Intervista a Mario Tronti
- 18 Novembre 2015

Intervista a Mario Tronti

Scritto da Giacomo Bottos, Matteo Giordano

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Mario Tronti, tra i fondatori dell’operaismo italiano, ha proseguito, dopo la conclusione di quell’esperienza, la sua riflessione sulla politica, sul Novecento e sul presente. Il risultato più recente del suo sforzo teorico è il libro Dello spirito libero, uscito nel 2015. A partire da alcuni temi evocati in questo libro e nei suoi contributi recenti gli abbiamo posto alcune domande sui caratteri del nostro tempo e della crisi attuale.


Nei tuoi scritti la crisi in cui viviamo è vista come una crisi di lungo periodo, che da un lato è crisi della modernità e dall’altro è crisi del movimento operaio. Sembrerebbe che noi ci troviamo in un tempo minore che se è comprensibile solo alla luce del Novecento è al tempo stesso inferiore al Novecento stesso. Da questo punto di vista, retrospettivamente, essendo ormai entrati nell’ottavo anno della crisi, qual è il tuo punto di vista sulla crisi economica attuale? Pensi che ci fosse la possibilità di una reazione diversa da quella che effettivamente c’è stata?

Mario Tronti: Intanto dobbiamo un po’ ricostruire il giudizio sulla sostanza di questa crisi. Io non sono di quelli che si sono meravigliati della crisi economica e finanziaria perché ho sempre visto il capitalismo con l’occhio di Schumpeter: l’andamento ciclico dell’economia capitalistica, che era già implicito nell’analisi marxiana, è fatto di sviluppo e crisi, di crescita e recessione, di sviluppo e stagnazione. Naturalmente in questa spirale si sale e si scende. Non mi ha mai convinto l’enfasi con cui è stata accolta la “crisi maggiore di quella del 29”. Trovo in questo la solita impressionante incapacità di leggere la storia, anche quella più recente. Non ci si rende conto di quello che è stato la crisi del ‘29-‘33. Allora addirittura rivissero tutte le tentazioni di una lettura crollista del capitalismo, la Zusammenbruchstheorie (presente anche in alcuni elementi dell’opera di Marx, ma soprattutto poi ripresi da altri marxismi). L’intensità del passaggio di crisi tra il ’29 e il ’33 ebbe non a caso conseguenze politiche sconvolgenti: quella crisi ha favorito l’avvento del nazismo; senza di essa non ci sarebbe stata la grande iniziativa rooseveltiana e keynesiana, sviluppatasi poi nei decenni successivi; per uscirne definitivamente c’è voluta la seconda guerra mondiale. Oggi non si vede nulla di simile. Quella crisi letteralmente esplose verticalmente. Quella di oggi, è una crisi strisciante, orizzontale che si prolunga in avanti e da cui non si sa come uscirne, anche se in qualche modo se ne uscirà. Perché non ci sono i Roosevelt, e i Keynes? Perché quelli diedero una lettura politica della crisi e oggi è proprio questa lettura politica che manca. Analogo discorso si potrebbe fare sulla finanziarizzazione del capitale e dell’economia. Anche questa non è poi un’assoluta novità: il capitalismo finanziario c’era stato sin dall’inizio del Novecento, ne aveva parlato Hilferding. Bisognerebbe semmai proporsi di condurre tipi di analisi delle forme nuove e diverse con cui il sempre eguale del capitalismo si ripete. E invece è opinione corrente e senso comune ricorrente che tutto quanto sta accadendo sia un qualcosa di mai accaduto. È appunto il tempo minore che vuol dare di sé una insussistente immagine d’epoca. Chiaramente nulla è da sottovalutare: questo tipo di crisi ha pesato sulle condizioni di lavoro e sulla vita delle persone. Questo è semmai il dato maggiore, che deve impegnare la politica. Si tratta in realtà del fallimento di quella fase neoliberista, che ha visto il venir meno del controllo politico sul ciclo economico, che ha archiviato il rapporto corretto tra Stato e mercato, in base all’ideologia del mercato autoregolantesi e della fine della storia dello Stato. Con la belle époque del nuovo che avanza, abbiamo avuto di fatto un impressionante ritorno di Ottocento: perché la fase di libero scambio era tipicamente ottocentesca e fu proprio quella che sfociò nella crisi del ’29. E l’insegnamento che si ricavò da quella crisi, anche da parte capitalistica, fu proprio il riconoscimento che l’economia è sempre economia “politica”. Non è vero che l’economia da sola funziona meglio; al contrario: si inceppa. Questa è la lezione che è stata ricavata e che oggi non si ricava, perché la delegittimazione della politica novecentesca ha fatto sì che non ci sia più government ma solo governance. Non c’è più una politica che possa salvare il capitalismo, in quanto è stata destrutturata la politica stessa. Lo Stato-nazione ha perso di sovranità. E il mercato globale non può essere controllato come lo Stato controllava il mercato nazionale. A livello globale non c’è un sovra-Stato in grado di controllare l’economia globale. Globalizzazione economica senza globalizzazione politica non poteva non portare che a questo tipo di crisi, da cui non si esce se non si recupera un controllo politico del ciclo economico. Questa è la mia lettura. Dopo di che torniamo sempre al dunque: non c’è un ceto politico europeo e anche mondiale adeguato alla fase, quindi non facciamo altro che subire la crisi economica e le sue devastanti conseguenze sociali. È possibile che questa diventi una condizione cronica del capitalismo contemporaneo. Non ci sarà nessun grande crisi del capitalismo e nessun grande sviluppo. Si galleggerà in questa terra di mezzo, che per le forze di trasformazione alternativa sarà come quella “pace perpetua” che Kant ricavava dall’iscrizione sul cancello del cimitero. Concludo così: qui non c’è più stato di eccezione, la crisi non ha portato alcuno stato di eccezione, la crisi è diventata la normalità. Soltanto nello stato di eccezione si può introdurre un meccanismo dissolutivo del sistema. Ecco, questa crisi, questo stato di normalità della crisi, è una stagnazione politica che probabilmente andrà avanti finché forse grandi potenze emergenti, su un terreno tutto geopolitico, non daranno quella scossa di sistema in grado di innescare un nuovo momento di eccezionalità.

