Dalla “Dottrina Davutoğlu” alla realpolitik di Erdoğan
- 11 Novembre 2019

Dalla “Dottrina Davutoğlu” alla realpolitik di Erdoğan

Scritto da Alberto Mariotti

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Agli inizi del nuovo millennio Ahmet Davutoğlu, allora semi-sconosciuto Professore di Relazioni Internazionali, pubblicava un volume dal titolo “Profondità Strategica. La Posizione Internazionale della Turchia”. Un’opera che segna l’inizio di una brillante carriera politico-diplomatica che porterà Davutoğlu ad essere Ministro degli Esteri e poi Primo Ministro della Repubblica di Turchia e leader dell’AKP fino alle sue dimissioni in seguito alla nascita di forti contrasti con Erdoğan. Un’analisi del pensiero geopolitico di Ahmet Davutoğlu – il “Kissinger turco” – e della “profondità strategica” della Turchia è stata delineata in un precedente contributo, questo articolo affronta invece la storia politica della Turchia di Erdoğan, a partire appunto dal rapporto col pensiero strategico di Davutoğlu.


Il pensiero strategico di Ahmet Davutoğlu e la dottrina tracciata in Profondità Strategica può esser interpretato come una riorganizzazione sistemica e più approfondita della visione ozaliana della Turchia. Varie sono le analogie. Non solo le critiche dell’allora Primo Ministro Özal verso le élite turche del tempo, accusate di immobilismo politico-diplomatico, sembrano farsi eco in quel che Davutoğlu ha definito “diplomazia ritmica[1]”; ma la stessa politica economica ozaliana, che ha fatto della Turchia degli anni Ottanta una sorta di trading state, sembra rientrare in quell’ottica strategica delineata da Davutoğlu e riconducibile ad un approccio tipico del liberalismo dell’interdipendenza. Provando a tracciare un bilancio, si può riconoscere alla nuova strategia turca un primo periodo di brillanti successi, che sembra aver avuto come apice l’anno 2011. Fin dagli esordi la politica dell’AKP è sembrata raccogliere grandi consensi, interni ed esterni.

 

I primi mandati di Erdoğan al potere: il liberalismo dell’interdipendenza in atto 

Il grande sviluppo economico dei primi anni Duemila – con tassi di crescita inferiori solo alla Cina – sull’onda di un grande piano infrastrutturale ed energetico, di una politica economica di liberalizzazioni e apertura dei mercati per l’adeguamento all’acquis communautaire (l’insieme degli obblighi giuridici e degli obiettivi politici che accomunano e vincolano gli stati membri dell’Unione europea e che devono essere accolti senza riserve dai paesi che vogliano entrare a farne parte), ha permesso infatti al partito di Erdoğan di attirare sulla penisola anatolica gli sguardi interessati di numerosi paesi europei, medio-orientali e non solo. Da una parte i paesi occidentali riponevano grande fiducia nello sviluppo democratico di un paese a larghissima maggioranza musulmana, che sembrava smentire quello scontro di civiltà preconizzato da Huntington negli anni Novanta; dall’altra i popoli e i paesi musulmani iniziavano a vedere nella Turchia un modello a cui ispirarsi.

Erdoğan in questa fase fu abile, probabilmente con grande soddisfazione del Professore di Beykent (non a caso suo consigliere diplomatico durante il primo mandato) a ricercare quell’equilibrismo necessario ad accattivarsi i paesi arabi vicini senza incrinare i rapporti con gli storici alleati. Un esempio su tutti: inizialmente favorevole ad una concessione delle basi turche per l’operazione Iraqi Freedom (2003), Erdoğan accettò il parere sfavorevole dell’Assemblea turca, allineandosi all’opposizione franco-tedesca e presentandosi così quale attore rispettoso della volontà parlamentare di fronte all’Unione Europea e, soprattutto, dimostrando con i fatti l’inizio di un percorso di ricerca di autonomia dall’asse con Washington, senza tuttavia provocare una rottura sostanziale.

