Gli Stati Uniti e la ribellione delle élite
- 11 Gennaio 2022

Gli Stati Uniti e la ribellione delle élite

Scritto da Alessandro Aresu

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Questo contributo è tratto dal numero 4 di «Pandora Rivista» – uscito nel 2016 e intitolato “Élite” – ed è stato scritto all’epoca dell’elezione di Trump. L’articolo di Alessandro Aresu è ora liberamente accessibile, altri sono leggibili solo agli abbonati nella sezione Pandora+ che ospita l’archivio delle versioni online dei contributi dei numeri cartacei pubblicati.


I. Il musical Hamilton di Lin-Manuel Miranda, a Broadway dal 2015, dedicato alla vita del padre fondatore Alexander Hamilton, è stata l’ultima e sorprendente incarnazione della religione civile degli Stati Uniti. Ha restituito una capacità unica di tornare alle proprie origini per ravvivarle, facendo rappare e cantare a milioni di persone le vicende della fondazione.

Nella scena che racconta l’elezione del 1800, si raffrontano Thomas Jefferson e Aaron Burr, dando spazio alle opinioni degli elettori: UN ALTRO ELETTORE MASCHIO: E Jefferson / DUE UOMINI: Quello lì è innamorato della Francia / UN’ALTRA ELETTRICE DONNA: Già, è così elitista! / DUE DONNE: A me piace quell’Aaron Burr! / UNA DONNA: Wow, non posso credere che siamo davvero qui assieme a lui! / UN UOMO: Sembra uno alla mano? / UN ALTRO ELETTORE MASCHIO: È il tipo di persona con cui si può prendere una birra [1].

In realtà, l’accusa di essere il campione “elitista” tra i Padri Fondatori è stata normalmente formulata proprio contro l’eroe del musical, Alexander Hamilton, per la sua filosofia legata all’azione centralizzatrice del governo, alla centralità del potere esecutivo, al sospetto verso lo spirito democratico (capace di amazing violence and turbulence), alla vicinanza al potere finanziario. Secondo la biografia su cui si basa il musical, «la sua implicita preferenza per l’élite basata sul merito venne fraintesa dai suoi nemici come un’adorazione segreta dell’aristocrazia». D’altra parte, questa incomprensione era giustificata da un’ambiguità presente nello stesso pensiero di Hamilton, che spesso evocava un passato in cui le élite privilegiate prendevano decisioni in luogo di cittadini meno preparati, così contraddicendo «il pensiero economico espresso nella sua visione di una élite fluida e meritocratica, aperta agli outsider di talento come lui stesso» [2].

Al contrario, l’opera di Lin-Manuel Miranda esalta Hamilton come simbolo di una nazione di immigrati e come icona della mobilità sociale, il «padre fondatore senza un padre» che passa dalla povertà all’amministrazione dell’economia della giovane nazione, diventando dal nulla la persona più importante della storia dell’economia e dell’impresa degli Stati Uniti [3].

II. Che si tratti di prendere una birra o di comprare un’auto usata, il simbolismo sulla vicinanza al popolo dei candidati per le cariche pubbliche è una caratteristica saliente della riflessione sulla politica americana e della sua percezione pubblica. Un libro pubblicato postumo dal sociologo Christopher Lasch (1932-1994), The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy [4], fornisce un’impalcatura teorica per affrontare questo tema, tenendo presente la specificità degli Stati Uniti. L’aspetto centrale della ricerca di Lasch è la preoccupazione sul futuro della democrazia. A suo avviso, la minaccia principale alla democrazia degli Stati Uniti viene dall’abisso «che divide le classi privilegiate dal resto della nazione». A metà degli anni Novanta del Novecento, le élite non sono «mai state così pericolosamente isolate da quanto le circonda». Il problema che Lasch cerca di svolgere nella sua opera, tanto in The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy quanto nei lavori precedenti dedicati alla critica dell’individualismo radicale (The Culture of Narcissism) e del concetto di progresso (The True and Only Heaven), è proprio la separazione tra gli strati della società. La minaccia per la tenuta della democrazia per Lasch sta in questo straniamento reciproco delle élite e del resto della società, perché ciò rende impossibile un discorso pubblico comune, legato alla volontà e alla capacità di tradurre i diversi linguaggi che compongono la democrazia. La ribellione non riguarda più principalmente le masse, ma le élite, perché il passo dello straniamento e della separazione è stato compiuto dalle stesse élite, le quali «guardano alle masse con una mescolanza di disprezzo e di apprensione» e hanno rinunciato agli spazi e alle istituzioni comuni. La ribellione delle élite sta quindi in un’opzione politica precisa, la loro decisione di costruire una realtà parallela, nell’urbanistica, nell’istruzione e nella politica: in questo modo una parte della nazione alimenta attivamente lo spirito di fazione (faction) che i Padri Fondatori ritenevano particolarmente dannoso per le repubbliche. Ne consegue una “insularizzazione” in cui il conflitto democratico tra diversi interessi non esiste più, perché manca il momento del riconoscimento. È in questi termini che Lasch legge le cultural wars, le guerre culturali: «Le guerre che hanno sconvolto l’America dagli anni Sessanta in poi si comprendono meglio se le vediamo come una specie di guerra di classe, in cui una élite illuminata (una élite, almeno, che si considera tale), cerca non tanto di imporre i propri valori alla maggioranza (una maggioranza considerata incorreggibilmente razzista, sessista, provinciale e xenofoba), e meno ancora di convincere la maggioranza con gli strumenti del dibattito razionale, quanto di creare delle istituzioni parallele o “alternative” in cui non sarà più necessario scontrarsi con i non illuminati». In questa costruzione delle realtà parallele e delle istituzioni parallele, la possibilità della discussione viene quindi espulsa. Gli illuminati e i non illuminati possono ritrovarsi nei loro rispettivi gruppi, ma non avere un’arena comune per comporre – e anzitutto chiarire – i loro conflitti. L’incontro delle élite con gli altri non è quindi democrazia. È più che altro una forma di turismo. Con il conflitto, viene espulso anche il concetto di classe («il concetto basilare che le nostre élite respingono come inguaribilmente fuori moda»), per affidarsi a espressioni edulcorate e neutre per affrontare la questione del potere.