Da un altro lato si potrebbe dire che la globalizzazione va però nella direzione prefigurata da Marx: tutto diventa merce e lo spazio capitalistico diventa globale

Mario Tronti: Io credo che la crisi sia anche servita a questo: ad uscire definitivamente dalla fase industrialista del capitalismo. Io uso un concetto che riconosco difficile da assumere, stante la pigrizia mentale diffusa, tipica del nostro tempo. È quello che chiamo “intelligenza di sistema”: il capitalismo è un sistema molto intelligente, forse il più intelligente sistema di convivenza conflittuale mai inventata. Questa intelligenza esiste non perché qualche grande vecchio la possegga, e non perché la si dichiari tale, ma solo perché così accade, nelle leggi di movimento. Cosa ha capito l’intelligenza di sistema? Ha capito – è solo un esempio – che nel capitalismo industriale si annidava il massimo pericolo per il capitalismo stesso: quella forza-lavoro operaia, sua indispensabile parte interna e in quanto tale al tempo stesso minacciosa presenza antagonista. La classe operaia, il proletariato industriale, che si fa storicamente classe nella grande concentrazione di fabbrica e attraverso l’organizzazione delle lotte, stava diventando il pericolo mortale. Unico modo per liberarsi di quel pericolo per il sistema era di liberarsi di quel soggetto stesso, sopprimendo, superando, la causa che lo aveva prodotto. Il capitalismo contemporaneo, che salta oltre il capitalismo centrato sulla grande industria, fa questa mossa qui. Qui è intervenuta la rivoluzione tecnologica nei processi produttivi, quella impressionante capacità di innovazione che ha sconvolto le tradizionali forme di lavoro vivo. È storia di Occidente, ma il modello funziona anche nelle economie a industrializzazione forzata dei continenti emergenti. Questo nuovo capitalismo, della produzione immateriale, è la risposta che l’intelligenza di sistema ha dato al crescendo storico della lotta di classe. Perché gli operai qui da noi non contano? Quando scioperavano alla FIAT uscivano la mattina in 60.000 magari da un solo stabilimento. In tutto il comparto Fiat erano 200.000. Quando si muovevano, come operaio-massa collettivo, accadeva qualcosa nel paese, tremava la terra sotto i piedi del sistema sociale e politico. Il salario operaio metteva in questione il profitto capitalistico. In Italia lo abbiamo vissuto empiricamente nel ’69 con l’autunno caldo. Al seguito, c’è stata una reazione di sistema con la strategia della tensione e dall’altra parte quei primi anni Settanta con una crescita esponenziale della coscienza civile del Paese, come non si era mai visto nella storia repubblicana. La caduta, una ad una, da Detroit a Torino, di quelle fortezze che erano le città-fabbrica, come castelli medioevali in rovina, con i capannoni ridotti a fiere e a mostre, è un progresso? Sì, è un progresso. Ma l’altra faccia, quella nascosta, di questo, come di altri progressi, è quel disciplinamento del conflitto, che non a caso con la chiusura della grande fabbrica chiude una grande epoca. Badate, non crediate che non sia consapevole delle forzature contenute in questo discorso. È una ben cosciente lettura politica della questione sociale. È una ben decisa applicazione di un punto di vista di parte all’interesse cosiddetto generale. Sono così abbondanti, oltre che così accomodanti, le altre letture presenti e dominanti in tutte