Undercapitalization: il rapporto tra PMI e shadow banking in Cina
- 18 Marzo 2021

Undercapitalization: il rapporto tra PMI e shadow banking in Cina

Scritto da Michelangelo Morelli

8 minuti di lettura

Reading Time: 8 minutes

L’ascesa in numero e importanza delle piccole e medie imprese (PMI) in Cina si inscrive in quella svolta di inizio secolo che ha portato il Paese a scalare i vertici dell’aristocrazia geoeconomica. Benché l’attenzione venga solitamente posta sulle grandi aziende pubbliche, oggetto prediletto degli indirizzi sviluppisti dello Stato, le vicende che interessano le PMI meritano senz’altro un’analisi approfondita. Infatti, la difficoltà di assemblare le esigenze di controllo dello Stato socialista con gli spazi di manovra necessari all’impresa, hanno sovente generato un cortocircuito istituzionale, di cui il credito informale, o shadow banking, è il vettore risultante su cui si svolge il mai sopito scontro tra pianificazione e libero mercato.

Sulla scorta del processo di frammentazione della proprietà iniziato negli anni Novanta (zhuada fangxiao), il numero di imprese private è cresciuto dai 2 milioni del 2000 ai 16 milioni del 2014: di queste, ben il 96% è rappresentato da PMI, che contribuiscono al PIL cinese per circa il 60%[1]. Nonostante questo exploit, le PMI hanno sempre dovuto scontare la diffidenza delle istituzioni finanziarie tradizionali. Queste ultime, obbligate al rispetto delle politiche di sviluppo del governo, hanno infatti mostrato la tendenza a prestare più alle grandi imprese di stato (State-owned enterprises – SOE), maggiormente affidabili per via dell’esplicito sostegno statale, piuttosto che a piccoli business con scarse referenze creditizie. Nel 2013 ad esempio, mentre le SME (all’epoca circa 15 milioni in totale) avevano ricevuto prestiti per 29 trilioni di renminbi (RMB), ovvero una percentuale sul totale dei prestiti del 65,2%, le grandi imprese (circa 6.000), specie quelle di Stato, avevano ricevuto da sole 15,7 trilioni RMB[2].

Questa evidente disparità di trattamento ha indotto le PMI a ricercare i capitali necessari nel cosiddetto shadow banking, un nuovo tipo di intermediazione finanziaria il cui volume d’affari ricopre un ruolo sempre maggiore nel mercato dei capitali cinesi, stimato nel 2019 a 60 trilioni RMB. I protagonisti dello shadow banking sono in primo luogo le stesse banche commerciali, attraverso prodotti come i wealth management products e gli entrusted loans[3]: il fine di questi strumenti non è però quello di allargare la clientela alle PMI, ma al contrario di aumentare i ricavi derivanti dal credito alle SOE attraverso prestiti off-balance. A dominare questo settore della finanza, specie nell’ambito dei prestiti alle PMI, sono però le cosiddette non-bank financial institutions (NBFI), una rete informale di soggetti prestatori, spesso diversissimi tra loro per struttura ed origine dei fondi, che operano nei settori a più alto rischio e sotto regolamentazioni esigue, se non assenti.

I più antichi tra queste NBFI sono le cooperative di credito curale (CCR), istituti creati negli anni Cinquanta, ispirati ai principi del collettivismo socialista nonché principale fonte di finanziamento delle PMI rurali (township and village enterprises). Le CCR, in larga parte gestite dei governi provinciali, si occupano principalmente di finanziare prestiti e investimenti per famiglie e imprese di villaggio, e nel 2012 contavano 11,5 trilioni RMB in depositi e 7,8 trilioni RMB in prestiti, ovvero rispettivamente il 12,8% e il 12,6% del totale nazionale[4]. In un Paese che nel 2019 contava ancora 559 milioni residenti rurali, con 200 milioni impiegati nell’agricoltura e un impatto irrisorio di quest’ultima sul PIL (7,2%), si può immaginare come i capitali delle CCR risultino fondamentali per la sopravvivenza delle piccole e micro-imprese contadine. A conferma di quest’ultimo punto, risulta infatti che il 41,3% delle PMI più grandi, con un fatturato tra i 50 milioni e 3 miliardi RMB, privilegi di norma le grandi banche di Stato, mentre per i business più piccoli, con un fatturato inferiore ai 5 milioni RMB, ben il 41,7% di questi si rivolga per un prestito alle CCR[5].