Leggere oggi Lasch è interessante perché la sua operazione a metà degli anni Novanta recuperava in senso positivo una parola che gode di pessima reputazione: populismo. A suo avviso il populismo è la «voce autentica della democrazia». Lasch si riferisce al concetto statunitense di populismo, radicato nella difesa della piccola proprietà, ma non ne fornisce una puntuale definizione storica. Come ha mostrato Michael Kazin, la storia della proposta populista negli Stati Uniti non è legata solo all’ascesa del People’s Party alla fine del diciannovesimo secolo (e alla ripresa di alcune esigenze populiste di uguaglianza e di contrasto attivo ai trusts da parte di un fiero oppositore e ridicolizzatore del People’s Party come Theodore Roosevelt). La persuasione populista, infatti, è tornata ciclicamente nella storia del Novecento. Per esempio, negli anni Sessanta l’appello al populismo accomunava George Wallace, governatore dell’Alabama, e gli studenti che protestavano contro il suo segregazionismo [5]. Populista lui, populisti gli altri. D’altra parte, il populismo si lega sempre sia alla costruzione/indicazione di un “popolo” che a quella dell’élite, una power élite (Charles Wright Mills) più o meno definita. Perciò, entrambi questi concetti sono resi omogenei nella retorica politica, ma difficilmente sono tali.

In The Revolt of the Elites, Lasch discute insieme il populismo e il comunitarismo. A suo avviso, sia il populismo che il comunitarismo si oppongono alla ragione illuminista e cercano una terza via rispetto al predominio del mercato e allo stato assistenziale. In particolare, Lasch definisce il populismo in opposizione alla «ideologia della compassione», ovvero alla rinuncia della società di elevare il livello generale di competenza – «il vecchio significato della democrazia» – per rendere invece prassi istituzionale il diritto della classe responsabile di occuparsi di tutti gli altri, attraverso «pretese di superiorità morale avanzate a nome degli oppressi». In questo senso, per tornare alle cultural wars, c’è una vicinanza tra populismo e comunitarismo all’interno delle posizioni conservatrici su principi e valori morali, per esempio sulla famiglia e l’aborto. Questo aspetto, tuttavia, per Lasch non è il più importante. Ciò che distingue il populismo è una specifica attenzione al problema economico, senza cui è impossibile comprendere il concetto di comunità. Nella sua idea della politica della compassione le élite si occupano di ciò che non conoscono, dacché vivono in un mondo separato. Nella politica populista, le questioni di classe sono centrali: «le grandi ineguaglianze, come i populisti hanno sempre sostenuto, sono incompatibili con qualsiasi forma di comunità quale oggi sarebbe considerata desiderabile e (…) tutto dipenderà, come sempre, dalla possibilità di colmare l’abisso tra le élite e il resto della nazione».