le pieghe del discorso pubblico, che è un piacere intellettuale elaborarne una differente, non assimilabile e non assorbibile. C’è stata una vittoria sul campo del capitale-mondo che ha sgominato il suo avversario di classe. Questo è il punto di partenza, oggi, di qualsiasi possibile lucida riflessione alternativa. Non si capisce nulla di quanto accaduto dagli anni Ottanta in poi se non si parte da qui. Nulla si comprende del biennio 1989-1991 se non si legge in questo contesto storico l’atto tragico del dissolvimento dell’intero movimento operaio, attraverso il crollo dell’esperimento comunista, l’unico che armando la classe operaia aveva veramente messo paura al capitalismo e al suo destino.

L’espressione che tu usi di intelligenza di sistema richiama per contrasto un’altra idea, da tempo abbandonata, ovvero l’idea di partito come intellettuale collettivo. Questa definizione può avere ancora un qualche significato per orientare gli sforzi nella costruzione di una razionalità alternativa?

Mario Tronti: Quella del partito intellettuale collettivo è un’idea-forza del passato che bisogna sempre tenere presente, riscoprire e mettere in circolazione: tenendo presente che non è possibile fare qualcosa di simile oggi. L’intelligenza di sistema si può applicare al solo capitalismo. Non è applicabile ad esempio al socialismo. Questo perché la storia del capitalismo affonda le sue radici molto in là nel tempo, nella nascita e nello sviluppo della borghesia, nelle sue età illuministiche, nelle sue rivoluzioni, nella fondazione e coltivazione di una grande cultura, dagli economisti classici in poi. Nell’intelligenza di sistema si è depositata una lunga storia di evoluzioni, rivolgimenti, cambi istituzionali, patrimonio intellettuale. Questo ha fatto e fa la forza del capitalismo. Il socialismo, il tentativo della sua realizzazione, è stata una creatura nata prematuramente, che, per terribili condizioni interne ed esterne, non ha avuto il tempo giusto per crescere. C’era, a questo proposito, una cosa da curare gelosamente: la durata. Si possono attraversare fasi critiche, che sembrano ingestibili: anche il capitalismo ne ha passate, e come! Ma queste non ti devono portare all’autodistruzione, devono valere come elementi di crescita. La storia della costruzione comunista del socialismo, guardate, è ancora tutta da fare. Se ripercorressimo quelle fasi, ci chiariremmo un monte di idee su quello che dobbiamo o non dobbiamo più fare o dobbiamo fare meglio: con analisi e giudizi che adesso possiamo fondare storicamente con più saggezza, senza liquidatorie condanne morali su quello che c’è stato. Bisogna con pazienza tornare a ricostruire, ammodernare, superare, ricominciare, insomma. Come ha funzionato in quell’epoca il partito come intellettuale collettivo? Ha funzionato a metà: grande intuizione teorica, malamente praticata. In Unione Sovietica, rovesciata nel suo contrario, in una gerarchizzazione burocratica, fondata sul culto della personalità. In Italia, il Partito comunista è stato un partito intellettuale collettivo in senso gramsciano, finché c’è stato Togliatti e dopo di lui il gruppo dirigente togliattiano. Quella è stata una grande scuola di politica, che dovrebbero frequentare, studiando, le nuove generazioni intenzionate ad impegnarsi nella lotta e nell’organizzazione per mettere sotto critica, e rovesciare, lo stato di cose presente.

