Scritto da Francesco Nasi
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Negli ultimi anni numerose voci hanno fornito chiavi di lettura importanti per osservare con occhio critico il progresso tecnologico. Tali valutazioni condividono un comune oggetto di critica: la diffusa e incondizionata fiducia nei confronti della tecnologia, che sembra a tratti assumere una dimensione semi-religiosa. D’altra parte, il legame tra tecnica e credenza religiosa non è nuovo. Il lavoro più significativo in questo senso è di Davide Noble, storico della tecnologia americano, che ha dedicato al tema un’importante opera dal titolo Religion of Technology[1]. In questo libro, Noble mostra lo stretto rapporto che hanno avuto nel mondo occidentale il progresso tecnico e la religione cristiana, spesso rafforzandosi e alimentandosi a vicenda, seppur le linee di conflittualità non siano mai mancate. In un libro recente[2], Gabriele Balbi ha parlato della trasformazione digitale come de “l’ultima ideologia”, sottolineando come, per legittimarne un’esaltazione a volte acritica, si faccia spesso riferimento ad un immaginario di tipo religioso.
Da un punto di vista della riflessione politica, però, è Carl Schmitt a parlare esplicitamente di una “religione del progresso tecnico”. Il giurista tedesco ha introdotto questo concetto nel suo saggio L’età delle neutralizzazioni e delle depoliticizzazioni[3], identificando con questa espressione la crescente tendenza che vedeva alla sua epoca a considerare proprio la tecnica il nuovo “centro di riferimento” della società europea. Può questa categoria concettuale essere ancora utile, oggi? Che cosa ci dice del nostro presente, e come può aiutarci a decifrare i fenomeni a cui assistiamo? Per tentare di rispondere a queste domande, nell’articolo si cercherà di approfondire la nozione di religione del progresso tecnico, legata a sua volta ai concetti di neutralizzazione e depoliticizzazione, provando in particolare di coglierne gli elementi che possono essere utile per una lettura del nostro tempo.
L’Europa tra centri di riferimento e neutralizzazioni
Per comprendere la nozione di religione del progresso tecnico, è necessario innanzitutto addentrarsi nel già citato saggio di Schmitt. Secondo il giurista tedesco, dalla fine del Medioevo ogni secolo in Europa è stato caratterizzato da uno spostamento dei “centri di riferimento”, ovvero di quelle categorie fondamentali attraverso cui le popolazioni, a partire dalle proprie avanguardie intellettuali, comprendono e agiscono nel mondo. L’essenza del centro di riferimento è l’essere neutrale: secondo Schmitt, infatti, il passaggio da un centro all’altro dipende dal desiderio umano di raggiungere un centro neutrale, cioè un’area depoliticizzata dove il conflitto è sospeso e la distinzione tra amico e nemico – che è proprio la categoria fondamentale del “politico”, secondo Schmitt – non sussiste.
Per esempio, durante il Medioevo, la teologia cristiano-cattolica serviva come centro di riferimento europeo, perché era abbracciata dalla maggioranza generale della popolazione e l’autorità religiosa di Roma non era contestata, se non in maniera sporadica e contingenziale. Si trattava per tanto di un ambito neutrale, sul quale si raccoglieva il consenso della stragrande maggioranza della popolazione, escluso dalla diatriba politica e militare. La riforma di Lutero, però, trasformò questa sfera in un ambito conflittuale, tra cattolici e protestanti, e così il centro di riferimento dovette essere spostato verso un nuovo spazio di neutralità (p. 176). Seguendo questo movimento storico e di pensiero, per Schmitt l’Europa passò prima dal centro teologico (XVI secolo) a quello metafisico (XVII secolo), e poi da quest’ultimo a quello morale-umanitario (XVIII secolo). Infine, con l’avvento della rivoluzione industriale, il centro di riferimento egemone in Europa divenne quello tecnico-economico (XIX secolo), diffondendo una vera e propria “religione del progresso tecnico”, come la chiama Schmitt. Questa non deve essere intesa come una teoria del dominio culturale o intellettuale: diversi centri di riferimento producono diverse gerarchie di potere, ma nessuno di essi è specificamente “organico” ad alcuna classe sociale. Inoltre, il centro di riferimento non ha un effetto totalizzante sulla società: esistono centri minoritari e la pluralità – anche se in misura minima – è preservata.
