Il tesoro nella “tomba degli imperi”: le risorse minerarie in Afghanistan
- 20 Agosto 2021

Il tesoro nella “tomba degli imperi”: le risorse minerarie in Afghanistan

Scritto da Alberto Prina Cerai

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Con il collasso del governo afghano e la rapida riconquista del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan dopo quasi vent’anni torna nelle mani dell’estremismo islamico. Si chiude dunque un capitolo di insuccessi e instabilità e se ne apre un altro dalle sfumature altrettanto incerte, tanto per il destino della popolazione civile quanto per la geopolitica della regione. Con il vuoto lasciato dagli Stati Uniti e dalle potenze NATO, il Paese nel cuore dell’Asia Centrale tornerà con tutta probabilità terreno fertile per il proselitismo dell’Islam radicale, lasciando spazio ad altri attori come Cina, Russia, Turchia e Iran per la gestione di un territorio dagli intricatissimi equilibri etnici, religiosi e politici. Quella che potrebbe permanere è la condizione di perenne emergenza e crisi che accompagnerebbe la “transizione” al potere, mentre cambierebbero le sensibilità di nuovi interessi (geo)politici non più declinati da precetti occidentali (Stato, democrazia, diritti umani, rule of law) che così tanto hanno faticato ad attecchire. È l’ennesima dimostrazione del fallimento della teoria del regime change: senza istituzioni stabili e forti e infrastrutture efficienti difficilmente l’Afghanistan avrebbe potuto trasformarsi in un’economia anche solo velatamente di mercato. Cosa è andato storto nella ricostruzione del Paese e verso quale destino esso andrà incontro? Rispondere a queste domande non è semplice. Tuttavia, un comune denominatore, un filo conduttore tra il recente passato e il probabile futuro, può essere in parte ritrovato nel patrimonio geologico dell’Afghanistan. È interessante notare come molte testate abbiano riportato l’attenzione su una questione oggi più che mai centrale: quella delle risorse minerarie in Afghanistan, abbondanti nel Paese sotto forma di minerali, metalli e idrocarburi. Un punto di dibattito che ora, con la condivisa previsione di una “spartizione” del territorio afghano tra le potenze incombenti e la forte dipendenza di Stati Uniti e Unione Europea dalle materie prime essenziali per la transizione energetica e digitale, diventa di improvvisa attualità. Ma si tratta di una trappola concettuale da sfatare per due ordini di motivi. Come ci ricorda la letteratura economica sullo sviluppo, la gestione (più che il mero sfruttamento) delle risorse è un fattore dirimente nella traiettoria di modernizzazione di un Paese arretrato ma ricco di capitale naturale. Inoltre, la corretta governance delle risorse (la tassazione sulle attività estrattive, l’equa distribuzione delle rendite e la strategia di diversificazione della spesa governativa) è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per la trasformazione di un’economia che richiede stabilità, certezza del diritto e conseguenti investimenti esteri. L’equazione tra risorse e sviluppo non è pertanto lineare, così come è fuorviante ritenere la fuga dall’Afghanistan un errore strategico dell’Occidente basandosi solo sulla considerazione della ricchezza del suo sottosuolo, soprattutto se si prende in considerazione la significativa presenza di giacimenti in Paesi alleati (come Canada e Australia) con una grande tradizione mineraria. Occorre d’altra parte prendere atto che, dopo vent’anni di occupazione e di intensa esplorazione, non si sono evidentemente create le condizioni di sicurezza per attrarre i capitali esteri essenziali per l’emergere di un settore industriale estrattivo. Ma facciamo un passo indietro. 

