Recensione a: Sergio Romano, Trump e la fine dell’american dream, Longanesi, Milano 2017, pp. 128, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Alberto Prina Cerai
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L’elezione di Donald J. Trump ha segnato, insieme alla Brexit, un anno nefasto per la stabilità dell’Occidente, assediato da un’ondata di nazionalismi, riflussi sovranisti e populismi incalzanti. È dunque lecito domandarsi quali cause abbiano portato la più grande democrazia del mondo a voltare pagina o forse, non troppo metaforicamente, a stracciare il capitolo scritto non senza sbavature da Barack Obama[1]. Due figure talmente inconfrontabili, per valori, credenze e visioni del mondo da esigere una spiegazione logica nella lettura di una parabola politica destinata a alterare gli equilibri internazionali.
Spiegare l’ascesa di Donald Trump significa riflettere sull’uomo, sull’imprenditore che ha conquistato parte di un elettorato ostile nei confronti dell’amministrazione democratica, osservare un trend globale che espone fratture socio-economiche latenti e guardare al declino di un impero, quello statunitense, sempre più incapace di contenere aporie interne che ne avvelenano tanto la politica domestica quanto la reputazione internazionale.
Sergio Romano, nel libro edito da Longanesi, ci offre alcune chiavi di lettura per una prima valutazione della neoeletta amministrazione repubblicana e alcuni spunti per capire chi è realmente Donald Trump e quale potrà essere l’impatto della sua personalità nel tracciare il percorso di una presidenza già zoppicante.
Donald J. Trump, il populismo nazionalista e la disillusione dell’universo liberal
Il curriculum vitae di Trump e il suo essere fuori dal tradizionale circuito politico lo hanno presentato al grande pubblico come il redentore di una politica corrotta e collusa con la grande finanza speculativa. Un’immagine che, invero, è incompatibile con il suo impero patrimoniale e imprenditoriale lungi dall’essere moralmente inattaccabile, specialmente per la riluttanza del candidato repubblicano a rivelarne pubblicamente le dimensioni. Lusso e svago infatti sono i principali beni che la Trump Organization offre ad una clientela che non è propriamente la white middle class o i blue collars di cui il tycoon newyorkese si è servito per scalare le gerarchie elettorali. Come la campagna presidenziale del 2016 ci ha rivelato, Trump si è dimostrato «uno straordinario venditore di sé stesso», in tempi in cui la politica si gioca spesso su equilibri di domanda e offerta, dove vince il prodotto più in linea con i desideri della constituency, il tutto veicolato dall’anarchia comunicativa dei social network. Una logica che, si credeva, non era pensabile potesse attecchire sul suolo americano, dove tradizionalmente è la politica door to door a ricevere le maggiori compensazioni elettorali. Ma osservando il percorso politico di Trump, alquanto grottesco, e dando una sfogliata alle sue eccentriche pubblicazioni, si scopre che gli ingredienti principali della sua way to win non sono nient’altro che notorietà, successo, ricchezza e ostentazione.
Non è un caso dunque che la candidatura sia stata annunciata proprio nel momento in cui l’impopolarità di Obama aveva raggiunto il suo zenit. Una parabola discendente iniziata nel 2014 in un contesto sociale estremamente teso, in cui le violenze poliziesche e il persistere di un fiorente mercato delle armi da fuoco stavano dividendo ancora una volta gli Stati Uniti in due blocchi contrapposti. In aggiunta la crisi ucraina e quella in Siria completavano un quadro internazionale estremamente peggiorato. Il discorso di Cleveland divenne dunque la promessa elettorale di Trump, ovvero la negazione di tutto ciò che era stato Obama, un leader internazionalista, moderato, liberal e dedito ad ascoltare gli interessi delle grandi organizzazioni multilaterali. Se le premesse alla campagna presidenziale presentavano una situazione già in parte compromessa dalle ambiguità e le incertezze dell’ultimo mandato Obama, la candidatura di Hillary Clinton, dipinta dai media americani come una figura estremamente competente e invulnerabile all’attacco demagogico e populista lanciato dalla sponda repubblicana, ebbe l’effetto inverso. Lo schieramento pro-Clinton dei principali giornali liberal statunitensi finì per martirizzare un personaggio che ha saputo capitalizzare a suo vantaggio una demonizzazione – morale, dei costumi e valori piuttosto che politica – alquanto inusuale. Seppur fondata e legittima, la campagna anti-Trump ha mostrato quanto il senso di infallibilità che ha pervaso il partito democratico e il mondo liberal avesse offuscato parte della società americana, miope rispetto ad una polarizzazione politica reale e capace di annullare l’effetto moderatore dei meccanismi rappresentativi. In un contesto simile venne meno la capacità di assorbire nel mare magnum della maggioranza quelle spinte centrifughe, radicali e populiste, che hanno rimpolpato l’elettorato repubblicano. Nel contesto dell’estremizzazione partitica americana, l’efficacia dell’inclusività è scomparsa, mostrando la cruda realtà di un processo elettorale ostaggio di una semplificazione della politica, sempre più espressione di caricature iperrealiste, dove la sostanza cede il passo alla forma, alla frase a effetto, allo show.
