Scritto da Giacomo Centanaro
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Così come la ricchezza non comporta automaticamente influenza, l’essere ricchi non comporta l’essere potenti; è necessaria innanzitutto la volontà di esercitare influenza, di sfruttare risorse per creare legami di dipendenza. La Cina è sempre più ricca, e con il progresso sviluppa ora una nuova consapevolezza delle proprie potenzialità.
John Hulsman – scrittore, professore ed esperto di relazioni internazionali – nel maggio del 2017, in occasione del Festival di Limes, dichiarò senza mezzi termini che non ci sono prove concrete di un declino della potenza americana e di un suo cedimento di terreno a favore della Cina, nel conteso Mar Cinese così come nel resto del globo, almeno per i prossimi cinquant’anni.
Nel luglio del 2017 il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato l’imminente entrata in funzione della prima base militare permanente all’estero a Gibuti, sullo stretto di Bab el Mandeb. La base, secondo quanto riferito dai quotidiani cinesi, avrebbe la funzione di sostenere le missioni di pace cinesi in Africa, garantire la sicurezza dello stretto e ovviamente tutelare i crescenti interessi cinesi all’estero. Il sito TheDiplomat.com scrive che il governo cinese aveva già investito nella Repubblica di Gibuti circa 15 miliardi di dollari per favorire l’espansione del principale porto dell’area e delle infrastrutture a questo collegate. Uno sviluppo strategico volto a tutelare gli interessi regionali.
Curiosa coincidenza che la base cinese sorga a poca distanza dall’unica base militare permanente americana sul continente africano, anch’essa a Gibuti. Davanti alle reazioni allarmate di alcuni media occidentali, la Repubblica Popolare ha risposto mettendo in chiaro che non c’è motivo di azzardare teorie riguardo a una possibile minaccia cinese poiché la base è, anzi, la dimostrazione della volontà di Pechino di farsi carico delle proprie responsabilità di grande potenza, sia nei confronti dei propri interessi sia di quelli della comunità internazionale, rivendicando così un campo di azione pari a quello dei Paesi occidentali. Proiezione di potenza? Chiari messaggi all’Occidente dopo il “secolo delle umiliazioni”?
La Cina di Xi Jinping
Negli ultimi anni, nel dibattito interno cinese, si è fatto sempre più spesso riferimento a un periodo idealizzato della storia del Celeste Impero, quando tutti i centri di potere dell’Estremo Oriente, sottomessi, rendevano omaggio alla corte imperiale. Secondo Ian Johnson, corrispondente del New York Times, lo scopo è quello di dare l’impressione al popolo cinese che il Paese è tornato a occupare il suo posto naturale e legittimo nell’ordine mondiale, forza egemone nella regione e potenza tra le maggiori al mondo.
Un altro elemento che potrebbe suggerire un cambio di paradigma nella politica estera cinese viene dal XIX congresso del Partito comunista cinese, in occasione del quale il nuovo grande timoniere Xi Jinping ha abolito il limite dei due mandati per la carica di presidente, ponendo così solide basi per i suoi progetti di riforme strutturali; chi manovra il timone deve essere saldo alla guida. «Dopo una lunga settimana di consultazioni alla Grande Sala del Popolo nel cuore di Pechino – scrive Arianna Papalia su Pandora – i 2280 delegati hanno decretato l’ingresso della Cina in una nuova era e hanno designato la leadership che si occuperà di questa transizione, per un periodo forse anche più lungo di quello previsto dalla Costituzione». I processi decisionali interni al partito sono alquanto oscuri, anche per gli osservatori esperti, e non è sempre chiaro da quale livello giungano le direttive.
Una cosa è però certa: la linea viene tracciata nelle ristrette riunioni del Politburo e del Comitato Permanente del Politburo. Papalia fa anche notare che in controtendenza con la prassi, l’importante sessione si è conclusa senza la nomina di un successore del segretario del Partito Comunista e Presidente della Repubblica Popolare Cinese. La Cina, dopo un rinnovato impulso ideologico, si presenta al mondo come all’inizio di una nuova era. L’orizzonte della metamorfosi cinese è il 2049, centenario della nascita della Repubblica Popolare Cinese; entro quell’anno il Pil pro capite cinese, nei piani di Pechino, dovrà essere pari a quello dei paesi più ricchi e la produzione quantitativa dovrà essere accompagnata da quella qualitativa.
La Cina vuole essere la locomotiva di uno sviluppo economico che porti benefici a tutti i partner che decideranno di diventarne alleati: i giochi a somma zero alla lunga non giovano. L’ambasciatore cinese all’Asean (Association of South-East Asian Nations) Huang Xilian scrive a questo proposito sul Global Times: «Puntiamo a promuovere un nuovo modo di condurre le relazioni internazionali fondato su mutuo rispetto, equità, giustizia e una cooperazione vantaggiosa per tutte le parti, e a costruire una comunità che condivida lo stesso progetto di futuro per l’umanità. Questo è l’obiettivo principe della diplomazia cinese nella nuova era». Pechino ha interesse che le basi del sistema economico internazionale reggano poiché un ritorno alla logica protezionista “beggar-your-neighbour” degli anni Trenta, anche se parziale, ostacolerebbe i suoi piani.