 

Il Medio Oriente

A partire dal 2005, specialmente nel teatro mediorientale, Ankara è sembrata perseguire fedelmente la linea tracciata da Davutoğlu. Consapevole di non poter improntare una politica estera totalmente avulsa dai partner euroatlantici e sfacciatamente attiva, la Turchia ha cercato di presentarsi come una forza liberale che, mediante l’espansione di rapporti economici bilaterali e tramite il soft power, riusciva ad approfondire e normalizzare le relazioni con i propri vicini. È in questa logica che le relazioni con Iraq, Iran, e Siria sono state progressivamente rafforzate. Rispetto a Baghdad, le relazioni che fino ad allora erano state incentrate esclusivamente sul problema della sicurezza al confine – dato prevalentemente dalla regione a maggioranza curda nel nord dell’Iraq – a partire dal 2007 conoscono un notevole sviluppo e approfondimento in più settori, culminando due anni dopo con la creazione di un Consiglio Supremo per la Cooperazione Strategica[2]. Con Teheran emergono fiorenti relazioni commerciali ed un’integrazione crescente nei rapporti finanziari ed energetici. Altrettanto importante, per di più, sembrava essere una sostanziale accettazione da parte di Ankara del programma nucleare iraniano quale elemento necessario per stabilire un equilibrio atomico regionale[3]. Ma forse il più sorprendente risultato dei primi governi dell’AKP è la normalizzazione dei rapporti con la Siria di Bashar al-Assad. Iniziata nel 2004, nel 2008 si conclude con la firma di un programma di cooperazione militare con Damasco e infine con la stipula di accordi bilaterali di libero scambio e abolizione del regime dei visti nel 2009.

Naturalmente, questo graduale avvicinamento verso i paesi arabi e islamici dell’area poneva un necessario ripensamento della “partnership” con Israele. Tra il 2005 e il 2008 Ankara ha tentato la carta della mediazione equidistante nel contenzioso Israele-Palestina. Un equilibrismo diplomatico che sembrò dare i suoi frutti quando Israele, Siria e Turchia firmarono una dichiarazione congiunta per la ripresa dei negoziati di pace. Tuttavia, con il passare degli anni, i toni di Erdoğan circa la questione palestinese hanno iniziato a farsi sempre più duri, specialmente a partire dall’offensiva israeliana contro Gaza del dicembre 2008. Fu proprio in quell’occasione che Davutoğlu si mise in evidenza, giocando un ruolo primario nella mediazione tra le parti, che gli valse probabilmente la carica di Ministro degli Esteri pochi mesi dopo. Gli avvenimenti tra il 2008 e il 2010, a partire dalle reiterate critiche turche nei confronti degli attacchi israeliani nei territori palestinesi fino ad arrivare all’attacco israeliano alla flottiglia umanitaria diretta a forzare il blocco a Gaza del 31 maggio 2010[4], misero in crisi la partnership strategica e aprirono una serie di interrogativi sul futuro delle relazioni bilaterali, alla luce del mutato contesto geopolitico regionale e degli interessi di entrambe le parti[5].

In un periodo in cui le relazioni con l’Unione Europea erano in stallo[6], e la grave crisi economica affievoliva gli interessi turchi per un’adesione completa, Erdoğan sembrò optare dunque per un cambio radicale di paradigma, cercando di cavalcare il grande consenso offertogli dall’islamismo politico, decidendo dunque di farsi paladino della causa palestinese. La decisione di aprire le sezioni degli archivi statali turchi relativi alle proprietà fondiarie riconosciute nel Levante ottomano al fine di offrire una base giuridica ai ricorsi arabi contro gli espropri israeliani ne fu un’esemplificazione.[7]

 

Balcani, Caucaso e Asia Centrale:

Il leader turco rafforzò poi notevolmente i rapporti economici, politici e culturali con i paesi balcanici in cui erano presenti forti minoranze o maggioranze islamiche: Bosnia, Kosovo, Albania e Macedonia fecero della Turchia il proprio partner privilegiato. Non a caso nel 2009 Ankara si pose come mediatrice tra Serbia e Bosnia contribuendo al riconoscimento da parte serba del massacro di Srebrenica.

Anche sull’altro versante, quello del Caucaso e dell’Asia Centrale, il nuovo governo turco riprese e approfondì la cooperazione con gli altri attori regionali; coltivando la speranza di trasformarsi in hub energetico al crocevia tra Asia Centrale, Medio Oriente ed Europa. A rappresentare il cardine dell’azione diplomatica turca in questi anni è stato il tentativo d’integrazione economico-energetica con i paesi dell’area. I progetti regionali come l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e il gasdotto Baku-Tblisi-Erzerum entrarono in piena funzione tra il 2006 e il 2007, mentre nel 2005 venne firmato l’accordo per il progetto della linea ferroviaria Baku-Tblisi-Kars, lavori iniziati nel 2007 e terminati nel 2017.

