei rapporti sino-americani. Vi sono importanti rivalità tra la Cina e i paesi dell’Asia-Pacifico, i cui interessi possono tanto non coincidere con le priorità americane, quanto divenire utili attori che, in aggregato, possano contenere le ambizioni di Pechino. Ciò non ridimensiona l’accuratezza delle riflessioni, dell’analisi approfondita con cui l’Autore riscopre la politica internazionale di oltre cinque secoli, e lo spirito di un intellettuale volto ad auspicare tutte le misure e i mezzi possibili per scongiurare un epilogo che la storia ha più volte sentenziato. «Come Tucidide ben sapeva e come conferma il libro di Allison, le circostanze geopolitiche non sono fatali; il carattere dei potenziali belligeranti conta, specialmente le loro abilità e volontà di raggiungere il compromesso»[6].


[1] Henry Farrell and Abraham Newman, ‘Weaponized Interdependence,’ forthcoming, International Security, Summer 2019.

[2] https://www.belfercenter.org/thucydides-trap/overview-thucydides-trap

[3] Noto paradosso teologico e filosofico in cui ci si domanda se un ente onnipotente possa creare un oggetto dotato di una caratteristica tale da mettere in crisi la sua stessa onnipotenza.

[4] Ivi., cit. p. 35. Lee Kuan Yew (16 settembre 1923 – 23 marzo 2015) è stato un politico singaporiano, fondatore e primo ministro della moderna Singapore. Cosmopolita e uomo di grande cultura, oltre che esperto di affari asiatici, fu un consigliere strategico molto richiesto a livello mondiale, comprese tutte le amministrazioni americane da Nixon a Barack Obama.

[5] Destined for War: Can America and China Escape Thucydides’s Trap? Reviewed by Lawrence Freedman, PRISM, Vol.7, No.1 (2017), pp. 175-178, cit. p. 176, 177.

[6] Karl F. Walling, ‘The United States, China, and Thucydides’s Many, Many Traps,’ Naval War College Review, Vol. 71, No. 1 (2018), pp. 152-158, cit. p. 155.

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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