Gli orizzonti della nuova Via della Seta
Il diretto precipitato di questa filosofia è la Belt and Road Initiative, la nuova “Via della Seta”, il cui progetto è stato presentato da Xi Jinping nel 2013, insieme alla proposta contestuale di costituire la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture, dotata di un capitale di 100 miliardi di dollari di cui il governo cinese sarebbe il principale socio con un capitale pari a 29,8 miliardi. Come ricorda Ugo Salerno, presidente e amministratore delegato di RINA S.p.A. (Registro italiano navale), la colossale iniziativa si comporrà di circa 900 progetti, di cui beneficeranno e in cui saranno coinvolti 80 paesi con un profitto complessivo di 2,5 trilioni di dollari l’anno. La Belt and Road Initiative si fonda su 5 trilioni di dollari di progetti infrastrutturali, articolati in una via terrestre, parzialmente marginale, per le merci con precedenza (i costi dei trasporti via terra sono dieci volte più elevati rispetto a quelli per via marittima) e in una via marittima, che costituirà la parte preponderante del progetto. Le tratte coinvolgeranno tutte le maggiori economie dell’Oceano Indiano fino ad approdare sulle coste europee in Italia (Genova, Trieste), Grecia (porto del Pireo) e tutte le nazioni attraversate dall’antica tratta euroasiatica della Via della Seta. Questo mastodontico progetto è stato inoltre accolto con favore e sostenuto da alti esponenti delle Nazioni Unite; persino il Segretario Generale António Gutiérrez ha definito la Belt and Road Initiative un pilastro fondamentale del piano Onu per sconfiggere la povertà nei paesi in via di sviluppo entro il 2030: offre infatti la prospettiva di trilioni di dollari mirati a investimenti infrastrutturali, in un periodo in cui gli Stati Uniti stanno tagliando i fondi per l’assistenza internazionale.
Ma la Via della Seta di Xi Jinping sta allargando sempre più i suoi orizzonti, fino alle porte del “cortile di casa” della Casa Bianca; nel giugno del 2017 il governo panamense ha rotto le relazioni diplomatiche con Taiwan per riconoscere e stringere forti legami con la Cina popolare e aprirsi agli investimenti cinesi per tutti i principali progetti infrastrutturali dello Stato. Secondo la Commissione economica delle Nazioni Unite per America Latina e Caraibi Pechino sta diventando il principale partner commerciale di tutti i maggiori stati latino-americani. Chissà se gli americani sentiranno la necessità di rispolverare la vecchia dottrina Monroe per salvaguardare i propri interessi, questa volta non dagli europei ma dai cinesi?
Guardando all’esperienza degli Usa nel secondo Novecento si nota come l’interdipendenza economica sia stata uno dei collanti tra la superpotenza e i paesi a questa associati. La Cina ha ora i mezzi economici per portare avanti una politica simile. Soffre di sovrapproduzione, ha una bilancia commerciale saldamente in attivo e la sua costellazione è in via di formazione. La costellazione americana sembra invece essere sottoposta a una almeno apparente revisione. Come suggerisce sempre Hulsman dai microfoni della conferenza, «ignorate ciò che Trump dice, prestate piuttosto attenzione a ciò che conclude», si può facilmente notare come attraverso tendenze mercantiliste l’esecutivo spesso metta in difficoltà i partner europei e faccia pressioni sugli alleati affinché forniscano il proprio contributo per mantenere la pax americana. La Cina si è dichiaratamente erta a guardiana e protettrice del multilateralismo e di un sincero dialogo tra i paesi, ma allo stesso tempo mira a consolidare il proprio status di superpotenza e in questo rivela una certa ambiguità nella sua politica estera. Aspira a un’intesa con l’Europa (recentemente segnata dalla sferzata di Trump sul caso iraniano) nella lotta all’unilateralismo americano, offre il suo aiuto contro l’egemone predatore e sostiene l’azione di governance globale dell’Onu. La Cina non intende però ereditare tutti gli oneri della leadership americana. Sembra quasi che allo scadere dei cinquanta anni indicati da Hulsman non ci sarà un passaggio di testimone, ma una grande (seppur ridimensionata) potenza nazionale e un nuovo impero informale, lontano e non preannunciato erede, forse, di quello di Sua Maestà britannica e di ciò che esso ha rappresentato per quasi tutto il XIX secolo.
La Storia però ci insegna che il potere genera resistenza e che, nell’intersecarsi della traiettoria discendente del vecchio egemone e di quella ascendente dello sfidante, la trappola di Tucidide è sempre in agguato.
Ma a chi si dimostra scettico nei confronti del nuovo ruolo internazionale del dragone rosso, Xi Jinping risponde: «Primo, la Cina non esporta la rivoluzione. Secondo, la Cina non esporta fame e povertà. Terzo, la Cina non esporta seccature. Che altro c’è da dire?».