 

L’Africa

Tuttavia, la vera novità nella politica estera turca rispetto al XX secolo è rappresentata dallo sviluppo progressivo e crescente delle relazioni con gli stati africani. È nello sguardo di Ankara verso il continente africano che è possibile rintracciare quell’attitudine “globale” avanzata da Davutoğlu. A partire dal 2005, proclamato emblematicamente “anno dell’Africa”, furono avviate una serie di iniziative di cooperazione, bilaterali e multilaterali, riproposte poi a cadenza regolare nel decennio successivo. Tanto da fare della Turchia un membro osservatore dell’Unione Africana e, nel 2008, permetterle l’ingresso nella Banca Africana dello Sviluppo[8]. Ma la presenza turca in Africa non è stata (e non è) solo commerciale: nel continente è stata avviata quella stessa strategia già sperimentata in Asia Centrale, attraverso una permeazione culturale e un forte sostegno allo sviluppo. La spesa ufficiale turca in aiuti umanitari e allo sviluppo è cresciuta dai 73 milioni di dollari del 2002 a 3,5 miliardi del 2013, facendo della Turchia il quarto paese donatore al mondo per aiuti umanitari[9].

Tra le altre cose, in questo frangente, è risultato fondamentale l’apporto dato dalle confraternite e scuole facenti capo all’allora alleato[10] Fethullah Gülen. Un soft power affiancato da un grande attivismo diplomatico per la cooperazione internazionale in seno alle organizzazioni intergovernative più varie. Nel 2005 la Turchia ottenne la Segreteria Generale dell’OCI; nel 2010 assunse la Presidenza parlamentare del Consiglio d’Europa; nel 2009-2010 ottenne infine un seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu[11].

In questo decennio Ankara è riuscita dunque a raggiungere gli obiettivi delineati da Davutoğlu per una ridefinizione della posizione internazionale del Paese. Un sapiente equilibrio che spaziava dalla normalizzazione delle relazioni con i vicini medio-orientali ad una crescita economica che sempre più poggiava su basi energetico-commerciali, il tutto affiancato da un iper-attivismo diplomatico che le permise un’estensione della propria agenda di politica estera rispetto al tradizionale asse Washington-Bruxelles. La Turchia del primo decennio a guida AKP sembrò dunque aver trovato un posto di primo piano nel sistema delle relazioni internazionali. Ma, come spesso succede, l’apice di un tragitto segna anche l’inizio del suo declino. Il complesso equilibrio trovato in quegli anni, che permise ad Ankara di giocare e puntare su più tavoli, celava risvolti potenzialmente drammatici. La fitta ragnatela tessuta dal duo Erdoğan-Davutoğlu presto si rivelò troppo complicata per reggere a cambiamenti radicali come quelli portati dalle cosiddette. “Primavere arabe”. Tanto che da “zero problemi con i vicini”, tra i più critici si è passati a parlare di “solo problemi con i vicini”.

 

Il realismo assertivo di Erdoğan e le frizioni con Davutoğlu

Guardando alla politica, interna ed estera, portata avanti oggi dal crescente autoritarismo di Erdoğan, non possiamo che constatare una repentina involuzione e cambio di rotta rispetto alle linee delineate nel pensiero di Davutoğlu. Differenze dovute sicuramente ai flussi imprevedibili della Storia e ai numerosi eventi che hanno sconvolto l’area mediorientale, che d’altra parte hanno determinato nel leader turco un significativo cambio di paradigma nel modo di concepire le relazioni internazionali. Come sottolineato altrove[12], a determinare la visione del Presidente turco è un sempre più marcato realismo volto alla massimizzazione del proprio interesse nazionale, da ricercare a qualunque costo. Pertanto Erdoğan, pur continuando a perseguire un’espansione dell’influenza turca nella regione (e non solo), ha mutato radicalmente i modi (e il linguaggio) con cui raggiungerla. Proprio questo cambio di paradigma segna la vera spaccatura, teorica e pratica, tra le due figure di spicco dell’AKP. Una spaccatura che si è manifestata in un primo momento nelle dimissioni (forse obbligate) dell’allora Primo Ministro Davutoğlu il 24 maggio 2016, e infine nella fuoriuscita dello stesso dal partito, lo scorso 12 settembre.

