Recensione a: Branko Milanovic, Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media, LUISS University Press, Roma 2017, pp. 256, 24 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Molto spesso, quando si parla di globalizzazione, il dibattito pubblico si risolve in uno scontro manicheo aspro ma sterile, che vede contrapporsi da un lato la retorica nazionalista dilagante in questi ultimi tempi, dall’altro un’acritica accettazione dell’esistente.
L’apertura dei mercati, la rivoluzione tecnologica e l’emergere delle potenze asiatiche hanno provocato un maremoto socio-economico di enorme portata: il tradizionale sistema fordista e socialdemocratico radicatosi nelle democrazie occidentali nel secondo dopoguerra si è pian piano eclissato, sostituito da un’economia privatizzata e deregolamentata, caratterizzata dalla libera mobilità di capitali e da un’ipertrofia del settore terziario. Le radicali trasformazioni della struttura economica qui sopra accennate, unite alle conseguenze nefaste della Grande crisi del 2008, hanno portato alla sua acme la percezione di un fenomeno antico quanto l’economia stessa: il problema della disuguaglianza.
In questi ultimi anni la denuncia di una disuguaglianza sempre più marcata e le proteste contro una globalizzazione iniqua hanno trovato voce sia nel mondo politico che in quello intellettuale. Affinché il dibattito non si riduca ad un vociare confuso e poco costruttivo, è necessario analizzare alcune delle questioni più problematiche portate alla luce dalla globalizzazione degli ultimi trent’anni: plutocrazie, declino della classe media occidentale e l’emergere di quella asiatica, sostenibilità del capitalismo democratico.
Branko Milanovic, economista e in passato lead economist presso il centro di ricerca della Banca Mondiale, è uno dei maggiori esperti di disuguaglianza economica e nel suo ultimo libro traccia una diagnosi del presente di straordinaria raffinatezza, degna dell’ambizioso titolo: Ingiustizia globale[1]. Il libro non è lunghissimo, ma è denso: le quasi trecento pagine sono disseminate di dati, grafici e chiarimenti metodologici. In questo articolo verranno trattati gli esiti più rilevanti delle ricerche di Milanovic, senza eccessivi richiami al lavoro analitico sottostante: in sostanza, si privilegerà gli aspetti concettuali rispetto a quelli statistico-matematici.
L’Autore si focalizza sui cambiamenti più significativi nelle distribuzioni dei redditi registrati a livello globale dal 1988, anno che, a suo parere, rappresenta «un punto di partenza comodo perché quasi coincide con la caduta del muro di Berlino e il reinserimento delle economie ex comuniste nel sistema economico mondiale» (pp.2-3). In questo arco temporale – dal 1988 a oggi-, ma non senza rimandi al passato e riflessioni sul futuro, si distende l’analisi dell’economista, una disamina a trecentosessanta gradi dell’attuale sistema-mondo.
Nel periodo che va dal 1988 alla crisi finanziaria del 2008, definito dall’Autore «alta globalizzazione», i guadagni sono stati distribuiti in modo tutt’altro che uniforme. Se da un lato è errato ritenere l’apertura globale dei mercati un peccato capitale, da espiare con un ritorno unilaterale ad un passato fin troppo mitizzato[2], altrettanto ingenuo è chiudere gli occhi di fronte alle storture provocate da questa apertura: «È proprio la natura del tutto ambivalente della globalizzazione che spero di chiarire in questo libro. Il lettore deve essere costantemente consapevole che la globalizzazione è una forza sia positiva che negativa» (p.32).
Chi sono i beneficiari della globalizzazione? In nove casi su dieci, sostiene Milanovic, appartengono a economie emergenti asiatiche, principalmente la Cina, ma anche India, Vietnam, Indonesia e Tailandia. L’Autore chiama questi vincitori della globalizzazione la «classe media globale emergente», i cui redditi reali tra il 1988 e il 2008 sono, secondo i calcoli dell’economista e al netto delle varie sfumature tra i diversi paesi, più che raddoppiati. Tra i perdenti figura invece la «classe media inferiore del mondo ricco»[3], che ha visto i propri redditi stagnare. Gli studi di Milanovic[4] individuano inoltre un secondo (e il vero) vincitore, il più ricco 1-5% a livello globale: dell’intero incremento di reddito globale tra il 1988 e il 2008, il 44% del guadagno assoluto è finito nelle mani del più ricco 5% a livello globale (alla classe media emergente solo il 12-13%).