Si tratta di numeri importanti, ma ben lontani dal soddisfare le esigenze delle piccole imprese, specie nel settore agricolo: nel 2013 infatti meno del 20% (43 milioni) dei contadini cinesi aveva avuto accesso almeno una volta ai prestiti delle cooperative rurali di credito[6]. La scarsa diffusione del credito rurale cooperativo è in gran parte imputabile alla crescente commercializzazione delle stesse CCR che, convertendosi alle regole delle banche commerciali (se non diventando vere e proprie banche), hanno lasciato spazio ad una pletora di piattaforme di prestito informali e quasi-formali (ad esempio fondi rurali di mutuo soccorso), rivelatesi decisamente insufficienti nel servire capillarmente l’immensa campagna cinese.

I secondi più longevi NBFI, la cui data di nascita risale al 1978 con la creazione del China International Trust and Investment Corporation, sono appunto i trust and investment company (TIC). I TIC sono entità difficili da classificare: a metà strada tra banche, hedge funds e fondi d’investimento governativi, questi rappresentano simbolicamente il modo attraverso i quali le banche commerciali, anche sotto gli auspici del governo centrale e locale, sono riusciti ad eludere i rigidi vincoli politici. I trust si presentano come degli intermediari di credito con capitale fornito da terzi (banche, fondi di investimento, governi locali)[7], con attività ramificate in ogni settore del mercato dei capitali. Nel caso delle banche commerciali, i trust si sono rivelati utili per trasferire assets dal proprio bilancio a quello di questi ultimi, in modo da “riciclare” quella liquidità resa improduttiva dall’obbligo di riserva fissato dalla banca centrale (20% nel 2015). I trust sono inoltre efficaci per eludere il tasso di interesse ufficiale sui prestiti (tenuto artificialmente basso), in modo da ottenere mutui molto più remunerativi poiché considerati più rischiosi.

Nel 2015, basandosi sui dati di 68 trust registrati, il 38,9% dei prestiti concessi era diretto alle SME, per una cifra complessiva di 14,37 trilioni RMB e quindi del 69% sui prestiti shadow complessivi alle PMI (20,68 trilioni RMB)[8]. Negli ultimi anni la cooperazione trust-banche è stata sottoposta ad una regolamentazione più severa da parte della China Banking Regulatory Commission (Documento n.55, 2017), penalizzando di conseguenza le PMI che vi facevano ricorso. Se infatti da un lato la CBRC ha imposto ai TIC controlli più stretti sui mutuatari, e di conseguenza anche una revisione dei tassi di interesse[9], dall’altro le banche hanno dovuto includere nei propri bilanci anche i trust loans, cioè i fondi prestati ai trust, vanificando il ruolo dei TIC come sbocco informale per i capitali inattivi[10].

Il settore shadow banking in Cina non riguarda unicamente il flusso di capitali, ma anche gli strumenti utili per permetterne una circolazione ottimale. Uno di questi strumenti è la garanzia, che negli anni ha rappresentato, assieme alla questione delle storie creditizie, uno dei maggiori ostacoli alla concessione di prestiti ai piccoli business. Per questo motivo un numero crescente di PMI si è rivolto negli anni alle credit guarantees companies (CGC), istituti non-bancari nati negli anni Novanta con lo scopo di fornire collaterale per conto terzi.