Senza voler investigare le complesse motivazioni economiche, sociali e antropologiche dietro il successo della tecnica nel XIX secolo europeo, secondo Schmitt la tecnologia fu abbracciata come centro di riferimento perché rappresentava meglio di qualsiasi altro ente la neutralità – e quindi l’apoliticità –, data la sua natura “oggettiva” e la sua capacità di servire indiscriminatamente tutti. Niente poteva apparire più neutrale di qualcosa basato sulla fredda astrattezza dei numeri e sul complicato calcolo di scienziati e ingegneri. Citando Schmitt stesso: «Ogni battaglia e ogni mischia della contesa confessionale, nazionale e sociale viene qui livellata, su un terreno pienamente neutrale. La sfera della tecnica sembrava essere una sfera di pace, di comprensione e di riconciliazione» (p. 178).
La religione del progresso tecnico: una proposta di definizione
Ne L’età delle neutralizzazioni e delle depoliticizzazioni, Schmitt non propone una definizione di religione del progresso tecnico. Alla luce di quanto affermato precedentemente, potrebbe però essere descritta come «una credenza simil-religiosa nella capacità dello sviluppo scientifico e tecnologico di risolvere problemi, fornire significato, dare orientamento e condurre alla salvezza». Seguendo la definizione proposta da Erich Fromm (1976) la religione è qui intesa in senso lato, come «un sistema di pensiero e azione condiviso da un gruppo, che offre all’individuo un mezzo di orientamento e un oggetto di devozione»[4], e che quindi non ha strettamente a che vedere con la dimensione divina e soprannaturale dell’esistenza.
La definizione qui proposta di religione del progresso tecnico può essere affiancata da quattro caratteristiche che la qualificano con maggior precisione: verità, neutralità, salvezza e inevitabilità.
Il progresso tecnico come verità. Si tratta sostanzialmente della convinzione che la tecnica stabilisca i limiti di ciò che gli esseri umani possono raggiungere o conoscere della realtà[5]. Se abbracciata pienamente, la religione del progresso tecnico esclude infatti altre possibili interpretazioni della realtà, perché l’unico tipo di conoscenza che si può avere del mondo è la conoscenza tecnica. Questo comporta, a sua volta, ciò che Arnold Pacey chiama “technical fixism”[6], cioè il tentativo di risolvere ogni problema per solo mezzo di strumenti tecnici, ignorando altre possibili soluzioni in altri ambiti della sfera sociale, politica e anche religiosa in senso stretto, legato quindi alla presenza di una divinità. La religione del progresso tecnico esaspera questa convinzione, rendendo la soluzione tecnica l’unica soluzione possibile per raggiungere qualsiasi tipo di obiettivo. Come scrive Schmitt «sorge una religione del progresso tecnico, per la quale tutti gli altri problemi si risolvono da sé, appunto per mezzo del progresso tecnico» (p. 172).
Il progresso tecnico come neutralità. L’esistenza di un’unica soluzione possibile – la soluzione tecnica – porterebbe a un’equazione tra progresso tecnico e neutralità, elemento fondamentale nell’identificazione dei centri di riferimento menzionati precedentemente. La tecnologia così non potrebbe mai configurarsi come politicamente prevenuta o orientata ai valori. La tecnica è neutrale perché è il terreno che mette d’accordo tutti, dove il conflitto dato dall’intrinseca pluralità umana tace e le differenze vengono meno. In questo modo, il progresso tecnico non è soltanto un oggetto di devozione tra i tanti, ma la risposta ultima alle grandi questioni dell’umano.