Dopo la crisi del 2008 si fa ancora più marcata la crescita della classe emergente asiatica: «il riequilibrio dell’attività economica in favore dell’Asia e a scapito dell’Europa e del Nord America non viene interrotto, quanto piuttosto rafforzato dalla crisi» (pp.36-37). La crisi colpisce infatti solamente i paesi occidentali e, più precisamente, le classi medie di questi paesi, non i cosiddetti super-ricchi.[5].
Milanovic, per spiegare l’aumento delle disuguaglianze interne nei vari paesi dagli anni Ottanta ad oggi, parte da un’analisi critica della teoria di Simon Kuznets: l’ipotesi di Kuznets – secondo la quale la disuguaglianza è bassa a livelli di reddito molto bassi, aumenta con lo sviluppo dell’economia e alla fine torna a calare a livelli di reddito alti- non si sposa con il recente aumento della disuguaglianza di reddito nel mondo ricco.[6] Milanovic si spinge oltre: «La mia tesi è che l’era storica moderna – i passati cinquecento anni- sia caratterizzata da onde di Kuznets che alternano aumenti e diminuzioni della disuguaglianza» (pp.59-60). Se prima della rivoluzione industriale il reddito medio era generalmente fisso, con lievi oscillazioni dovute a eventi idiosincratici (epidemie, scoperte geografiche, guerre), in seguito il reddito inizia a crescere in modo sostenuto[7]. Le trasformazioni strutturali (urbanizzazione, industrializzazione) spingono la disuguaglianza ad aumentare fino a un picco nei paesi ricchi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, per poi diminuire nel corso del secolo breve grazie all’azione di forze, per dirla con l’Autore, «maligne» (guerre) e «benigne» (welfare state).
Queste forze si esauriscono agli inizi degli anni Ottanta[8]: come spiegare il recente aumento delle disuguaglianze?[9] A partire dalle conseguenze della seconda rivoluzione tecnologica e della globalizzazione. Per quanto riguarda il lavoro, si osserva un passaggio dal settore manifatturiero a quello più eterogeneo dei servizi, dove la dispersione salariale risulta maggiore e che, per la sua intrinseca duttilità, riduce le capacità di organizzazione dei lavoratori con un conseguente calo del tasso di sindacalizzazione (e quindi indebolimento della posizione contrattuale del lavoro rispetto al capitale). La mobilità dei capitali, sempre più difficili da tassare, priva il tradizionale Stato-nazione di risorse preziose, mentre l’emergere della manodopera a basso costo dei paesi asiatici indebolisce ulteriormente la posizione dei lavoratori occidentali. Infine, anche le scelte politiche hanno contribuito all’esacerbarsi delle disuguaglianze.
In merito alle disuguaglianze tra i vari paesi, i calcoli dell’economista dimostrano come l’apertura dei mercati abbia avuto anche effetti positivi: se ci atteniamo alla misura Gini[10], possiamo osservare come il valore globale sia passato da 72,2 (1988) a 70,5 (2008) a 67 (2011). In poche parole, a livello globale, la disuguaglianza è diminuita. I segni di decrescita maggiori si colgono dagli anni Duemila, grazie al costante sviluppo di Cina e India. Il periodo che va dagli anni Ottanta ad oggi ha quindi visto la disuguaglianza interna nei vari paesi aumentare mentre la disuguaglianza tra nazioni diverse diminuire, a causa del recupero in termini di sviluppo economico[11] dei paesi asiatici.