Caratteristiche che finirono per scandire i dibattiti durante la campagna presidenziale, dove venne toccato il punto più basso in quanto a colpi proibiti, volgarità e superficialità, facendo così il gioco del candidato che più era a suo agio in quello spettacolo turpe. All’alba del 9 novembre 2016 Trump aveva conquistato la maggioranza del Collegio Elettorale. Una volta ultimati gli spogli, i risultati mostrarono che il voto aveva travolto i tradizionali baluardi della rappresentanza liberal – per intenderci, quella fetta di elettorato che per due volte supportò la candidatura di Obama – dell’East Coast partendo da quegli Stati continentali che rappresentavano, nella retorica trumpiana, l’America dimenticata: «L’intera mappa elettorale […] rivelava meglio di altri sintomi e fattori quali fossero i problemi della società americana. Mentre gli Stati dell’Ovest e dell’Est appartenevano ad un paese moderno, dinamico e tecnologicamente molto avanzato, quelli in cui Trump aveva vinto erano tutti, per un verso o per l’altro, vittime della globalizzazione» (p. 32). La retorica di Trump, concentrandosi sugli effetti destabilizzanti della deregolamentazione commerciale sulle imprese nazionali, del trasferimento dei capitali all’estero e sulle conseguenze dell’immigrazione clandestina aveva magnetizzato l’elettorato più sensibile a temi che poteva palpare concretamente nella vita di tutti i giorni. Protezionismo, nazionalismo, isolazionismo erano issues da sempre presenti nell’immaginario politico americano, ancora una volta ritornati a cristallizzarsi in una parte della società americana che si riconosceva vittima della crisi globale. L’America First risuonò come un richiamo per tutti coloro che volevano vendicarsi, quasi mossi da un impulso giacobino, degli speculatori finanziari che avevano lucrato negli anni sulle spalle dei lavoratori, di quelle minoranze etniche che minacciavano l’identità anglosassone e l’integrità cristiana dell’America conservatrice.
Le prime iniziative del Presidente e la composizione dell’amministrazione, colpevolmente deficitaria e impreparata nei primi cento giorni, non riflessero le promesse elettorali e rivelarono la natura a-politica di Trump. Alcune nomine sembravano infatti distaccarsi da quell’establishment che aveva tradizionalmente solcato gli ambienti governativi. Ex generali, esponenti della destra fondamentalista come Michael Flynn – Segretario di Stato poi sostituito da H. McMaster – James M. Mattis (Segretario della Difesa), Steve Bannon (Personal Advisor poi dimessosi) e figure di lunga esperienza alla Goldman Sachs come Steven Mnuchin (Tesoro) sembravano contraddire alcune promesse e minacciare future escalation internazionali. Essendo Trump un uomo d’affari prestato alla politica, inesperto negli affari governativi, afferma Sergio Romano, non dovrebbe sorprendere che abbia deciso di circondarsi di uomini di assoluta lealtà e obbedienza, affidandosi a quegli ambienti militari che nel corso dei decenni hanno stabilito contatti sempre più stretti e lucrosi con il governo federale e il Congresso.