Il progresso tecnico come salvezza. Se tutta la conoscenza è tecnica e se tutti i problemi possono essere risolti attraverso la tecnica, allora la salvezza – intesa in senso lato come uno stato finale di pace e benessere – è raggiungibile solo attraverso la tecnologia. Secondo questa narrazione, grazie alla manipolazione del mondo naturale la tecnologia potrebbe così liberare le illimitate possibilità umane di cambiamento e miglioramento. Il progresso tecnico presenta un mondo docile che può essere ordinato, controllato e sottomesso per raggiungere un nuovo Eden terrestre, come è stato ben rappresentato da nuove e vecchie utopie, dalla Nuova Atlantide di Francis Bacon a Walden Two di Burrhus Skinner. Questo elemento emerge con ulteriore vigore nel pensiero post-umanista e transumanista. Secondo il post-umanesimo, l’umanità sarebbe diretta verso una situazione ideale in cui i limiti della biologia umana saranno trascesi grazie al raggiungimento della singolarità tecnologica. Il passaggio a questo status finale è facilitato dal transumanesimo, il progetto di potenziamento e trasformazione umana. Secondo questa visione, la tecnologia rimuoverà le imperfezioni naturali dell’uomo e, alla fine, porterà al “paradiso disincarnato del cyberspazio”[7]
Il progresso tecnico come inevitabilità. La credenza nell’evoluzione incessante della conoscenza tecnica comporta sia il determinismo tecnologico che l’inevitabilismo tecnologico. Secondo Daniel McCharty[8] il determinismo tecnologico presuppone che la tecnologia sia al di là del controllo degli agenti umani, presentandosi come qualcosa di totalmente autonomo e indipendente. Una conseguenza diretta di tale certezza è ciò che Shoshana Zuboff, riprendendo Langdon Winner, definisce come “inevitabilismo tecnologico”[9]. In base a questa idea, il progresso tecnico è sia la forza principale che influenza la vita umana che un processo indipendente con esiti predeterminati. Per questo motivo non può essere fermato o cambiato: gli esseri umani possono solo seguire la strada che è stata tracciata dalla tecnologia stessa, non indirizzarla o contribuire al suo sviluppo attraverso i propri valori e idee.
Le conseguenze della religione del progresso tecnico nelle società contemporanee: la mistificazione della politica
Come sostiene Schmitt, ciò che consegue alla neutralizzazione operata dalla religione del progresso tecnico è la depoliticizzazione della società. Se nel pensiero schmittiano ciò ha a che fare con la sospensione della dicotomia amico-nemico, è facile però estendere questa idea anche alle democrazie contemporanee, dove la conflittualità politica si lega in primo luogo alla pluralità interna alle società.
Nell’economia, nello sviluppo, nella scuola e nei media, una cieca fiducia nel progresso tecnico tende a ridurre la scelta politica a bias personale, una sorta di pregiudizio primitivo ed egoistico. L’idea che possa esistere una verità unica, neutrale e oggettiva, delegittima le forme di conflitto e di pluralità nella vita sociale. La sfera politica viene allora ridotta a mera amministrazione volta a raggiungere un presunto e prestabilito “bene comune” che spiani ulteriormente la strada al progresso tecnico.
Il miglior governo diventa così il governo tecnocratico, e la politica democratica viene delegittimata nel suo stesso fondamento di pluralità e discussione. È un tema che, soprattutto in Italia, si è presentato spesso con la necessità di ricorrere a “governi tecnici” durante momenti di impasse parlamentare, come quelli presieduti da Mario Monti e Mario Draghi. Ciò che sembra caratterizzare davvero questi esecutivi – e, paradossalmente, a garantirne la legittimità – non è soltanto la competenza dei tecnici, ma piuttosto il fatto di apparire come superiori rispetto alla dialettica politica, come se le loro decisioni fossero dettate esclusivamente da una realtà tecnica e oggettiva, e non fossero frutto di una scelta, che quindi di per sé è politica. Il fatto è che nella visione della religione del progresso tecnico il concetto stesso di “scelta” viene meno, poiché la verità e la salvezza stanno nell’oggettività della tecnica, del numero in sé e per sé, ignorando che invece proprio quella “tecnica” potrebbe essere una scelta fra tante.