L’Autore propone due teorie per esaminare i prossimi decenni: «La prima vuole che la globalizzazione dovrebbe accompagnarsi a una maggiore convergenza di reddito, vale a dire che i redditi dei paesi poveri dovrebbero raggiungere quelli dei paesi ricchi, perché ci si aspetta che le economie povere o emergenti registrino tassi di crescita più sostenuti su base pro capite rispetto a quelle ricche. […] La seconda teoria affronta il movimento delle disuguaglianze interne delle nazioni, che è caratterizzato da un movimento in diversi segmenti sia della prima sia della seconda onda di Kuznets (in funzione di dove si trova un’economia)» (p.180). La prima teoria non è invalidata dal recente rallentamento della Cina, poiché vi sono anche le altre potenze asiatiche a contribuire alla convergenza economica[12].
La seconda teoria diverge a seconda della nazione: ad esempio, in Cina potrebbe registrarsi un calo delle disuguaglianze (come i paesi occidentali nel Novecento) mentre altri paesi più poveri potrebbero registrare ulteriori aumenti di disuguaglianza (come i paesi occidentali nell’Ottocento). Le economie ricche – in posizione avanzata nel processo della seconda rivoluzione tecnologica – potrebbero proseguire il segmento di rialzo della seconda onda di Kuznets (come a seguito della rivoluzione industriale)[13], e quindi aumentare ulteriormente le disuguaglianze. Oppure, se le rivendicazioni sociali si faranno più forti, potrebbero avviarsi verso il segmento di flessione della seconda onda e quindi verso una riduzione delle disuguaglianze (come nel Novecento).
Con l’incessante aumento delle disuguaglianze interne nei vari paesi, è sostenibile, si chiede l’Autore, il capitalismo democratico? La domanda prende la mosse da un fenomeno preoccupante che sta avvenendo nelle democrazie occidentali: l’eclissi della classe media. La produzione, nota l’economista non senza estremizzare il fenomeno, si sposta sempre di più verso i beni di lusso, mentre le risorse pubbliche, lungi dall’essere investite in istruzione e infrastrutture, sono sempre più impiegate per la sicurezza, in modo da soddisfare le istanze della «nuova plutocrazia globale»[14]. «Mentre il sistema politico rimane democratico nella forma […] sta cominciando sempre di più ad assomigliare a una plutocrazia. In termini marxisti, è una dittatura della classe dei possidenti anche se sembra, formalmente, una democrazia» (p.216). Che cosa accadrà alle classi medie dei paesi ricchi? «I lavoratori dei paesi ricchi sono schiacciati tra gli individui che guadagnano di più nei loro paesi, che continueranno a ricavare denaro dalla globalizzazione, e i lavoratori dei paesi emergenti, più appetibili perché più economici» (p.236)[15].
Considerato che l’uscita dalla povertà della classe media emergente è una conseguenza positiva della globalizzazione, il problema da risolvere è quello delle disuguaglianze interne; come ridurle senza ricorrere alle ricette dello scorso secolo[16], difficilmente attuabili in presenza di un mercato libero e globale? Secondo Milanovic ci si dovrà focalizzare sulle dotazioni iniziali – per ridurre le disuguaglianze di partenza- e l’istruzione. Ad esempio, per quanto concerne le dotazioni, si potrebbe rendere le imposte di successione più elevate così da non permettere ai genitori di trasferire nutriti beni patrimoniali ai propri figli. Questo deve essere però sostenuto, scrive Milanovic, da un forte impegno volto a rendere libero l’accesso all’istruzione, unico modo per ridurre la cristallizzazione della società in ceti ricchi i cui figli prenderanno le vie dei genitori e poveri destinati a rimanere poveri. Non bastano, secondo l’Autore, i progressi in termini di uguaglianza legale (pari diritti tra generi etc.), perché questa, in virtù dell’astrattezza legale, distoglie lo sguardo dal problema di fondo: la distribuzione iniqua della ricchezza.
La conclusione del libro è un elogio al pessimismo, l’Autore infatti si domanda: «Con il proseguire del processo di globalizzazione scomparirà la disuguaglianza? No. I guadagni dalla globalizzazione non saranno distribuiti equamente». Il volume però, nonostante il finale poco incoraggiante, offre al lettore la possibilità di comprendere il presente in tutte le sue sfumature, senza semplificazioni o banalizzazioni. Il merito principale di queste pagine è infatti quello di analizzare i fenomeni legati alla disuguaglianza globale senza lenti ideologiche, ma basandosi su dati rigorosi. Il risultato è una diagnosi di grande spessore, utile per orientarsi nel grande disordine globale.