Trump, la Russia e un’improbabile leadership internazionale
Tra la campagna elettorale e i primi mesi della presidenza è intercorsa una linea di continuità individuabile in quello che è stato successivamente definito Russiagate. Il dossier, nato dalla possibile collusione di alcuni membri dell’establishment di Trump con uomini d’affari e di stato russi e dall’accusa dei democratici di interferenze di Mosca durante le elezioni presidenziali, ha palesato sin da subito la possibilità dell’impeachment del Presidente. Data l’estrema rigidità del bipartitismo americano in questo momento storico, tale strumento è apparso l’unica soluzione per l’opposizione per indebolire il consenso intorno all’amministrazione. A suffragare l’ipotesi di alto tradimento ci furono una serie di incontri ufficiosi al di fuori della Casa Bianca, tra il figlio del Presidente e l’avvocatessa russa Natalia Veselnitskaya durante le elezioni, oltre al presunto saccheggio dell’archivio del Comitato Centrale del Partito Democratico da parte dei servizi segreti russi. In piena campagna elettorale ciò sembrava confermare come la simpatia tra Trump e Putin potesse essere ricollegata all’attacco diretto contro la persona di Hillary Clinton per logorarne la credibilità politica, oltre alla tendenza del presidente ad affidare questioni delicate a membri della famiglia.
La prima vittima del turbinio creatosi fu Michael Flynn, dimessosi in febbraio per aver incontrato senza l’approvazione del vicepresidente Mike Pence l’ambasciatore russo. Il caso finì nelle mani del direttore dell’FBI James Comey il quale, dopo un colloquio privato con il Presidente e il tentativo di rivelarne i contenuti alla stampa, venne rilevato dal suo incarico e sostituito il 9 maggio 2017 con l’accusa, strumentale, di aver favorito la Clinton durante i suoi anni al Dipartimento di Stato in qualità di Segretario. Un intricato puzzle che, nella visione dell’autore, svela la centralità dell’FBI, la cui indipendenza rispetto ai poteri non è altro che «un mito creato dal desiderio di esorcizzare il caso Hoover e, oggi, dalle molte ombre che pesano sulla personalità di Donald Trump» (p. 61). Con la deposizione di Comey alla Commissione del Senato e l’ennesimo incontro sospetto tra Jared Kushner – genero e senior advisor del Presidente – e Sergej Gorkov, rappresentante di un importante banca d’affari russa e destinatario delle sanzioni post-Crimea nel 2014, il dossier russo sembrò generare ricadute pesanti sulla reputazione internazionale degli Stati Uniti. La già ricordata simpatia tra Trump e Putin, la retorica contro le sanzioni economiche durante la campagna elettorale e le ultime vicissitudini avrebbero potuto rafforzare i presupposti dei nemici del Presidente per un ricorso all’impeachment. Nemmeno il Congresso si sottrasse alla condanna pubblica e, indirettamente, sferrò un colpo basso al presidente obbligandolo di fatto ad approvare il nuovo pacchetto di sanzioni il 3 agosto 2017[2].
Poco prima del grande appuntamento internazionale – il G7 di Taormina – Trump diede credito a coloro che sostenevano che la nuova amministrazione avrebbe alterato tanto i rapporti euro-americani, quanto la base stessa della politica mediorientale impostata durante gli otto anni di Obama. Nel suo viaggio in Medio Oriente Trump rinsaldò le alleanze con Israele e Arabia Saudita, accordandosi con quest’ultima per una sostanziosa fornitura di arsenali bellici. All’incontro di Taormina le due questioni tanto care al presidente durante la campagna elettorale – immigrazione e cambiamento climatico – hanno condotto le controparti a compromessi e irrigidimenti, con un’enfasi posta da Trump sul primato della sovranità e della sicurezza degli Stati nella risoluzione di due problematiche di respiro globale. La posizione del Presidente dunque non rispecchiava la realtà dell’altra America, completamente avulsa da una retorica bigotta, conservatrice e negazionista, decisa a rispettare tanto i vincoli e gli impegni previsti dal Trattato di Parigi quanto le esigenze di una società sempre più eterogenea e multirazziale, custode dell’eredità di Obama. Secondo l’autore, sembra delinearsi così «un’America a macchie di leopardo», fratturata in due tronconi socio-politici destinati a contendersi il destino, l’immagine e il ruolo degli Stati Uniti nel mondo (p. 81).
Due Americhe, due concezioni del mondo. Quale il futuro della democrazia americana?