Di conseguenza, le entità politiche tradizionali e i gruppi collettivi – classi sociali, minoranze, partiti, sindacati e così via – non sono concepiti come attori in grado di trasformare la società, poiché il cambiamento sociale sarebbe una prerogativa del progresso tecnico. Questo comporta uno spostamento dell’agency dagli individui agli strumenti tecnici, in una pericolosa profezia che si autoavvera per cui il potere e l’azione vengono monopolizzati dalla tecnologia[10], e quindi dagli attori che ne detengono le redini. In questo modo la religione del progresso tecnico tenderebbe ad avere un effetto lobotomizzante sul corpo politico. Pur promettendo un empowering dell’essere umano grazie agli strumenti tecnici, un’assolutizzazione della tecnica rischia di trasformare l’individuo in un atomo isolato, incapace di azione collettiva e, quindi, di esercitare un potere significativo nella società. Come suggerito da Éric Sadin[11] nel suo ultimo volume, si allarga così il divario tra ciò che l’immaginario del potere suggerisce – ogni persona può fare ciò che vuole della propria vita grazie alle infinite possibilità della tecnica – e ciò che nei fatti è la pratica del potere, dove l’incapacità di agire politicamente e collettivamente comporta l’impossibilità di cambiare la realtà circostante e di conseguenza anche la propria esistenza, aumentando frustrazione e sentimento antipolitico.
Eppure, come sostiene Schmitt, qualsiasi centro di riferimento neutralizza senza essere neutrale, perché è in realtà frutto di una determinata scelta. La realtà è infatti sempre inevitabilmente pregna di questioni etiche, politiche e sociali. Questo vale anche e soprattutto per la tecnica. Per esempio, William Stahl sostiene che la tecnologia è sempre una pratica, e quindi è in una relazione intrinseca con gli attori sociali[12]. Non è pertanto possibile rimuovere gli strumenti tecnici dal loro sfondo socioculturale. Un esempio banale è la produzione della prima bomba atomica: non era solo un’arma, ma un’arma americana, prodotta da esseri umani unici in un particolare contesto storico – la Seconda guerra mondiale – e con uno scopo predeterminato. La sua esistenza era quindi inevitabilmente dipendente da questa contingenza. Più nello specifico, gli artefatti tecnici sono inseriti in una rete inestricabile di valori e interessi: è il caso degli algoritmi per il riconoscimento facciale che presentano bias razziali[13], o dei feed dei social media che privilegiano contenuti scandalosi o altamente emotivi per massimizzare l’engagement e, di conseguenza, l’utile economico[14]. La tecnologia non è poi nemmeno “libera” nel suo sviluppo, ma altamente incorporata nei processi politici: si consideri, ad esempio, come alcune delle principali scoperte tecnologiche siano state guidate o finanziate dallo Stato[15] e il ruolo delle aziende high-tech nella lotta geopolitica sotto la forma del cosiddetto “capitalismo politico”[16].
Pertanto, la religione del progresso tecnico non elimina il potere, i valori o le gerarchie: li nasconde soltanto, rigenerandoli sotto un’altra forma. Ecco perché, più che una vera e propria depoliticizzazione, la prima e più importante conseguenza della religione del progresso tecnico è una mistificazione della politica. La cieca fede nel progresso diffonde la narrazione di un mondo neutralizzato e apolitico ma la realtà continua ad essere politica e conflittuale. Il risultato è una paradossale neutralizzazione senza neutralità in cui il gioco incessante della politica continua in forme diverse, complesse e a volte ancora più gerarchizzate, mentre chi è imbevuto della religione del progresso tecnico è privato della capacità di agire politicamente e collettivamente, poiché abbagliato nel mito della neutralizzazione, dove la politica non ha spazio. Il sistema tecnico produce vincitori e vinti, creando nuove disuguaglianze di potere e di risorse tra città e zone rurali, giganti dell’alta tecnologia e imprese locali, ingegneri plurilaureati e lavoratori poveri sotto-istruiti: ma questi nuovi conflitti difficilmente riescono ad essere politicizzati se la religione del progresso tecnico è ampiamente diffusa nel corpo sociale. Nel frattempo, però, la realtà continua a muoversi e trasformarsi. Riprendendo il saggio di Schmitt: «…rappresentare l’epoca contemporanea, in senso spirituale, come l’epoca tecnica, può essere solo un fatto provvisorio. Il significato finale si ricava soltanto quando appare chiaro quale tipo di politica è abbastanza forte da impadronirsi della nuova tecnica e quali sono i reali raggruppamenti amico-nemico che crescono su questo terreno» (p. 182).
Conclusione
Libri e film hanno descritto in modi diversi la religione del progresso tecnico. Ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley gli apici delle croci cristiane venivano tagliati per produrre il nuovo oggetto di devozione: la lettera T della Ford modello T, la prima auto prodotta in una catena di montaggio taylorista, simbolo del sorprendente progresso raggiunto dalla tecnica. Nel film Minority Report di Steven Spielberg (tratto dall’omonimo romanzo di Philip K. Dick), umani geneticamente modificati (i precog) prevedono i crimini futuri in una misteriosa stanza chiamata “il Tempio”. La religione del progresso tecnico, però, non è solo un’entità fittizia: è una tendenza presente nel nostro tessuto sociale, elemento importante per cogliere correttamente la complessità sociotecnica delle società contemporanee e i problemi legati alla depoliticizzazione, soprattutto nelle democrazie. Dall’altra parte, è bene precisare che per religione del progresso tecnico non si vuole intendere una realtà empirica, quanto piuttosto un idealtipo, un concetto utile ad orientare la riflessione teorica sullo sviluppo dei processi tecnici e politici.
È importante, infine, notare che dare una lettura critica della religione del progresso tecnico, come quella proposta in questo articolo, non comporta abbracciare un atteggiamento luddista di radicale opposizione e critica alla tecnologia. Si tratta piuttosto, come ha ben sottolineato Umberto Curi nella sua lectio al festival di Pandora Rivista del 2021[17], di vedere la necessaria e costante ambivalenza dello sviluppo tecnico, che non è mai univoco nelle sue conseguenze e sempre impregnato della realtà politica, sociale e culturale contingente. Un atteggiamento che, al contrario di essere antirazionale o antiscientifico, si inserisce pienamente nel solco della tradizione illuminista e del “sapere aude” kantiano.
[1] David F. Noble, The religion of technology. The divinity of man and the spirit of invention, Alfred A. Knopf, New York 1997.
[2] Gabriele Balbi, L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale, Laterza, Roma-Bari 2022.
[3] Carl Schmitt, (1932/1972), L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni in Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera (a cura di), Schmitt, Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, il Mulino, Bologna. Tutte le parentesi indicate il numero di pagina, si riferiscono a citazioni tratte direttamente da questo saggio. Nuova edizione, il Mulino 2014.
[4] Erich Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano 1976, p. 208.
[5] Mikael Stenmark, What Is Scientism?, «Religious Studies», Vol. 33, No. 1. Pp. 13 (1997).
[6] Arnold Pacey, The culture of Technology, MIT Press, Boston 1983.
[7] Hava Tirosh-Samuelson, Transhumanism as a secularist faith, «Zygon», vol. 47, no. 4. Pp. 710-733 (2012).
[8] Daniel R. McCarthy, Introduction: Technology and World Politics, McCarthy (a cura di), Technology and World Politics, Routledge, Londra e New York 2018.
[9] Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma 2019.
[10] Mauro Magatti, Oltre l’infinito. Storia della potenza dal sacro alla tecnica, Feltrinelli, Milano 2018.
[11] Éric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune, Luiss University Press, Roma 2022.
[12] William A. Stahl, God and the Chip. Religion and the Culture of Technology, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo (Canada) 1999.
[13] Kate Crawford, Atlas of AI. Power, Politics and the Planetary Costs of Artificial Intelligence, Yale University Press, New Haven 2021. Capitolo 4.
[14] Simone Cosimi, Per un pugno di like. Perché ai social network non piace il dissenso, Città Nuova, Roma 2020.
[15] Mariana Mazzucato, The Entrepreneurial State. Debunking Public vs. Private Myths in Risk and Innovation, Anthem Press, Londra 2013.
[16] Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La Nave di Teseo, Milano 2020.
[17] Si veda: Umberto Curi, Alle radici della tecnica. Dialoghi di Pandora Rivista – Festival 2021. Disponibile su YouTube a questo link.