Che si tratti di “divergenza” o di “abisso”, la questione della separazione tra le élite e il resto della nazione è diventata una costante del dibattito intellettuale degli Stati Uniti, nelle analisi di alcuni dei suoi maggiori protagonisti. Limitiamoci a due esempi. Nel 2004 Samuel Huntington ha utilizzato l’espressione «uomo di Davos» per descrivere la nuova élite globale cosmopolita, formata da persone che vedono i confini nazionali come ostacoli per fortuna destinati a svanire e considerano i governi nazionali dei relitti del passato che si rendono utili solo quando facilitano la loro operatività globale. Nel 2012 Charles Murray ha pubblicato Coming Apart: The State of White America, 1960-2010, in cui descrive con un notevole apparato statistico le faglie dell’America bianca degli ultimi cinquant’anni, con la riduzione della classe media e la separazione crescente tra una classe disagiata e una nuova superclasse. La superclasse vive in quelli che Murray chiama i SuperZIPs, i codici postali indicatori di ricchezza, in cui la meritocrazia funziona in modo così perfetto da disegnare una società perfettamente chiusa rispetto alle influenze esterne: i membri della classe più agiata vivono negli stessi quartieri, hanno le stesse abitudini alimentari e sportive, frequentano le stesse scuole e università, si sposano tra di loro. Il momento in cui una élite si guarda allo specchio è quello della circolazione, e nell’analisi di Murray la circolazione non esiste.

 

III. «Nel 1959, un giovane uomo giunse negli Stati Uniti dal Kenya, si innamorò di una ragazza del Kansas e divenne padre di un figlio che, da grande, mantenne la promessa che qualunque ragazzo, per quanto sembri impossibile, può diventare Presidente. Nel 1973, un altro giovane uomo giunse qui da Porto Rico, imparò l’inglese, mise su famiglia fino a vedere, una notte del 2009, suo figlio ricevere una standing ovation dal Presidente degli Stati Uniti» [6]. L’intreccio delle storie di Alexander Hamilton, di Barack Obama e di Lin-Manuel Miranda cerca di testimoniare che nella nazione di immigrati ogni cosa è possibile. Il musical Hamilton si apre con la domanda: «Come può un bastardo, un orfano, un figlio di puttana scozzese, gettato dalla provvidenza nella povertà e nello squallore del mezzo di un posto dimenticato dei Caraibi, crescere e diventare un eroe e uno studioso? [7]» La risposta a questa domanda è: gli Stati Uniti d’America. La storia di Barack Obama dovrebbe testimoniarlo, il musical di Lin-Manuel Miranda dovrebbe raccontarlo di nuovo, trasmettendo la frenesia dell’ascesa e della circolazione delle élite. Grazie alla forza trascinante del merito, un orfano può diventare padre fondatore, e chiunque può diventare qualunque cosa. Davanti al mantenimento di questa promessa, l’America dovrebbe ascoltare e commuoversi, riconoscersi in quello specchio. Invece, le cose non sono così semplici. La storia è più ambigua: se i diversi stili musicali di Hamilton mettono sullo stesso palco i conflitti dei Padri Fondatori, quei conflitti parlavano in ogni caso linguaggi traducibili gli uni con gli altri. I loro contrasti potevano essere ricomposti nella democrazia. Quando gli abissi, ideali e materiali, segnano le differenze, e in esse si inseriscono le grandi cesure demografiche, non è detto che possa esservi una vera ricomposizione, tantomeno basata su singole storie di successo. Per questo, gli specchi di Lasch e di Hamilton convivono negli Stati Uniti di oggi.


[1] Lin-Manuel Miranda e Jeremy McCarter, Hamilton. The Revolution, Grand Central Publishing, New York 2016, p. 259.

[2] Ron Chernow, Alexander Hamilton, Penguin Books, Londra 2004, pp. 218 e 234.

[3] Il giudizio è dello storico Thomas K. McCraw.

[4] I virgolettati di questo paragrafo, qualora non diversamente indicato, sono tratti dalla traduzione italiana del volume, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano 2009.

[5] Si vedano Michael Kazin, The Populist Persuasion, Basic Books, New York 1995, e, in riferimento alla campagna presidenziale del 2016, il suo How Can Donald Trump and Bernie Sanders Both Be ‘Populist’?, «New York Times Magazine», 22 marzo 2016.

[6] Lin-Manuel Miranda e Jeremy McCarter, op. cit., p. 15.

[7] Ibidem, p. 16.

Scritto da
Alessandro Aresu

Laureato in Filosofia del diritto con Guido Rossi all’Università San Raffaele di Milano, è consigliere scientifico di «Limes» e collabora con varie riviste. È stato consulente e dirigente di diverse Istituzioni, tra cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia” (Feltrinelli 2022), “I cancelli del cielo. Economia e politica della grande corsa allo spazio. 1950-2050” (con Raffaele Mauro, Luiss University Press 2022), “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina” (La Nave di Teseo 2020) e “L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia” (con Luca Gori, il Mulino 2018).

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