La volontà di Trump di recedere dall’accordo di Parigi non ha fatto altro che divaricare ancor di più la forbice esistente tra l’America ambientalista, internazionalista e quella nazionalista e isolazionista. Rispetto al Russiagate, uno scandalo improvviso, tale decisone è invece da considerarsi un corollario della campagna elettorale e, stando ai sondaggi, uno dei fattori chiave del suo successo elettorale. Considerazioni simili spiegano il nuovo assetto dei rapporti diplomatici con Cuba e l’Iran, due paesi che avevano goduto dell’approccio conciliante di Obama. Non tenere fede al patto con Raul Castro nel 2014 e stracciare l’accordo sul nucleare negoziato con Rohani erano i primi passi per sgomberare lo scacchiere internazionale ideato dall’amministrazione democratica. In realtà l’accordo con l’Iran aveva imposto una maggiore trasparenza del regime, garantendo così i semi per la germogliazione di una società civile, oltre al rallentamento del processo di nuclearizzazione della maggior potenza della regione. Insomma, nulla che presentasse una diretta minaccia alla sicurezza nazionale, ma gli equilibri di potenza in Medioriente – con Israele e Arabia Saudita allarmate dall’ascesa di Teheran – e l’opportunità di rafforzare ulteriormente il consenso intorno all’amministrazione repubblicana hanno spinto il Presidente a mantenersi in linea con le promesse fatte in campagna elettorale. Aldilà delle crude invettive dei democratici e dei giornali liberal, pur monopolizzando l’attenzione mediatica sulla volubilità e l’amoralità dei tweet del Capo di Stato, è innegabile che Trump non sia stato eletto «per una combinazione di malintesi e fraintendimenti […]. L’America di Trump esiste e si sente rappresentata dall’uomo che siede alla Casa Bianca» (p. 90). Un dato di fatto che prospetta scenari apocalittici, con una «faglia» socio-culturale estremamente mobile e capace di scatenare terremoti tra le minoranze e un suprematismo bianco, aggressivo e coeso, che pare non aver ancora digerito l’elezione di un afroamericano alla soglia presidenziale.
Nella parte conclusiva, Sergio Romano avanza tre possibili spiegazioni, di breve e lungo periodo, per far luce sulla popolarità di Donald Trump. La fine del «momento unipolare» – un percorso trentennale che ha certificato con le guerre in Medio Oriente e l’unilateralismo promosso dai neoconservatori l’inizio del declino americano[3] – ha raggiunto con Obama una fase stazionaria, con il tentativo maldestro di ritirarsi da una regione ritenuta ormai disfunzionale per gli interessi americani. Un roll back dell’impero americano che potrebbe essere facilitato – o addirittura accelerato – dal nuovo presidente, rappresentando così quella «tendenza al disimpegno che è un altro aspetto di tutti i declini imperiali», ma a differenza del predecessore «sarà un disimpegno interrotto da atti di forza ogniqualvolta Trump penserà che l’uso del “grande bastone” possa dimostrare agli americani che il suo stile di governo è il contrario di quello di Obama» (p. 100). Ed è proprio sulla differenza con il predecessore che Trump ha guadagnato gran parte del suo capitale politico, cercando di sfruttarne i passi falsi e insistendo su di un elettorato realmente disincantato da ciò che Obama e le amministrazioni precedenti avevano costruito. E giungiamo quindi alle altre due questioni che, secondo l’autore, completano il ragionamento e si ricollegano, in un contesto temporale più ampio, al successo elettorale di Trump: la prima riguarda gli effetti travolgenti della globalizzazione, della deregolamentazione dei mercati finanziari e della creazione di aree di libero scambio (NAFTA e TPP), che dapprima con Clinton, poi con Bush e infine con Obama hanno avuto nel far convergere un elettorato contro progetti multilaterali ritenuti la principale causa della crisi americana e globale. Il terzo e non meno importante fattore è risultato essere la politica dei diritti propinata da Obama, dall’aborto ai matrimoni gender passando per i riconoscimenti alla comunità LGBT. Concessioni che avrebbero urtato la sensibilità dell’America cristiana, conservatrice, e in compenso rafforzato la popolarità del presidente afroamericano. Il gap culturale, ideologico tra le due grandi anime che da sempre convivono nella società americana non è una novità della storia degli Stati Uniti: destinati a lottare contro i propri demoni, gli americani continueranno a dover scegliere da quale parte stare, così come i presidenti, insiste Romano, dovranno decidere a quale tradizione ispirare la propria condotta, tanto in politica interna quanto nel contesto internazionale. Ma lo spettro di una «guerra civile fredda» (p. 103) non è mai stato così percepibile come in questo momento storico. Il declino americano in termini di preponderanza globale per l’ascesa di attori sempre più competitivi, la crisi del soft power e della capacità del paese di assumersi responsabilità di leadership internazionale hanno accelerato l’emergere in superficie di queste due Americhe conflittuali.