Nella tua analisi del presente tra gli effetti delle trasformazioni che abbiamo menzionate e che rendono problematica la prospettiva di una rinascita della politica un posto importante è occupato dalla questione antropologica. Come e dove nasce tale questione? C’è un legame tra essa ed il decadimento del nostro rapporto con la memoria?

Mario Tronti: La memoria è l’unica arma che ci è rimasta. La questione antropologica è cosa molto seria e nasce con Marx, ma anche dentro Marx, e ancor più nel marxismo, ha mancato lo sviluppo necessario. Tutta la mentalità borghese è legata ad un’idea di essere umano, l’homo oeconomicus, come fondamento e risultato: narrato ideologicamente nei diversi tratti dell’individualismo moderno. Adam Smith, il padre dell’economia politica classica, è prima filosofo morale e poi economista. Il borghese è l’uomo-tipo, ancora oggi, anche se decaduto. Ci sono stati i grandi borghesi, davanti a cui bisogna togliersi il cappello: abbiamo molto da imparare da loro. Poi sono venuti i piccoli borghesi, i Bouvard e Pécuchet di Flaubert. L’uomo-tipo attuale è il borghese medio, la peggiore figura che si possa immaginare. Come tutto ciò che c’è di medio, ciò che sta in mezzo, è la devastazione umana. Noi abbiamo evocato la figura dell’uomo nuovo senza mai dire cosa doveva essere, non lo abbiamo costruito, anche perché non c’è stato dato il tempo: i nostri nemici ci hanno messo secoli, non lo si può fare in 70 anni, tra guerre civili, in un paese solo, accerchiato, con immani problemi di sviluppo materiale, con una umanizzazione forzata. Nel libro [Dello spirito libero, NdR] c’è il tentativo di cominciare a pensare questa figura antropologica. Lo spirito libero è per me la figura del futuro combattente anticapitalista, in quanto è l’uomo che nella contingenza è libero dalle sue catene, con un’autonomia di pensiero e una capacità di azione, coltivate e raffinate. Mi è capitato di dirlo con una formula, che risulta oscura solo a chi non vuol capire: Marx invece di scrivere le tesi su Feuerbach doveva scrivere le tesi su Kierkegaard. Marx ha scontato tutto il materialismo settecentesco e positivista. Ma l’idea di comunismo non poteva essere un’idea materialista: è l’interno dell’uomo, quello che il capitalismo uccide. Il capitalismo è esattamente questo: l’eliminazione dell’interiorità e quindi della libertà. Bisognerebbe rilanciare, soprattutto agli occhi delle nuove generazioni la passione rivoluzionaria del contrasto con tutta intera l’organizzazione del mondo attuale e il rifiuto di tutto intero l’attuale modo di vita. Queste scaramucce quotidiane contro questo o quell’aspetto del quotidiano, decreti governativi, mutamenti istituzionali, sistema di partito, la stessa contestazione dell’ordine economico-finanziario, sia esso in crisi o in sviluppo, non funzionano come politica veramente altra se non li metti dentro una strategia di guerra globale allo stato di cose presente. Guerra civilizzata, come abbiamo imparato dalla grande storia del movimento operaio e come si è disimparato dalle mediocri esperienze delle varie sinistre contemporanee. Ecco perché io raccomando la cura del passato come passaggio indispensabile per reincardinare un’idea di futuro. Un lavoro immane, politico-intellettuale, di restaurazione prima che di rifondazione. Parole terribili, ma pensatele bene e a lungo. Vuol dire, parafrasando: un passo indietro per farne due in avanti.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

Scritto da
Matteo Giordano

Classe '96, studia Filosofia alla Sapienza di Roma.

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