A questo link una nostra intervista a Branko Milanovic sulle disuguaglianze.
[1] In italiano è stato tradotto con il termine ingiustizia, anche se il titolo originale del libro è Global Inequality.
[2] Per ricordare il grande sociologo Zygmunt Bauman, possiamo parlare in questo caso di visione «retrotopica».
[3] Europa occidentale, Nord America, Oceania (per queste si usa spesso l’acronimo WENAO) e il Giappone.
[4] L’economista si rifà ad un grafico ad S rovesciata, il cosiddetto grafico ad elefante (perché assomiglia ad un elefante con la proboscide sollevata). La percentuale di guadagno è sempre maggiore tra le classi medie emergenti e l’1% più ricco globale e sempre più bassa per le classi medie dei paesi OCSE.
[5] Nel 2013 l’elenco dei miliardari di Forbes individua un gruppo di 1426 individui che, secondo le stime, detengono il 2% delle ricchezze mondiali; in poche parole, possiedono due volte la ricchezza esistente in tutta l’Africa. Milanovic parla di una nuova «plutocrazia globale».
[6] «Il segmento di flessione della curva di Kuznets, che indica il calo della disuguaglianza nei paesi ricchi, sembra comportarsi come previsto dall’ipotesi fino agli anni Ottanta. Da quel punto temporale però, contrariamente alle aspettative, la curva torna a salire» (p.55).
[7] Secondo l’Autore, una crescita del reddito totale apre la «frontiera delle disuguaglianze possibili»
[8] Per riportare alcuni calcoli dell’Autore: l’anno di massima disuguaglianza per gli USA è il 1933, quello di minima disuguaglianza il 1979. Per la Gran Bretagna, rispettivamente il 1867 e il 1978, per l’Italia il 1861 e il 1983, per il Giappone il 1937 e il 1981 (misura Gini). Dagli anni Ottanta Milanovic pone l’inizio della seconda onda di Kuznets per i paesi ricchi.
[9] Ci limiteremo ad elencare sinteticamente alcuni dei fattori trattati da Milanovic.
[10] Il coefficiente di Gini è la più utilizzata misura per descrivere la disuguaglianza di una distribuzione. È un numero compreso tra 0 e 1 (in questo caso lo stiamo usando in proporzione 0-100). I valori bassi indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione. I valori più alti indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 (o 100 nel nostro caso) che corrisponde alla massima concentrazione: la situazione dove una persona percepisce tutto il reddito del paese mentre gli altri hanno reddito nullo.
[11] In ogni caso la disuguaglianza globale rimane ancora altissima, a causa soprattutto della drammatica situazione africana (motivo per cui le migrazioni non cessano e, anzi, sono destinate ad aumentare se questo continente non riuscirà ad imboccare un sentiero di crescita economica): il Gini globale di poco inferiore a 70 è comunque maggiore del valore Gini nazionale di paesi molto diseguali come Sudafrica e Colombia. L’Autore parla infatti, anche se non vi è qui lo spazio per discuterne, di «disuguaglianza geografica» e «premio di cittadinanza» (un valore numerico che rappresenta i benefici del nascere in un luogo piuttosto che in un altro).
[12] Per la convergenza economica basta, in ogni caso, che i tassi di crescita siano più alti di quelli occidentali.
[13] Questo sarà il caso degli Stati Uniti secondo Milanovic.
[14] L’Autore prende come riferimento soprattutto la realtà americana, trattando alcuni casi emblematici di connubio tra ricchi e politica, non senza estremizzare il fenomeno. L’Autore sostiene che, soprattutto a causa dei finanziamenti alle campagne elettorali, siano ormai i ricchi a dettare, o quantomeno influenzare, l’agenda politica.
[15] L’Autore parla del «grande schiacciamento della classe media» occidentale.
[16] Forte tassazione (difficile con i capitali mobili), nazionalizzazione, iperinflazione, cospicui trasferimenti sociali.