Conscio forse della progressiva perdita di appeal di Erdoğan nell’elettorato, dovuto alle sempre precarie e instabili condizioni economiche turche, l’ex Primo Ministro parrebbe intenzionato a scendere in campo con un proprio partito[13], in vista delle future elezioni del 2023. Davutoğlu cercherà dunque di incarnare un’opposizione credibile e riconosciuta a livello internazionale, vista la sua esperienza e visione più liberale. Visione non per questo però meno nazionalista, e pur sempre ispirata ad un islamismo ben radicato nella società, ad oggi requisiti necessari per ottenere consenso elettorale. Forse in prospettiva di un ricollocamento della Turchia all’interno della visione strategica delineata ad inizio millennio, abbandonando in questo modo quell’assertività politica e retorica infiammata – sul piano interno ed esterno – che l’attuale Presidente ha prediletto, nel passato più recente, per il governo del Paese.


[1] Una diplomazia attiva su più fronti, propositiva e volta alla partecipazione in tutti i consessi internazionali formali, oltre alla creazione di nuovi meeting e forum regionali, informali o meno, così da rinsaldare l’immagine di paese promotore di stabilità e come nazione osservante del diritto internazionale.

[2] ÖZCAN M., “Turkish Foreign Policy Towards Iraq in 2009”, PERCEPTIONS journal of international affairs, SAM Center for Strategic Research, Ankara, 2010, Volume XV, N° 3-4, pp. 113-132.

[3] J. Pepe, I dilemmi della nuova geopolitica turca, in P. Gargiulo (a cura di) La Turchia come attore globale e internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, Quaderni, N. 14, 2013, p.26.

[4] https://www.notiziegeopolitiche.net/navi-marmara-israele-e-turchia-si-riconciliano-con-un-accordo/

[5] Talbott, V., “Turchia e Israele: verso la fine della partnership strategica?”, in Osservatorio di Politica Internazionale, ISPI, Camera dei deputati servizio studi dipartimento affari esteri, n. 14, Luglio 2010, p.1.

[6] Fallito il Piano Annan per la risoluzione della questione di Cipro, a causa della bocciatura referendaria del 24 aprile 2004 da parte dei greco-ciprioti, Cipro (sud) entrò di diritto a far parte dell’Unione Europea pochi giorni dopo (1° maggio 2004), bloccando poi dal 2009 ben 6 capitoli, che si sommarono ai 5 ‘congelati’ dalla Francia e agli 8 non ammessi nei negoziati per l’adesione dallo stesso Consiglio Europeo del 2006. Pepe J., “I dilemmi della nuova Geopolitica turca”, op. cit. p. 27

[7] Paolini M., “Gli archivi del Sultano”, in Limes, rivista italiana di geopolitica, Gr. Ed. L’Espresso, Roma, 2010, n. 4 p. 59

[8] Il volume di scambi totale tra la Turchia e i paesi africani è passato dai 5 miliardi di dollari del 2003 ai 12 miliardi del 2008.; Pepe J., I dilemmi della nuova geopolitica turca, op cit. p. 29. I miliardi di scambi in accordi bilaterali con 38 paesi del continente saranno poi 16 nel 2011 e 17,5 nel 2015.

[9] Donelli F., “La riscoperta turca dell’Africa: tra storia e geopolitica”, in Tetide. Rivista di Studi Mediterranei, n. 3, 2016, p. 5.

[10] Lanza F. “Gülen e Erdoğan: da alleati a nemici mortali”, Pandora, 28 dicembre 2018.

[11] La Turchia di questi anni si è battuta a fondo per una riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e in generale una riorganizzazione istituzionale delle Nazioni Unite. “General Assembly President and Turkish official discuss Security Council reform” in news.un.org, 23 luglio 2008

Anche recentemente Erdoğan è tornato, con un articolo sulla rivista Foreign Policy, a parlare della necessità di una riforma delle istituzioni Onu. Articolo reperibile a questo link.

[12] Mariotti A., “La Turchia di Erdogan: cambi di paradigma storici”, Pandora, 6 agosto 2019.

[13]Bilgic T., “Former Turkish PM Davutoglu Quits Erdogan’s Ruling AK Party”, Bloomberg, 13 settembre 2019.

Scritto da
Alberto Mariotti

Laureato in scienze politiche all’Università di Pisa con una tesi sulla politica estera turca negli anni Novanta. Attualmente è iscritto alla Magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche dell'Università di Bologna, Campus di Forlì. Appassionato di Politica Internazionale.

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