Questi rigurgiti particolaristici erano messi a tacere da una comune credenza nel manifest destiny e dalla narrazione eccezionalista che, prospettando un ruolo globale per gli Stati Uniti, trascendeva il bipartitismo e garantiva il primato dell’interesse nazionale. Ora che questa convergenza sembra erodersi a causa della polarizzazione politica, la fiducia nella missione statunitense e nel ruolo tradizionalmente internazionalista delle amministrazioni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sta venendo meno. Con la Presidenza Trump la crisi del bipartisanship – forse il segnale più preoccupante per la sopravvivenza della democrazia statunitense – sarà probabilmente senza soluzione di continuità, prospettando uno scontro aspro tra il nascente «teoconservatorismo» e coloro che hanno sostenuto la presidenza liberal e «socialdemocratica» di Obama. Se si aggiunge a questi fattori strutturali l’incognita della personalità estroversa e imprevedibile di Donald Trump, il quadro risulta ancor più preoccupante per la politica internazionale. Stando alle dichiarazioni di Rex Tillerson in uno dei suoi discorsi ufficiali al Dipartimento di Stato, i valori americani sono stati sacrificati quali agenti di politica estera, presumibilmente sull’altare del mero interesse economico. Ma l’importanza della coesione interna dell’élite di politica estera – un circolo che attinge universalmente senza distinzioni provenienza partitica – è imprescindibile quando si tratta di decidere i paradigmi della sicurezza nazionale. La policy-making del presidente, al contrario, in questi primi mesi è sembrata orfana di una grand strategy, perlopiù impostata su reazioni impulsive e dettate dall’inesperienza e dalla mancanza di organicità all’interno dell’amministrazione.
L’unica certezza che Trump sembra possedere è la sua incrollabile fede nell’arte del dealing: qualora si presentassero occasioni di dialogo che prospettino diretti vantaggi per l’interesse americano, l’amministrazione repubblicana siederà al tavolo. Sfortunatamente, osserva l’autore, le «maggiori difficoltà saranno quelle dei paesi europei legati agli Stati Uniti da un patto politico e militare» (p. 108). Sebbene abbia più volte inveito contro la NATO, ritenuta un organismo obsoleto, nel discorso tenuto a Varsavia durante il vertice del G-20 Trump ha ribaltato la questione. La natura stessa del Patto Atlantico, come garanzia di un impegno americano costante in Europa e di sicuri profitti per le industrie militari, è funzionale per l’obiettivo primario dei “falchi” conservatori alla Casa Bianca: la lotta contro il terrorismo internazionale. Inoltre la contraddittorietà con cui l’amministrazione si è mossa sulla scena internazionale non garantisce la piena fiducia della controparte. In termini di security, ammonisce Sergio Romano, forse è tempo che l’Unione Europea si emancipi dall’ombrello militare americano. Sarà l’atlantismo la prima vittima di Donald Trump? In conclusione, lo scritto, comprensivo delle principali questioni affrontate dall’amministrazione, pur nella brevità, riesce a contestualizzare l’ascesa di Trump nella dinamica declinista che l’autore intravede tanto per la crisi patologica del sistema democratico statunitense quanto per l’abdicazione al ruolo globale del paese che gli americani hanno decretato la notte dell’8 novembre 2016.
[1] Per un primo ed esaustivo commento sul lascito della presidenza Obama si veda il libro – e la relativa recensione – di Mario Del Pero, Era Obama. Dalla speranza del cambiamento all’elezione di Trump, Feltrinelli, Milano 2017.
[2] Sulla questione mi permetto di rinviare all’articolo Trump, la Russia e le sanzioni del Congresso: svanisce l’ipotesi di un nuovo reset?, «pandorarivista.it», 30 luglio 2017.
[3] La tesi declinista dell’autore è riscontrabile in una delle sue più recenti pubblicazioni, la cui recensione è reperibile presso “Il declino dell’impero americano” di Sergio Romano, «pandorarivista.it», 16 febbraio 2017. Per una interpretazione opposta, si veda Joseph Nye, Fine del secolo americano?, il Mulino, Bologna, 2016, o per una sintesi “Fine del secolo americano?” di Joseph S. Nye, Jr. «pandorarivista.it», 2 marzo 2017.