Benché esistano molte CGC di proprietà statale, la stragrande maggioranza di queste sono istituti non-finanziari (6.030 nel 2010), responsabili per oltre 1,15 trilioni RMB in garanzie alle PMI[11]. Dal 2011, in seguito ad una serie di importanti fallimenti, si è assistito ad un progressivo declino dei CRC, imputabile principalmente a gravi errori nel controllo del rischio. Infatti questi istituti, dopo un periodo di relativa cautela nel primo decennio del XXI secolo, hanno iniziato ad investire in business sempre più rischiosi, falsificando per giunta i documenti necessari per ottenere i prestiti dalle banche[12]. Queste ultime di conseguenza hanno cominciato a chiudere le collaborazioni con le CRC, privando in questo modo le PMI delle garanzie necessarie per ottenere i prestiti bancari.

Le alterne vicende dello shadow banking in Cina hanno raggiunto un punto di svolta con l’avvento dell’Internet finance (fintech), in particolar modo con la nascita delle piattaforme peer-to-peer (p2p). Queste, sviluppatesi in Cina a partire dal 2006, sono sostanzialmente delle piazze virtuali in grado di mettere in contatto privati e PMI con potenziali investitori. Tra il 2011 e il 2017 il numero di piattaforme p2p è cresciuto da 50 fino a 2.400 unità, con un volume di prestiti che nel 2017 ammontava a 3,8 trilioni RMB e con 40 milioni di utenti tra investitori e mutuatari[13].

L’elemento più innovativo di queste piattaforme è sicuramente l’utilizzo delle tecnologie informatiche, in primo luogo quella dei big data, per profilare nel dettaglio i mutuatari e assicurarsi inoltre un bacino d’utenza ramificato entro tutte le fasce di reddito. Sotto quest’ultimo punto di vista le piattaforme p2p, sfruttando la diffusione degli smartphone e la storica assenza delle carte di credito tra la popolazione cinese, si sono infatti rivelati abili nel coinvolgere anche quei soggetti negletti dalle banche tradizionali come le PMI, puntando su innovazioni di processo come soglie di prestito ridotte, procedure di loan application semplificate, soluzioni di pagamento flessibili e proroghe[14].

Queste e molte altre strategie utilizzate dalle piattaforme p2p sono ulteriormente implementate dopo l’ingresso dei giganti tech (techfin) nell’Internet finance. Il caso più eclatante è senz’altro quello di Alibaba, leader cinese nel campo dell’e-commerce fondata nel 1999 da Jack Ma. La divisione finanziaria di Alibaba, Alipay (dal 2014 Ant Financial), nata inizialmente come sistema di pagamento digitale per i clienti dell’e-commerce, in pochi anni ha esteso in maniera capillare la propria attività verso i servizi di prestito, ponendosi sia come intermediario tra banca e clienti sia, grazie agli introiti dei propri fondi d’investimento, come banca egli stessa. Alla metà del 2020 il volume di affari gestito da Ant Financial ammontava a 7,1 trilioni RMB, con un numero di clienti complessivo di circa 500 milioni e una percentuale di patrimonio non-bancario del solo 2%[15].

Il braccio finanziario di Ant Financial sul versante prestiti è MyBank, banca interamente online pensata specificatamente per le PMI. MyBank è di fatto riuscita a risolvere uno dei problemi strutturali del settore prestiti cinese, ossia quello relativo alla difficoltà di stabilire il rischio di insolvenza in assenza di una credit history. Basandosi infatti sui dati d’acquisto e di vendita dei piccoli business, forniti da Ant Financial, l’algoritmo di MyBank è in grado di ricavare una credit history quasi dal nulla, dando vita ad un lending model denominato 3-1-0: tre minuti per elaborare la richiesta di prestito, un minuto per evaderla e senza alcun intermediario umano[16]. Grazie a questo modello analitico big data-based, MyBank si è rapidamente affermata nel settore dei prestiti, raggiungendo al 2020 una platea d’utenza di circa 10 milioni di PMI e un volume di prestiti totale di circa 1,8 trilioni di RMB[17].