Nel 2010, un memorandum interno del Pentagono ripreso da giornali statunitensi riteneva che l’Afghanistan «potesse diventare uno dei più grandi centri minerari del mondo» e che, grazie alle sue riserve potesse essere considerato come “l’Arabia Saudita del litio”. Il lito, oggi considerato soprattutto in quanto elemento centrale per la produzione di batterie elettriche, all’epoca trovava applicazione soprattutto nell’elettronica di consumo. Lo stesso Generale David H. Petraeus, comandante in capo delle operazioni militari americane, aveva dichiarato che sotto il campo di scontro tra le forze speciali e i talebani «giaceva un immenso potenziale», che avrebbe potuto contribuire allo sviluppo economico del Paese, strappando il controllo politico ed economico dalle mani dei talebani. Analogamente a quanto avviene oggi nella narrazione intorno all’Artico, la necessità di garantire la sicurezza di un quadrante geopolitico, la promessa della sovranità del popolo afghano sulle sue risorse e l’imperativo di evitare lo sfruttamento di risorse strategiche da parte di potenze ostili si riteneva fossero vettori fondamentali per attrarre investitori e privati in una terra storicamente afflitta da conflitti e instabilità politica. L’interesse per le risorse minerarie in Afghanistan – soprattutto per le “terre rare”, proprio nell’anno in cui la Cina, allora monopolista nell’estrazione, bloccava l’esportazione dei preziosi metalli al Giappone in seguito ad una disputa diplomatica sulle isole Senkaku – divenne esplicito con il finanziamento da parte dell’US Agency for International Development di una serie di rilievi e studi geologici intrapresi dall’US Geological Survey in collaborazione con l’omologo afghano (AGS). I risultati dimostrarono la presenza non solo di 1,4 milioni di tonnellate di terre rare (il deposito di Khanneshin nella provincia di Helmand, all’epoca una roccaforte dei talebani, è ad esempio ritenuto il più grande giacimento a livello mondiale), ma anche di 60 milioni di tonnellate di rame, 2,2 miliardi di tonnellate di ferro, gemme preziose e altri metalli non ferrosi, per un valore stimato tra 1 e 3 trilioni di dollari, secondo le stime più recenti. Non si trattava però di una scoperta, ma di una conferma: una serie di carte e analisi precedenti effettuate dall’Unione Sovietica tra gli anni Settanta e Ottanta avevano già stimato il potenziale minerario afghano, portando i sovietici a spendere miliardi di dollari per costruire l’infrastruttura mineraria necessaria. Tuttavia, con il ritiro delle truppe sovietiche nel 1989 i progetti furono abbandonati, per essere riavviati, almeno sulla carta, dai colleghi americani e inglesi nel 2003. Non si tratta, d’altronde, solo di minerali. Secondo un rapporto afghano, ripreso anche dallo USGS, l’Afghanistan potrebbe contare su riserve pari a 200 milioni di tonnellate di petrolio grezzo e 400 miliardi di metri cubi di gas naturale, mentre nelle province di Tajik Basin e Amu Darya Basin si troverebbero altri giacimenti non ancora scoperti.

Poco dopo la riscoperta, nel 2014, un articolo comparso su Scientific American recitava: «[…] i vasti depositi di terre rare e minerali critici trovati in Afghanistan dai geologi americani sotto la copertura militare potrebbero risolvere la carenza mondiale e strappare il Paese dalla dipendenza dell’oppio e dal controllo dei talebani». Proprio in quell’anno Stati Uniti, Unione Europea e Giappone avevano presentato al WTO l’avvio di una procedura di infrazione nei confronti di Pechino per l’embargo imposto al Giappone, che aveva avuto riflessi importanti su un mercato ancora troppo poco trasparente e diversificato per poter reggere l’urto del protezionismo commerciale. Oltre all’importanza strategica di questi elementi – utilizzati in molte delle attrezzature militari impiegate dagli Stati Uniti nelle operazioni in Afghanistan – che restavano in gran parte in mano al rivale cinese, le “terre rare” erano divenute anche un potenziale strumento per esercitare un controllo politico ancor più efficace laddove l’occupazione militare non mostrava di dare i risultati sperati, in un’ottica di state-building e ricostruzione post-conflitto. La presenza del contingente militare americano diventava quindi essenziale per supportare le attività del settore privato, il quale, a sua volta avrebbe richiesto, in un meccanismo di rinforzo reciproco, la presenza militare statunitense per un periodo indefinito, necessaria in attesa di istituzioni governative locali autonome. Si rendeva anche necessaria una forte collaborazione tra il Pentagono, l’AES e le eventuali compagnie internazionali interessate. Il compito di favorire la nascita di un’industria per lo sfruttamento delle risorse minerarie in Afghanistan è stato di competenza della Task Force for Business and Stability Operations del Dipartimento della Difesa. Nel settore minerario, l’informazione sulla configurazione mineralogica del deposito – e quindi la sua effettiva economicità (la differenza tra risorsa e riserva) – è cruciale per l’investitore. «Lavorare con l’Afghan Geological Survey per il programma di esplorazione geofisica aerea» dichiarava il direttore allo sviluppo delle risorse minerarie in Afghanistan della Task Force, «è un passo importante nel preparare il governo afghano a condurre i propri sforzi di esplorazione mineraria. L’obiettivo di questo addestramento è di consentirgli di fornire l’informazione migliore possibile agli investitori internazionali». A partire dal 2012 la pressione degli investitori affinché il controllo militare venisse mantenuto è aumentata vertiginosamente, soprattutto per il timore che altri attori – Cina, Russia e India – potessero capitalizzare gli sforzi di stabilizzazione dell’area da parte dell’Occidente. Anche la popolazione afghana vedeva lo sviluppo del settore come una potenziale valvola di sviluppo e di affrancamento tanto dai commerci illeciti dei talebani quanto dagli aiuti internazionali. Nel 2014, in una lettera indirizzata al premier britannico David Cameron e firmata da quaranta organizzazioni, il direttore dell’Integrity Watch Afghanistan, Ikram Afzali, dichiarava: «Vogliamo sviluppare le nostre risorse naturali, ma da una posizione di forza e orgoglio, non allentando i nostri standard e ignorando gli abusi». È evidente che il riferimento fosse all’interferenza straniera nella gestione dei giacimenti, con una rivendicazione all’insegna della sovranità e del “nazionalismo delle risorse” – un elemento, quest’ultimo, che tende ad essere oggi in generale ancora più pronunciato, data l’importanza strategica e tecnologica che questi metalli rivestono sul mercato globale. Al tempo stesso si tratta di una prospettiva non così semplice da realizzare. Seppur impegnato fino alla caduta del governo a trasformare le risorse minerarie in Afghanistan in ricchezza economica, l’ex presidente afghano Ashraf Ghani, ora in esilio, con una carriera da economista alla Banca Mondiale, nel 2020 riteneva che il Paese, già di per sé dilaniato dal conflitto e strutturalmente fragile, rischiasse di incorrere nella “maledizione delle risorse”[1], soprattutto in assenza di una strategia di sviluppo coordinato dalle forze alleate e dal governo locale e di una profonda riforma del settore privato. Nell’autunno del 2017 il presidente Donald Trump e Ghani si incontrarono a New York per discutere delle prospettive dello sfruttamento delle risorse minerarie in Afghanistan. All’incontro seguì una dichiarazione della Casa Bianca, con la quale si affermava che le iniziative in ambito minerario «avrebbe aiutato le compagnie americane a sviluppare i materiali critici per la sicurezza nazionale e nel frattempo arricchito l’economia dell’Afghanistan, creato nuovi posti di lavoro in entrambi i Paesi e dunque contribuito ad alleggerire i costi di assistenza degli Stati Uniti rendendo più autonomi gli afghani». 

Nonostante gli intenti, la difficile situazione politica e l’instabilità dovuta al perenne conflitto non hanno permesso di gettare le basi per il fiorire delle attività economiche. Secondo due rapporti pubblicati rispettivamente nel 2017 e nel 2018 dallo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR), gli Stati Uniti hanno speso dal 2009 centinaia di milioni di dollari, ma questo è avvenuto in assenza di una vera e propria strategia unificata per facilitare l’industria mineraria. Per di più, con l’emergere di nuove recrudescenze commerciali con la Repubblica Popolare Cinese e considerata la dipendenza strategica per alcuni dei materiali critici, gli Stati Uniti hanno avviato una nuova ridefinizione della propria politica mineraria, sia nel settore domestico che nell’ambito delle partnership internazionali. Il tutto trascurando – forse volontariamente – le ricchezze minerarie sotto il controllo semi-ufficiale del governo di Kabul. In un rapporto dell’United Nations Development Programme del marzo del 2020, lo scenario descritto era desolante. «Attualmente», si leggeva, «[le risorse minerarie in Afghanistan] contribuiscono ben poco all’economia e alla società», principalmente «perché la gran parte rimane nel sottosuolo ma anche perché la maggior parte dell’attività estrattiva è illegale o informale», con più di 160 miniere artigianali. Tra i siti più promettenti, quello di Mes Ayak, ricco di rame – un giacimento da 11,5 milioni di tonnellate, dal potenziale valore di 100 miliardi di dollari a prezzi correnti, la cui licenza era stata acquisita dalle cinesi China Metallurgical Group e Jiangxi Copper per 3 miliardi di dollari, come riporta Il Sole 24 Ore – che giace circondato dall’inestimabile patrimonio culturale e archeologico dell’area, e quello di Hajigak, ricco di ferro, il cui contratto è stato sospeso per l’insicurezza dell’area e per la mancanza di trasporti. «Se il Paese vorrà sbloccare il potenziale delle sue ricchezze minerarie – prosegue il rapporto – il governo e gli altri stakeholders dovranno necessariamente rafforzare la gestione delle risorse e assicurare pace e sicurezza». Secondo le stime, solo il 2% degli introiti governativi (42 milioni di dollari) proviene dal settore minerario, mentre nel 2017 Kabul avrebbe potuto raccogliere, sotto forma di royalties e tasse sull’export, circa 123 milioni di dollari. 

Infatti, il mancato controllo dell’estrazione delle risorse minerarie in Afghanistan da parte delle autorità governative ha stimolato l’interesse dei ribelli (soprattutto i talebani), che hanno intravisto l’opportunità sia di ottenere risorse per finanziare il conflitto che di avere occasioni di delegittimazione dello Stato, contribuendo così all’aumento del caos e delle violenze. «Per un’azienda mineraria» dichiara l’UNDP, «i benefici di pagare le tasse al governo [locale] sono limitati, mentre i rischi di non pagare le tasse ai ribelli sono enormi». Un controllo più capillare dei siti di estrazione da parte delle forze talebane implicherà maggiori rischi di sfruttamento illegale, di controllo sociale e, infine, di potenziali danni ambientali per una mancanza di regole e governance del settore, oltre a rimpinguare significativamente le casse dei talebani. Secondo un rapporto di Global Witness del 2018, «le entrate che confluiscono verso i gruppi criminali, i “signori della guerra” e i talebani dalla sola piccola area della provincia di Badakhshan competono con quelle dichiarate dal governo centrale provenienti dall’intero settore». Si stima infatti che le risorse minerarie in Afghanistan – soprattutto le più preziose, come gemme e lapislazzuli – siano la seconda più grande fonte di finanziamento (circa 300 milioni di dollari) dopo l’oppio e l’eroina. Nel tardo gennaio 2021, il Ministro delle Miniere e del Petrolio Mohammad Haroon Chajhansuri ha denunciato con franchezza alla stampa che «i talebani controllano attualmente 750 siti minerari, utilizzando le rendite contro il governo». 

«I talebani siedono ora su alcuni dei più importanti minerali strategici del mondo», ha dichiarato Rod Schoonover, a capo del programma di Sicurezza Ecologica del Council on Strategic Risks, think tank di Washington. Ma rimane da capire «se potranno o vorranno utilizzare» queste risorse alla base dell’economia del futuro. È evidente che i talebani o qualsiasi gruppo ribelle non possiedano i capitali e il know-how sufficienti per realizzare ciò che due superpotenze come Unione Sovietica e Stati Uniti, in periodi storici differenti ma accumunati da simili scenari di instabilità, non sono riusciti a portare a termine. La ritirata repentina delle forze militari statunitensi ha tuttavia lasciato un vuoto politico che la Cina – considerando gli asset finanziari e industriali che possiede nel settore minerario – potrebbe sfruttare. Il magazine The Week ha riportato di un incontro avvenuto tra il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi e una delegazione talebana lo scorso luglio, conclusosi con l’accordo per un maggior ruolo di Pechino nella «futura ricostruzione e sviluppo economico della regione», magari includendo il Paese nella fitta ragnatela di investimenti della Belt and Road Initiative. Come accennato prima la Cina, tra il 2007 e il 2008, si era già assicurata una licenza per la miniera di rame di Mes Ayak e aveva avviato alcuni progetti infrastrutturali, senza tuttavia portarli a compimento. Di interesse potenziale restano i giacimenti di terre rare e litio (che potrebbero reggere il confronto con i depositi boliviani). Attualmente la Cina possiede e commercia questo tipo di risorse in abbondanza – controllando gli stadi a più alto valore aggiunto della catena del valore – ma in prospettiva lo sfruttamento dei giacimenti afghani potrebbe ridurre il degrado ambientale associato all’estrazione e alla lavorazione domestica di questi materiali. Un accordo tra i talebani e il governo cinese potrebbe essere raggiunto senza troppi ostacoli dal punto di vista della governance (con grande opacità rispetto a temi legati ai diritti umani, sociali e ambientali), ma non sarebbe di così immediata attuazione, data la pressoché totale assenza di infrastrutture, reti elettriche ed energetiche e condotte per l’acqua necessari allo svolgimento delle attività estrattive su scala industriale. 

Anche sul piano commerciale resterebbero dei punti interrogativi. Il crescente monitoraggio sul piano finanziario (si pensi ai cosiddetti standard ESG – Environment, Social, and Governance, ormai dominanti nel settore finanziario) e normativo nei confronti delle aziende globali coinvolte nel settore potrebbe ostacolare la portata delle attività delle state-owned enterprises operanti in Afghanistan in collaborazione con i talebani. Il 10 gennaio 2021 è entrato in vigore il Regolamento 2017/821 Conflict Affected and High Risk Areas con il quale l’UE monitora che le importazioni di tantalio, tungsteno, oro e stagno non provengano da aree afflitte da guerre e che siano commerciate in linea con le politiche europee relative alla prevenzione dei conflitti armati e al sostegno allo sviluppo. Un discorso simile vale per gli Stati Uniti. Le restrizioni in vigore, soprattutto sotto l’ombrello della sezione 1502 Dodd-Frank Act del 2010, prevedono che le compagnie americane siano incoraggiate non tanto a stoppare le forniture dalle regioni inserite nella lista, ma piuttosto a presentare un rapporto di due diligence, per verificare che l’attività commerciale non risulti fonte di finanziamento per gruppi armati o che determini abusi dei diritti umani. I talebani non sono designati come “Foreign Terroristic Organization”, ma sono inseriti in una lista speciale dal Dipartimento del Tesoro. Considerando i rischi e i potenziali sviluppi, è auspicabile che in futuro le risorse minerarie dell’Afghanistan siano sottoposte ad uno scrutinio severo, qualora dovessero emergere attività illecite. 

In conclusione, considerando l’ampia disponibilità di risorse in regioni caratterizzate da indici di sviluppo e di stabilità maggiori, è evidente che il settore privato e gli investitori più avveduti si terranno ben lontani dal territorio afghano, nel contesto di una situazione ancor più esplosiva. La stessa competizione interna tra le diverse fazioni potrebbe rendere investimenti di enti controllati da governi esteri – come Cina e Russia, le cui ambasciate sono rimaste a Kabul – non così scontati. Un fattore cruciale per tali Paesi potrebbe essere invece la possibilità di esportare in una terra di frontiera gli effetti collaterali delle attività estrattive domestiche, scaricandoli sulla popolazione e sull’ambiente afghano. Resta invece abbastanza improbabile che il crocevia dell’Asia Centrale, considerata la storia più recente e gli sviluppi degli ultimi giorni, possa essere considerato la soluzione da cui attingere per placare l’esplosione della domanda di minerali e metalli richiesti dal mercato globale nei prossimi decenni o per assumere una posizione strategica nel settore, come viene proposto dai media mainstream. Se l’Afghanistan fosse davvero la risposta alla presunta scarsità dei materiali critici, probabilmente abbiamo sbagliato a porre la questione. Gli hotspot nella “guerra dei metalli rari” su altri quadranti geografici hanno un potenziale economico più promettente, o sono in fase di consolidamento per raggiungerlo. Rimane l’amara consapevolezza, come sancito dall’ultimo rapporto del SIGAR, che il settore estrattivo abbia fallito nel porsi come veicolo di crescita economica e fonte di entrate sostenibili per il governo afghano. Un’occasione perduta nel contesto della difficile ricostruzione del Paese, rispetto alla promessa di questi vent’anni al popolo afghano di un futuro libero e prospero. 


[1] Un concetto ideato dagli economisti dello sviluppo negli anni Novanta per descrivere la condizione in cui versavano molti Paesi ricchi di petrolio, gas e altre risorse minerarie, incapaci di trasformare le ricchezze naturali in benessere collettivo e perennemente flagellati da conflitti e corruzione politica, instabilità economica e degrado ambientale. Si veda Jeffrey D. Sachs e Andrew M. Warner, Natural Resource Abundance and Economic Growth, NBER Working Papers 5398, National Bureau of Economic Research, Inc., 1995.

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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