Il ruolo vitale del credito informale per la sopravvivenza delle PMI getta una nuova luce sullo shadow banking. Lungi dall’essere una semplice distorsione di un sistema granitico, la finanza parallela ha colto con lucidità le crepe dell’edificio socialista, lucrando nel silenzio della legge ma anche con il sostanziale assenso del potere pubblico. La recente svolta verso il mercato domestico, sostenuta da proclami ottimistici sulla prospettiva di una Cina non più “fabbrica del mondo” ma “hub di innovazione”, sembra aprire nuovi spiragli per le PMI. Resta comunque da vedere fino a che punto si spingerà la longa manus del Partito nel sistemare le carenze del sistema economico, e soprattutto quale sarà la sorte dell’esoscheletro finanziario che lo shadow banking ha contribuito a costruire in questi decenni.


[1] TSAI Kellee S., When Shadow Banking can be productive: financing small and medium enterprises in China, in «The Journal of Development Studies», 2016, p.1.

[2] Ivi, p.7.

[3] I WMP, che nel 2019 costituivano circa il 22% dello shadow banking, sono dei titoli a breve termine emessi dalle banche (non contabilizzati nei bilanci), investiti in attività più rischiose e quindi con interessi più alti per il portatore. Gli EL, che nello stesso anno costituivano il 10% dello SB, sono dei prestiti b2b in cui la banca funge da intermediario, guadagnando una percentuale sul prestito senza assumersi il rischio, (YUNLIN Lu, Shadow banking and firm financing in China” in International Review of Economics and Finance, 2014, pp.41-42).

[4] CHAN Kay-Wah, IP Mary, Cooperatives in China: a promising player in chines economy, in «The Chinese Economy», luglio/agosto 2014, p.85.

[5] FANG Hong, GOLD Jeff, WU Junjie, ZHU JInyu, Lending facilities versus banking service: unbalanced bank lending to SME’s in China in «International Journal of Business and Globalization», gennaio 2018, p.340.

[6] HUI Feng, LI Zhou, XUAN Dong, From State Predation to Market Extraction: The Political Economy of China’s Rural Finance, 1979-2012, in «Modern China», Vol.42, No.6., novembre 2016, p.629.

[7] Nel 2017 il rapporto tra assets di proprietà del trust (proprietary assets) e assets complessivi (trust assets) era 1:39, (China Trustee Association).

[8] TSAI Kellee S., When Shadow Banking can be productive: financing small and medium enterprises in China in «The Journal of Development Studies», 2016, p.18.

[9] Ciò che lega controllo del rischio e tassi di interesse è il fatto che i trust, non impiegando nella maggior parte dei casi capitale proprio, selezionava i soggetti più “aggressivi” (e quindi rischiosi) in modo da generare maggiori profitti, (HO Lusina, Business Trusts in China: a Reality Check, «University of Cincinnati Law Review», marzo 2020, p.781).

[10] GUOFENG Sun, China’s Shadow Banking: Bank’s Shadow and Traditional Shadow Banking, Bank for International Settlements, 2019, pp.11.

[11] JIAMING Li, XIAOHUA Lin, Assessing credit guarantee companies in China: Applying a new framework in «China Economic Review», Mar. 2017, p.100.

[12] A Beijing-based credit guarantee company is going bust, «businessinsider.com», 14 agosto 2012.

[13] HSU Sara, JIANJUN Li, China’s Fintech Explosion: Disruption, Innovation and Survival, «Columbia Business Press», 2020, pp. 172-174.

[14] Ivi, p.175.

[15] Future Finance, China Plans Caps on Ant’s Lending Rates to Control Risk, «Bloomberg News», 7 settembre 2020.

[16] LERONG Lu, How a little Ant challenges giant banks? The rise of Ant Financial (Alipay)’s Fintech Empire; and relevant regulatory concerns, in «International Company and Commercial Law Review», 2018, p.22.

[17] https://www.mybank.cn/#loan

Scritto da
Michelangelo Morelli

Laureato in Storia delle istituzioni politiche all’Università di Bologna, frequenta attualmente il corso magistrale in Scienze storiche presso il medesimo Ateneo ed è alunno della Scuola di Politiche.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici